GONZAGA, Vincenzo
Nacque nel 1605 da Ferrante (II), duca di Guastalla (conte fino al 1621), e da Vittoria Doria. Fu preceduto da numerosi fratelli, fra i quali Cesare (II), che ereditò il ducato nel 1630 e al quale subentrò, due anni dopo, il figlio Ferrante (III).
Trascorsa l'infanzia e l'adolescenza prevalentemente in Guastalla, nell'estate del 1622 il G. passò in Spagna alla corte di Filippo IV, insieme con un altro fratello maggiore, Francesco, al servizio della regina Isabella. Nei due decenni successivi operò nello Stato di Milano, impegnato a contrastare i sempre più pressanti interessi militari francesi sui territori a Ovest dello Stato; dapprima, fino al 1636, fu comandante di una compagnia, per poi essere designato, nella seconda metà di quell'anno, alla carica di tenente generale della cavalleria. All'inizio del 1640 fu proposto infine come comandante della cavalleria spagnola di Napoli in servizio nel Milanese. Negli anni seguenti fu apprezzato consigliere del governatore di Milano, dal quale fu chiamato in più occasioni a esprimere il suo parere, per esempio sul mantenimento di alcune piazze fortificate piemontesi nel 1642, o sulla demolizione di altre fortificazioni spagnole, come nel caso, nei primi mesi del 1646, della strategica Rocchetta di Vigevano.
Allo scopo di gratificarlo per la sua preziosa opera, in più di un'occasione il governatore di Milano chiese alla corte madrilena l'assegnazione di mercedi in favore del Gonzaga. Tale era il grado di fiducia che più volte gli furono affidate delicate missioni in Spagna, non solo per dar conto dei problemi dello Stato di Milano, ma anche, come nel gennaio-maggio 1647, per riferire personalmente del progetto di matrimonio del duca di Guastalla Ferrante (III), suo nipote, con la figlia del duca di Modena, Margherita d'Este, proposito fortemente contrastato dagli Spagnoli e dallo stesso G., essendo gli Estensi da sempre filofrancesi. A causa di uno scandalo che vide coinvolto il suo segretario, accusato di essersi impossessato indebitamente di denaro, nel 1648 il G. chiese di essere esonerato dal comando della cavalleria, che tuttavia dovette continuare a ricoprire perché è attestata la sua presenza a Milano fino a tutto il 1657.
Negli anni seguenti, tornato definitivamente in Spagna, fu impegnato nella campagna di repressione contro i rivoluzionari portoghesi che si concluse, nel 1668, con il riconoscimento dell'indipendenza del portogallo.
Il ruolo di primo piano che assunse allora all'interno di quella corte è testimoniato dai numerosi titoli onorifici a lui concessi, come quello di cavaliere dell'Ordine di Calatrava o di commendatore di Villafranca. A tali onorificenze si aggiunsero gli autorevolissimi incarichi, da ritenersi per un italiano ancor più prestigiosi, nel governo di Galizia, Castiglia e Catalogna, quest'ultimo ricoperto ininterrottamente dal 1663 al 1667 con il titolo di viceré. A tali incarichi aggiunse in seguito l'attività di consigliere all'interno del Consiglio supremo di guerra, nel Consiglio di Stato d'Italia e in quello delle Indie.
Nonostante gli onerosi impegni militari e amministrativi assunti presso la monarchia spagnola e presso l'Impero, dove divenne consigliere segreto dell'imperatore Leopoldo e maggiordomo maggiore dell'imperatrice Eleonora Maddalena (1676), mantenne tuttavia costanti legami con la famiglia d'origine, alle cui vicende cercò di dare il proprio indirizzo in più di un'occasione contando sulla rete di conoscenze intrecciata alla corte spagnola, da sempre sostenitrice del ducato di Guastalla.
Proprio a ragione di tale sostegno, nel 1647 il G., come già detto, aveva tentato inutilmente di dissuadere Ferrante (III) dal contrarre matrimonio con Margherita d'Este, figlia del filofrancese duca di Modena Alfonso. Le conseguenze temute dal G. non tardarono ad arrivare: a dispetto della neutralità assunta e poi mantenuta da Ferrante nei conflitti tra Spagna e Francia, l'anno successivo l'imperatore restituì l'investitura delle terre di Luzzara e Reggiolo al duca di Mantova, sottraendola quindi ai Gonzaga di Guastalla. Tali investiture erano state assegnate al ducato di Guastalla con Cesare Gonzaga, fratello del G., come contropartita per la mancata assegnazione a Mantova nei trattati seguiti al sacco di quella città del 1630. La mancata consegna di tali terre da parte di Guastalla rappresentò in seguito un fattore costante di dissidio tra i due ducati, per sanare il quale lo stesso Ferrante richiese a più riprese l'intervento del G. presso la corte spagnola, come testimoniato dai numerosi documenti nell'archivio di Simancas.
In assenza di prole maschile del duca di Guastalla, la situazione sembrò trovare una soluzione nel 1671, quando il duca di Mantova Ferdinando Carlo sposò la primogenita di Ferrante, Anna Isabella, la quale, alla morte del padre avrebbe recato in dote l'intero ducato di Guastalla. Tale soluzione, pur se assecondata dall'imperatore Leopoldo I, scontentava gli altri tre Gonzaga aspiranti alla successione del ducato, il fratello di Ferrante, Vespasiano conte di Paredes in Spagna, dove viveva, Vincenzo conte di San Paolo in Puglia, loro cugino e omonimo del G., con il quale è sovente confuso, e lo stesso G. loro zio. Allo scopo di favorire le rivendicazioni del nipote a lui più caro, Vespasiano, il G. si adoperò per far tramontare la candidatura di Vincenzo: una volta che questi, nel 1672, rimase vedovo senza eredi, il G. rinunziò in suo favore alla commenda dell'abbadia di Lucedio in Monferrato, tradizionale appannaggio ecclesiastico dei Gonzaga, affinché il conte di San Paolo potesse dedicarsi alla vita religiosa, avviarsi a una promettente carriera ecclesiastica e quindi non pensare più alla successione.
Continua ma vana fu negli anni seguenti l'opera di persuasione del G. presso le corti di Madrid e di Vienna, dove soggiornò dall'aprile 1675 al luglio 1677, a favore della successione di Vespasiano. Nel 1677 Ferrante (III) si ammalò gravemente al punto da richiedere, sul finire di quell'anno, la presenza a Guastalla dello zio; questi, fermo ancora nella sua avversione per la successione di Ferdinando Carlo su Guastalla, accorse da Vienna per vigilare sulle sorti del ducato ed evitare un colpo di mano del duca di Mantova, il quale era risoluto a inviare un presidio militare nella cittadina ancor prima della morte del suocero. A nulla valse l'opera di dissuasione del G. e la sua autorevole presenza in Guastalla, poiché Ferrante (III) morì l'11 genn. 1678 lasciando il campo libero alla successione di Ferdinando Carlo. Nei giorni successivi il G. tentò inutilmente, per diverse vie, di opporsi, inviando lettere di protesta e di denunzia al governatore di Milano e all'ambasciatore mantovano a Milano Pier Maria Rangoni; unica sua consolazione rimase il titolo di duca di Guastalla che per qualche tempo si continuò a dare in Spagna a Vespasiano suo nipote pur senza alcuna legittimità.
A distoglierlo temporaneamente dalle preoccupazioni per le sorti del ducato di Guastalla sopraggiunse in quel periodo la sua designazione a viceré di Sicilia, carica che più di un secolo prima era stata ricoperta per oltre un decennio dal fondatore della dinastia guastallese. Il G. succedeva al cardinale L. Fernández de Portocarrero.
La nomina (21 nov. 1677) cadeva in un momento drammatico: la rivolta di Messina, fomentata dalla Francia, durava ormai da quattro anni e la Spagna non intendeva ulteriormente rinviare la riconquista e la sottomissione della città. Le ragioni della scelta di un ultrasettantenne, non in buona salute, per un incarico così impegnativo sono state variamente spiegate. Secondo il Laloy il suggerimento sarebbe venuto da don Giovanni d'Austria, che aveva conosciuto personalmente il G. e ne aveva apprezzato le capacità militari in occasione della campagna contro il Portogallo. Le testimonianze riportate dal Laloy mostrano che il G. era conosciuto e apprezzato per l'intelligenza, l'abilità e l'esperienza non appannate dagli anni, qualità che secondo altri si univano all'ambizione e a una certa ambiguità del carattere.
Partito da Guastalla il 25 genn. 1678, il G., con galere, fanteria e munizioni aggregate al suo passaggio da Napoli, arrivò a Palermo il 3 marzo e a Messina il 25 dello stesso mese. La città, dalla quale si erano allontanati, insieme con i Francesi, coloro che si erano compromessi con la rivoluzione, tentava di ottenere un indulto generale con indirizzi di omaggio al viceré e professione di fedeltà alla monarchia spagnola. Anche il G. era dell'avviso che la cosa più importante fosse ricreare il legame e l'affezione della città alla Spagna; accordò quindi l'indulto e la restituzione dei beni a chi non aveva lasciato la città (29 marzo), cercando nel contempo di tenere a freno i soldati che, scontenti per il ritardo nella corresponsione del soldo, tendevano a comportarsi come truppe d'occupazione.
Consapevole della volontà del sovrano e dei Consigli di Stato e d'Italia di abolire i privilegi della città che, come notavano i più accaniti sostenitori della repressione, era usa comportarsi come una repubblica indipendente, il G. prese provvedimenti in tal senso: rese di nomina regia le cariche cittadine, prima elettive, sostituì i senatori con altri ritenuti di provata fedeltà alla Spagna, nominò i giudici della Corte stratigoziale (la più elevata magistratura cittadina) e altri funzionari; affidò l'amministrazione del peculio frumentario a un'apposita deputazione; fece fondere le monete con l'effigie di Luigi XIV per coniarne altre con l'impronta del re spagnolo; riportò alla diretta dipendenza della Corona i casali e i villaggi del circondario.
Il G. era convinto che provvedimenti troppo severi attuati indiscriminatamente avrebbero colpito proprio coloro che erano rimasti fedeli alla Spagna, e agendo di conseguenza, fornì lo spunto a critiche più o meno scoperte che sempre più spesso consiglieri, funzionari, generali spagnoli indirizzavano a vari membri del governo: lo si accusava volta a volta di essersi mostrato troppo lento e indeciso, o anche di avere agito con troppa indipendenza da Madrid; di avere consentito alla città di mantenere certi privilegi (soprattutto si puntava l'attenzione sul titolo di Senato); di avere affidato incarichi di responsabilità a personaggi ribelli notori. Inevitabilmente si preparava il terreno per la sua sostituzione, che fu decisa ai primi di settembre del 1678 dietro pressione soprattutto del Consiglio d'Italia, e con l'occasione di una controversia sulle prerogative spettanti al gran cancelliere dello Studio messinese.
Secondo il Laloy il G. avrebbe indugiato troppo a informare nei dettagli il governo di tutto quanto accadeva e di ogni provvedimento preso, lasciando così ampio spazio agli interventi dei suoi detrattori: questo (unito a qualche tratto di debolezza e indecisione, dovute all'età) sarebbe stato il suo errore fondamentale e la vera causa della rimozione e non, come fu anche sostenuto, la sua posizione di ministro "italiano" alleato con i funzionari siciliani in contrapposizione a quelli spagnoli nel tentativo di mantenere i privilegi di Messina. Certo non fu secondario il problema del denaro per pagare le truppe e riadattare le fortificazioni. Il G. aveva predisposto un progetto che prevedeva l'edificazione ex novo di una cittadella e l'abbattimento di parte dei bastioni già esistenti, cosa che avrebbe consentito di tenere la città sotto controllo da ogni lato. Il progetto era stato approvato, ma non vi era alcuna possibilità di reperire i fondi necessari né dal Patrimonio di Sicilia, né dalla vendita dei beni confiscati, i cui proventi erano irrisori, nonostante fosse stata costituita un'apposita giunta, e nonostante il nuovo consultore, Rodrigo Quintana, si fosse prodigato per rendere la vendita più spedita e produttiva.
In alcune lettere del settembre 1678, che il Laloy riporta per esteso, il G., intuendo che presto sarebbe stato sostituito, illustra al sovrano i principî cui si era ispirato nell'azione di governo. Ribadisce - ricordando che Filippo IV si era mostrato clemente nei confronti di Barcellona, altrettanto colpevole di Messina -, che i regni si mantengono guadagnandosi la fiducia dei sudditi e che, nel caso di Messina, qualche concessione di carattere formale e il contenimento delle spese (si profilava la necessità di nuove imposizioni per i lavori delle fortificazioni) sarebbero serviti a non esasperare e a non indisporre ulteriormente la popolazione. Nel settembre del 1678 gli giunse la notizia della nomina del successore, il conte di Santisteban.
Il G. non poté lasciare la Sicilia prima di dicembre. Gli ultimi provvedimenti che prese furono in linea con la sua precedente condotta, tranne quello relativo all'imposizione di nuove gabelle, alla quale fu costretto per pagare le truppe (ma anche in questo caso ebbe cura di non tassare generi di prima necessità), e il bando del 4 ott. 1678 sulla confisca dei beni dei messinesi ribelli.
L'atteggiamento del G., definito "pietoso" dai contemporanei, dalla storiografia più recente è stato invece considerato più lungimirante di quanto allora non fosse apparso. Egli potrebbe avere compreso che la rivoluzione di Messina, di là dalle interferenze di potenze straniere, era la spia del disagio che nel giro di alcuni decenni avrebbe contribuito alla dissoluzione di alcuni domini spagnoli. E anche se non deliberatamente e direttamente (ma comunque in opposizione alla visione municipale e particolaristica di alcuni suoi collaboratori), cercò di assicurare il permanere e il ricostituirsi della prosperità economica della città, senza le quali poteva essere a rischio la quiete di tutto il Regno.
Nei primi giorni del 1679 il G. fece ritorno a Madrid, dove fu nominato consigliere di Stato e, dal 1680, presidente del Consiglio delle Indie, mantenendo la carica di presidente del Consiglio d'Italia. Non dimenticò tuttavia di seguire le vicende guastallesi assicurando, già nel maggio-giugno del 1680, la sua assistenza e quella spagnola all'incaricato di Vespasiano a Vienna circa l'ennesima richiesta sul possesso di Guastalla. In seguito alla morte di Vespasiano assecondò, questa volta con esito più felice, le richieste dell'altro pretendente, Vincenzo Gonzaga.
Questi aveva nel frattempo sposato (30 giugno 1679) l'altra figlia del defunto duca Ferrante; favorito da tale matrimonio, dalla mancanza di eredi diretti del duca Ferdinando Carlo e dalla dissennata politica filofrancese di questo, Vincenzo otteneva, il 4 maggio 1692, la legittimità imperiale del possesso del ducato di Guastalla ai danni del duca di Mantova. Fu l'ultima delle soddisfazioni politiche e personali del G.; già da alcuni mesi aveva deciso di vivere il resto dei suoi anni ritirato nel convento dei cappuccini di Salamanca. Tale scelta, unita ad altre circostanze, quali l'avere avuto in godimento fino al 1672 la commenda dell'abbadia di Lucedio, e la mancanza di un matrimonio e di prole - di cui non si hanno notizie - potrebbero far supporre che il G., la cui natura pia e religiosa era ben nota, possa aver pronunciato nel corso della sua esistenza qualche tipo di voto, tale da non consacrarsi totalmente alla vita religiosa; una condizione che, se egli non poté assecondare appieno a causa della sua infaticabile attività, abbracciò negli ultimi anni allorquando, ormai novantenne, scelse di ritirarsi.
Il G. morì nel convento di Salamanca il 23 nov. 1694.
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