Vincenzo Gioberti
Nessun pensatore probabilmente esercitò in Italia, alla metà dell’Ottocento, un’influenza politico-culturale più vasta di Vincenzo Gioberti. Ciò fu determinato non solo dal fatto che in quel periodo venne eletto per due volte presidente della Camera del Regno di Sardegna e per breve tempo divenne anche primo ministro: quegli incarichi, in realtà, erano l’indizio più significativo dell’influenza carismatica delle sue idee relativamente al ruolo storico svolto dall’Italia nel processo di incivilimento dei popoli e al progetto neoguelfo (che fu dominante nella prima fase del Risorgimento) di una confederazione dei maggiori Stati della penisola sotto la presidenza moderatrice del pontefice quale risposta al secolare problema dell’unificazione nazionale.
Lo stretto legame tra riflessione filosofica, attività pubblicistica e impegno politico fu forse il tratto più caratteristico della personalità di Gioberti. Nato a Torino il 5 aprile 1801, egli si formò nelle scuole dei padri oratoriani e poi presso la facoltà teologica. Ordinato sacerdote il 19 marzo 1825, nonostante una non dissimulata ritrosia, fu nominato di lì a poco cappellano alla corte di Carlo Felice. Nel clima conservatore del Piemonte della Restaurazione egli andava in realtà maturando privatamente una ricerca di vasto respiro, che lo indusse alle più disparate letture, in particolare all’accostamento dei classici della tradizione filosofica occidentale – con una predilezione per la linea da lui definita idealistica, da Platone ad Agostino, da Nicolas de Malebranche a Giambattista Vico e a Immanuel Kant – e al confronto con vari indirizzi di pensiero del suo tempo, dal tradizionalismo di Joseph de Maistre al «nuovo cristianesimo» di Claude-Henri de Saint-Simon, mentre già si misurava con la prima produzione filosofica di Antonio Rosmini. In questo quadro variegato prevalse nel giovane Gioberti un orientamento sostanzialmente eclettico, vagamente ancorato alla religione cristiana, ma comunque sensibile a una tradizione filosofica italiana (da Pitagora a Rosmini, passando per la patrologia latina, l’Umanesimo e Vico) e, sul piano politico, alle aspirazioni nazionali.
Coinvolto nella rete di alcune società segrete piemontesi, subì la repressione antimazziniana del 1833 e fu costretto all’esilio, prima a Parigi, poi per un decennio a Bruxelles, quindi nel 1845 di nuovo a Parigi, fino al rientro a Torino nell’aprile 1848, mentre era in pieno svolgimento la Prima guerra d’indipendenza contro l’Austria. I lunghi anni dell’esilio, trascorsi in Paesi costituzionalmente liberali, furono decisivi nello sviluppo del suo pensiero: allargarono i suoi orizzonti culturali e politici, facendogli meglio percepire le particolarità della situazione italiana; favorirono un ritorno più convinto alla fede cattolica e una netta presa di distanza dalla linea dei movimenti insurrezionali; soprattutto portarono a piena maturazione la sua riflessione filosofica che nel quadro di un’originale ripresa dell’ontologismo riarticolava i nessi tra religione, civiltà e politica.
Tutto ciò lo indusse a pubblicare alcune tra le sue opere maggiori, fra le quali il celebre Del primato morale e civile degli Italiani (1843), che tra l’altro rendeva nota la sua proposta politica sulla questione nazionale e che in patria ottenne un clamoroso successo, divenendo la base del progetto neoguelfo. La fase dell’impegno politico attivo, cui si è accennato in apertura, si chiuse in modo burrascoso nell’aprile del 1849. Ritiratosi in un secondo, volontario esilio a Parigi, Gioberti riprese la sua riflessione filosofica e politica, maturando l’adesione al programma unitario sabaudo, espressa soprattutto nel Rinnovamento civile d’Italia (1851). Nel gennaio 1852 lo raggiunse il decreto della Congregazione del Santo Uffizio, che condannava tutte le sue opere. Pochi mesi dopo, il 26 ottobre 1852, si spense improvvisamente. Nel volgere di pochi anni videro la luce altri scritti di grande importanza, fino allora rimasti inediti, come Della filosofia della rivelazione (1856), i frammenti Della riforma cattolica della Chiesa (1856) e soprattutto Della protologia (1857).
Al centro del pensiero storico e politico di Gioberti sembra porsi la tematica dell’incivilimento, che fa da snodo tra l’elaborazione filosofico-religiosa e quella politico-nazionale. Nella prima opera della maturità, la Teorica del sovrannaturale (1838), il concetto di civiltà e della sua origine viene inizialmente definito in rapporto alla natura dell’uomo: da un lato, egli è il più perfettibile dei viventi, dall’altro la civiltà affonda le sue radici nella capacità dell’essere umano di conoscere e di agire liberamente. Ma poiché l’uomo è nato in società e fuori di essa non può né perfezionare il proprio essere, né tantomeno riceverlo e conservarlo, ne consegue che la sua perfettibilità deve essere sociale: dunque
lo stato sociale è nel medesimo tempo base ed apice, principio e fine del nostro perfezionamento; onde questo chiamasi civiltà; colla qual voce vien significata l’indole affatto sociale di quell’avanzamento ch’è proprio della nostra specie (Teorica del sovrannaturale, a cura di A. Cortese, 2° vol., 1970, p. 13).
Ma, precisa, la conoscenza umana può applicarsi sia ai fenomeni sensibili, che egli chiama «fatti» e che comprendono anche i cosiddetti «interessi materiali» connessi ai «comodi della vita», sia alle cose intelligibili, che sono da lui definite «idee» e che abbracciano anche gli «interessi morali» come la religione, l’etica sociale, le scienze, le lettere e le parti più nobili della politica. Ora l’avanzamento della civiltà avviene come crescita di conoscenze tanto nella sfera dei «fatti» quanto in quella delle «idee», ma con una progressione molto diversa, perché i «fatti possibili a sapersi» si scoprono ogni giorno, mentre la comprensione più ampia e profonda delle «idee» è assai più lenta. Per essere autenticamente tale, la civiltà deve promuovere sia gli uni sia le altre, ma con un ordine preciso, mediante il quale «le idee governino i fatti, e non i fatti le idee»: «se la cosa cammina a rovescio – ammonisce – la civiltà diventa regressiva, e inclina verso la barbarie» (Teorica del sovrannaturale, cit., p. 19).
Chiarito questo, che appartiene all’ordine naturale, per l’abate torinese la civiltà è organicamente connessa anche all’ordine soprannaturale: soggettivamente, perché l’uomo è dotato di una «sovraintelligenza» che gli fa presentire per analogia l’essenza delle cose, i misteri della vita e di Dio, che rimangono però sostanzialmente inaccessibili; oggettivamente, perché queste essenze e questi misteri gli vengono in parte svelati attraverso la rivelazione soprannaturale ebraico-cristiana. Essa conferma e fa conoscere nel modo più autorevole alla specie umana che l’inizio e la fine del suo incivilimento travalicano lo spazio e il tempo, hanno cioè una dimensione e una destinazione ultraterrena. Nondimeno
nello stesso modo, che dentro i confini del mondo sensibile, l’azione conservatrice di Dio continua con una specie di creazione assidua e incessante l’opera della creazion primitiva, e la perpetua insino alla consumazione dei secoli; così nel mondo spirituale la rivelazione generatrice della civiltà le tien dietro, l’accompagna, e l’informa nella sua diffusione e ne’ suoi progressi (Teorica del sovrannaturale, cit., p. 62).
Civiltà e rivelazione sono distinte, ma hanno precise caratteristiche tra loro corrispondenti, perché diversamente ne nascerebbe una dissonanza estranea al disegno divino. Si dà quindi una storia parallela e intrecciata di mutuo aiuto tra incivilimento umano e rivelazione religiosa culminante nel cristianesimo, ma
il fondamento precipuo della buona consonanza fra loro consiste in ciò, che niuno di essi si allarghi fuor del giro suo proprio e contrasegnato dalla sua natura; tanto che si aiutino a vicenda, senza confondersi, al conseguimento del loro proposito (Teorica del sovrannaturale, cit., p. 151).
Il vero cristianesimo, infatti, non interferisce nei beni temporali se non indirettamente e in quanto il loro uso si connette con la morale. Tuttavia, questa religione rivelata, custodita nella Chiesa cattolica e in particolare nel papato romano, mostra sul piano storico un influsso crescente nell’incivilimento dell’Italia e dei popoli europei, fino a esercitare un vero e proprio primato che, con la scoperta del «nuovo emisfero», pare destinato a diffondersi presso i vari popoli, fino a che abbia compreso tutta la nostra specie.
Stabilito in questo modo il rapporto tra religione rivelata e incivilimento umano, Gioberti ne sviluppa le implicazioni e i fondamenti in un’opera pubblicata sempre a Bruxelles: l’Introduzione allo studio della filosofia (1840). Premessa la necessità di una restaurazione degli studi speculativi, inesorabilmente declinati nell’orizzonte europeo a causa dell’oscuramento della tradizione filosofica italiana, l’opera di Gioberti si propone di porre le basi di un organico sistema capace di contrapporsi alle deviazioni soggettivistiche o panteistiche della filosofia moderna, che hanno la loro radice nella Riforma e nel metodo analitico di René Descartes. Perno del sistema, di palese orientamento ontologista, è l’Idea, intuita dalla mente umana come oggetto reale indipendente dal soggetto e quindi come Ente o primo ontologico.
Il riferimento all’Idea è espresso in termini filosofici come giudizio sintetico a priori dalla seguente «formola ideale»: «l’Ente crea l’esistente» (Introduzione allo studio della filosofia, a cura di G. Calò, 2° vol., 1941, pp. 184-87). Tale formula pone nell’atto creativo sia l’origine dell’Universo, sia l’intera enciclopedia delle scienze, che nella sua origine è divina e ha la stessa matrice della realtà creata.
La formula ideale chiarisce dunque l’identico principio generativo e il fondamento della civiltà umana e della rivelazione religiosa. Essa implica peraltro un secondo ciclo creativo che procede, a differenza del primo, dagli esistenti all’Ente e del quale è partecipe l’uomo in quanto dotato di ragione e di libero arbitrio. In questo secondo ciclo civiltà e rivelazione hanno lo stesso fine, ossia il loro compimento ultraterreno nell’unione tra gli esistenti e l’Ente, ma questo non può avvenire, per quanto riguarda la specie umana, senza il «faticoso travaglio del libero arbitrio», «dovendo l’esistente cooperare all’Ente in modo liberissimo», il che comporta la possibilità del male in tutte le sue forme.
Tra le varie applicazioni della formula ideale, sviluppate nella seconda edizione «riveduta e corretta» dell’Introduzione (1844), una riguarda la sfera della politica. Ponendo nell’Idea anche l’origine della sovranità, Gioberti ne confuta sia un erroneo fondamento contrattualistico, che discende dalle premesse soggettivistiche della filosofia moderna, sia l’identificazione con il potere assoluto di un principe. In realtà, come dall’Idea scaturisce la formula ideale, da quest’ultima deriva anche una formula politica, per la quale «il sovrano fa il popolo», ma «il popolo diventa sovrano». Il regime politico conforme a questa formula è la monarchia rappresentativa, vista come sintesi tra un potere tradizionale e un’«aristocrazia elettiva» chiamata a estendersi con il progredire dell’incivilimento. Inoltre, poiché Gioberti distingue il diritto sovrano dal diritto del principe, riconosce come «unico giure assoluto» l’idea di sovranità nazionale e, quando la nazione sia istituita come corpo politico, le trasferisce il carattere di primazia che i fautori dell’assolutismo attribuivano al re, al punto da ammettere, in casi estremi, la legittimità della rivoluzione (Mustè 2000, pp. 193-205).
All’interno di questa cornice teorica anche Del primato morale e civile degli Italiani (1843), pubblicato a Bruxelles in due ponderosi volumi, può essere meglio compreso. L’opera è divisa in due sezioni, «chiamando a rassegna le varie parti dell’incivilimento nel doppio ordine dell’azione e del pensiero», e la sua cifra ermeneutica è il tentativo di definire i caratteri originali e permanenti della nazionalità italiana quale condizione necessaria per il suo risorgimento anche politico e per il rilancio della sua missione civilizzatrice nel mondo.
Non a torto si è spesso evidenziato – più che il contributo dello Stato sabaudo, considerato comunque strategico sul piano politico – il nesso organico che l’abate torinese istituisce tra il papato romano e il «genio italico», il ruolo demiurgico svolto dal centro istituzionale del cattolicesimo, sede provvidenziale del primato religioso, nei riguardi della nazionalità italiana lungo il corso dei secoli e particolarmente nel Medioevo, quando i dettati religiosi e morali del cristianesimo permeano e danno forma anche agli ordini civili. Da quell’epoca, secondo l’autore, l’Italia diviene
la nazione autonoma ed autorevole per eccellenza, perché diede a tutte le nazioni culte dell’età moderna i germi del loro incivilimento e, non ostante la sua declinazione, li serba vivi e incorrotti, dove che essi sono guasti più o meno e alterati presso tutte le altre genti: onde da lei sola il genere umano può ricevere a compimento i benefizi civili. Il che torna a dire che l’Italia, essendo creatrice, conservatrice e redentrice della civiltà europea, destinata ad occupar tutto il mondo e a diventare universale, si può meritatamente salutare col titolo di nazione madre del genere umano. Nel che risiede quel primato morale e civile, che la Provvidenza le ha assegnato (Del primato morale e civile degli Italiani, a cura di U. Redanò, 1° vol., 1938, pp. 32-33).
Da queste premesse scaturisce la legittimità morale e politica di un protagonismo papale anche nel Risorgimento italiano. Preso atto che il papa è il principio dell’unità italiana, solo lui può avviare il processo di unificazione della penisola, ma «in modo conforme e proporzionato all’indole e ai bisogni del secolo», dunque tenendo conto della progressiva acquisizione di indipendenza civile da parte dei popoli e assumendo le forme preminenti dell’autorevolezza morale, dell’influenza pacificatrice e sul piano politico dell’arbitrato, il quale è per definizione dipendente dalla libera adesione delle parti in conflitto. È qui che si realizza la saldatura tra la riforma civile del papato e il Risorgimento neoguelfo dell’Italia, nel senso di una confederazione dei maggiori Stati italiani, retti a monarchia «consultiva» sotto la presidenza moderatrice del pontefice e la guida politica di un «governo federativo». Ciò consentirebbe, nelle intenzioni di Gioberti, la trasformazione in unità «nazionale e politica» della preesistente, ma virtuale, unità italiana, senza pregiudizio per il legittimo potere dei sovrani e quindi senza fratture rivoluzionarie. Strumento di questo processo sarebbe, infatti, un’«alleanza italica» di tipo politico, l’unica in grado di garantire un futuro alla nazione.
Tuttavia, il legame privilegiato tra il papato e l’Italia ha anche un respiro universalistico che riguarda tanto l’uno quanto l’altra. Le riforme istituzionali e politiche che dovrebbero connettere ancor più profondamente Roma all’Italia hanno per Gioberti un superiore significato religioso. Dopo almeno tre secoli di decadenza, il papato ha infatti, proprio attraverso il Risorgimento italiano, l’occasione storica per recuperare pienamente e in forma adatta ai tempi la propria funzione universale, insieme religiosa e civilizzatrice, nel concerto delle nazioni. Nel disegno universale della Provvidenza ogni popolo è o può diventare portatore di un «dono speciale» che arricchisce in modo significativo la civiltà umana. Ma questo disegno si dispiega a cerchi concentrici via via più grandi e ha nel papato il suo centro propulsore e gerarchico: da qui, infatti, il cattolicesimo si propaga secondo onde successive – l’Italia, l’Europa, l’Oriente, l’umanità – verso tutte le direzioni del mondo, portando insieme il Vangelo e la civiltà (Del primato morale e civile degli Italiani, a cura di U. Redanò, 2° vol., 1939, pp. 245-49).
Scritto come libro «moderatissimo», il Primato incontra subito un grande successo. Tra il 1843 e il 1848 si contano almeno una decina di edizioni, sempre in italiano. La stampa dell’epoca non manca di amplificarne la portata. Si viene così creando un mito neoguelfo – cattolico e nazionale, moderato ma a suo modo popolare – che dalla metà del 1846 è ulteriormente alimentato dal primo corso del pontificato di Pio IX, intrecciandosi a sua volta con il mito del «Papa liberale».
Tra le interpretazioni più rilevanti vanno ricordate quella di Cesare Balbo nelle Speranze d’Italia (1844), più orientata verso la monarchia sabauda come fulcro dell’unificazione nazionale, e in certa misura anche quella di Antonio Rosmini nella Costituzione secondo la giustizia sociale (1848). In entrambi i casi il primato italiano viene ridimensionato, mentre viene accolta più favorevolmente la proposta politica, pur con varianti istituzionali non trascurabili. Negativa è invece l’accoglienza riservata da repubblicani e democratici come Giuseppe Ferrari e Giuseppe Mazzini.
Nella Teorica del sovrannaturale e nell’Introduzione Gioberti menziona molti nemici dell’incivilimento, ma dopo il successo ecumenico del Primato, egli avverte la necessità di precisare meglio il suo pensiero, indicando a chiare lettere il principale avversario del suo progetto culturale e politico: il «gesuitismo». Nella seconda edizione belga del Primato compare così un saggio introduttivo, stampato anche a parte con il titolo di Prolegomeni del Primato morale e civile degli Italiani (1845). Nelle sue pagine l’abate torinese ingaggia una polemica frontale contro un certo modo di interpretare il cattolicesimo, incarnato soprattutto dalla Compagnia di Gesù, ma eccedente di molto, nel suo «spirito», i confini dell’Ordine. Lungi dal disconoscere la grandezza di Ignazio di Loyola e di «persone onorande» che ancora sono presenti nella Compagnia, Gioberti si scaglia contro il «gesuitismo» ottuso che si contrappone al cattolicesimo autentico e si atteggia a nemico della civiltà e del movimento nazionale italiano.
La radice del male, a suo parere, sta nella «sostituzione di uno scopo gretto e meschino, che fra i termini di uno o pochi individui si restringe, a quel fine alto, nobile ed universale, onde muove quanto di bello e di grande si trova sopra la terra» (Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani, a cura di E. Castelli, 1938, p. 89). Ogni istituto che onora la Chiesa esprime certo un solo aspetto dell’idealità assoluta, tuttavia tale parzialità non aspira a invadere i diritti altrui e accetta non in apparenza, ma in concreto, il bene più grande della religione e della civiltà.
Ma i Gesuiti di ciò non si appagano: vogliono essere universali: non basta alla loro ambizione l’esercitare l’ufficio di un semplice membro, se non hanno il governo di tutto il corpo, e se non fanno le veci del capo; onde, non che riconoscere la maggioranza del politico e spiritual reggimento, aspirano a padroneggiarli entrambi (p. 93).
Questo spirito settario e insieme autoritario teme gli orizzonti sconfinati della scienza «virtuosa», restringendosi a guerricciole scolastiche e a trame cortigiane; avversa «i progressi civili e le cognizioni che li partoriscono», il che «fa ingiuria alla Providenza», come se «i progressi della civiltà non appartenessero ai disegni divini nella storia dell’universo»; si rifugia in un misticismo deviante, nella falsa convinzione che «il tirocinio della perfezione celeste» sia contrario alla civiltà umana e che l’unico bene sia quello ultraterreno, mentre accrescere la civiltà è un «apostolato di religione»: «un apostolato imperfetto», ma tuttavia «utilissimo e potentissimo nel suo giro, perché comunica le religiose influenze a milioni d’individui» che ne sarebbero esclusi, se dovessero riceverle dalla gerarchia ecclesiastica (pp. 101-103).
Alle repliche risentite di Francesco Pellico e di Carlo Maria Curci, illustri scrittori della Compagnia di Gesù, Gioberti risponde con la pubblicazione de Il gesuita moderno (5 voll., 1846-1847): cinque volumi nei quali dà libero sfogo alla sua vena polemica, accumulando prove su prove, tratte in gran parte dalla storia, per avvalorare l’idea dominante già enunciata nei Prolegomeni. L’opera, per altro verso, è tutt’altro che trascurabile sia per una notevole appendice al quinto volume, sia per la sua controversa accoglienza.
Nell’appendice Gioberti si confronta con il saggio Della nazionalità (1847) del gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, in cui viene giudicato inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale qualora si trovi in conflitto con i diritti dei sovrani. Da parte sua Gioberti afferma invece un’idea di nazionalità come «creatrice di diritti», lasciando in tal modo trapelare il superamento delle prudenze legittimistiche contenute nel Primato. Dal punto di vista dell’accoglienza Il gesuita moderno è a sua volta importante perché la sua diffusione supera quella dello stesso Primato, diventando una sorta di vessillo cattolico interprete della forte avversione antigesuitica che precede il 1848. Ma per un contraccolpo quasi inevitabile, a fine maggio del 1849, quando l’ondata rivoluzionaria dell’anno precedente sta rifluendo, Il gesuita moderno viene condannato dalla Congregazione dell’Indice insieme ad altre opere di Rosmini e di Gioacchino Ventura, preludio della seconda e più grave condanna del gennaio 1852.
Per intendere meglio il senso di questo provvedimento è tuttavia opportuno fare un passo indietro ed esaminare gli sviluppi del pensiero e dell’impegno politico di Gioberti nell’anno in cui, come una meteora, attraversa il cielo italiano. L’elezione di Pio IX al soglio pontificio nel giugno 1846 e i primi atti riformatori del suo pontificato, come pure le critiche suscitate dal suo antigesuitismo, lo inducono sul finire del 1847 ad avviare la stesura dell’Apologia del libro intitolato “Il gesuita moderno” (1848), opera che più di ogni altra risente del rapido evolversi della situazione politica italiana ed europea nei primi mesi del 1848, con lo scoppio delle rivoluzioni e l’inizio della Prima guerra di indipendenza. L’Apologia si presenta in realtà, soprattutto nell’ultimo capitolo, come una sorta di manifesto ideale e programmatico, nel quale «ciò che oggi avviene nella nostra penisola», in coerenza con la prospettiva del Primato, è descritto non solo come «un fatto italico e civile, ma eziandio un evento religioso, europeo, universale» (Apologia del libro intitolato “Il gesuita moderno”, a cura di R. Orecchia, 1° vol, 1973, p. 60). In particolare l’avvento di Pio IX e dei suoi atti riformatori viene interpretato dall’autore come l’incarnazione provvidenziale del pontefice da lui stesso preconizzato: ora l’Italia ha finalmente trovato la sua guida luminosa. Per questo la «rivoluzione italiana» assume i caratteri molteplici dell’idealità. Ma l’Apologia indica anche un programma politico preciso: infatti
per suggellare l’unione, bisogna che la lega doganale divenga militare per la difesa e l’offesa, e politica che è quanto dire governativa. Per dar finimento alla libertà, uopo è che lo statuto sottentri alle riforme per ogni dove, e si attui con appositi provvedimenti. Per recare a perfezione l’indipendenza è necessaria la rintegrazione del territorio, alla quale si dee spianar la via colle armi interne e le alleanze straniere (Apologia del libro intitolato “Il gesuita moderno”, 1° vol., cit., p. 126).
Rientrato trionfalmente a Torino il 29 aprile 1848, Gioberti assume un ruolo di leader politico. Il suo impegno, dall’inizio del lungo viaggio attraverso l’Italia fino alle dimissioni da rappresentante diplomatico del Regno sardo a Parigi, nell’aprile 1849, risulta tenacemente ispirato alle idee già esposte, ma, al di là della coerenza personale, ciò che più giova mettere in luce per capire lo sviluppo critico e in parte autocritico del suo pensiero sono le clamorose smentite storiche del suo progetto: dal fallimento della guerra federale e della lega politica tra gli Stati italiani al pravalere di interessi legittimisti da parte dei sovrani e municipalisti o egemonici da parte dei governi, dall’incomponibilità di disegni politici alla prova dei fatti alternativi alla svolta antiliberale di Pio IX, preludio del divorzio tra il papato e la causa italiana.
Tornato a Parigi e ripresi gli studi, Gioberti avvia anche un ripensamento dell’esperienza politica vissuta, che culmina nella pubblicazione dei due tomi Del rinnovamento civile d’Italia (1851). Il primo è dedicato alle sventure del Risorgimento, con pagine di critica pungente, mentre il secondo rivolge l’attenzione alle speranze. All’interno del «moto italiano» iniziato in patria, ma comune a quasi tutta l’Europa, l’autore dichiara chiusa la prima fase del Risorgimento e si propone di preparare la seconda, quella del Rinnovamento, così come può «antivederla» sulla base dei fatti. Le mutate condizioni storiche, infatti, impongono di distinguere i due periodi: l’uno si è mosso nella logica di una trasformazione graduale, l’altro «avrà piuttosto aspetto e qualità di rivoluzione»; il primo è stato movimento autonomo, specificamente italiano, il secondo «dipenderà in gran parte dai casi esterni».
In questo quadro il Rinnovamento richiede un notevole cambio di prospettiva: pur avendo per l’Italia il medesimo fine politico del Risorgimento, ossia il compimento della nazione, la cui responsabilità ricade ora principalmente sul Piemonte, Gioberti afferma che il Rinnovamento dell’Europa è l’ultimo atto di una «rivoluzione incominciata quattro o cinque secoli addietro, e non ancora compiuta» (Del rinnovamento civile d’Italia, a cura di L. Quattrocchi, 2° vol., 1969, p. 9). I caratteri di questa rivoluzione coincidono ora in gran parte con quelli della civiltà medesima. Per portare a buon fine quest’ultima fase del Rinnovamento è però indispensabile guardare «i fatti che acchiudono i germi degli ordini avvenire», cioè «i bisogni» del tempo. Essi sono tre: «il predominio dell’ingegno, l’autonomia delle nazioni e il riscatto delle plebi» (Del rinnovamento, cit., pp. 10-11). In particolare «l’ultimo e più difficile dei problemi accennati» richiede varie riforme, tra le quali la diffusione della proprietà, che si traduce – essendo la proprietà «lavoro antico e accumulato» – nel «diritto di vivere mediante il lavoro» e l’istruzione gratuita verso le classi povere. Quanto al Rinnovamento politico, la forma di governo potrà essere accidentale, ma di sicuro «sarà democratica», innalzando gradualmente la plebe a «popolo e corpo politico», temperando il suffragio universale con «l’aristocrazia della virtù e dell’ingegno» propria degli eletti ed evitando le insidie della demagogia, che è la «maggior nemica» della democrazia (Traniello 2007, pp. 179-92).
Tuttavia la civiltà del Rinnovamento non può non avere attinenze anche con la religione, visto che proprio il papato «ne è divenuto l’ostacolo principale». Secondo l’autore, il cattolicesimo «avrà gran parte» nella realizzazione delle riforme future, ma a condizione che esso sappia anzitutto riconoscere in tali riforme il «ritiramento del comun vivere agli ordini naturali e razionali» dell’accresciuto incivilimento e contemporaneamente perseguire attraverso di esse il «ritorno cattolico agli statuti divini delle origini e dell’evangelio» (Del rinnovamento, 2° vol., cit., p. 23). Questo comporta in primo luogo l’eliminazione del potere temporale del pontefice, ma soprattutto il graduale superamento del «gesuitismo», che è l’ostacolo più radicato. Dunque «la riforma ortodossa del cattolicismo consiste nel migliorare il pensiero del sacerdozio», il quale a sua volta si riduce a due capi essenziali: far sì che, come alle origini, la fede sia e si mostri «spirito nelle operazioni» e «verità nell’insegnamento». Infatti, tolte al clero le ingerenze profane, esso non avrebbe più motivo di contrastare i perfezionamenti civili. A sua volta la fede non può apparire a tutti come verità, «se il sacerdozio non sa accordarla colla scienza moderna e strenuamente difenderla da’ suoi assalitori». In questo modo, senza toccare l’essenza della religione cattolica, «la si porrà d’accordo con tutte le parti della cultura e in grado di aiutarle efficacemente e promuoverle» (Del rinnovamento, 2° vol., cit., p. 372).
Elementi di continuità, ma anche di revisione e soprattutto di sviluppo caratterizzano pertanto il pensiero di Gioberti dopo la crisi del 1848. Ciò spiega almeno in parte perché filoni consistenti della cultura dell’Ottocento e del Novecento si siano misurati con la sua eredità, dal neoidealismo al federalismo, dal nazionalismo al fascismo, dal modernismo cattolico al popolarismo di Luigi Sturzo, alla cultura democratico-cristiana.
Tutti gli scritti di Gioberti, citati nel testo, sono compresi nell’Edizione nazionale delle opere edite e inedite, promossa dall’Istituto di studi filosofici ‘Enrico Castelli’ di Roma. Nell’ordine originario di pubblicazione, si vedano:
Teorica del sovrannaturale o sia discorso sulle convenienze della religione rivelata colla mente umana e col progresso civile delle nazioni (1838), a cura di A. Cortese, 3 voll., Padova 1970.
Introduzione allo studio della filosofia (1840), a cura di G. Calò, 2 voll., Milano 1939-1941.
Del primato morale e civile degli Italiani (1843), a cura di U. Redanò, 2 voll., Milano 1938-1939.
Prolegomeni del Primato morale e civile degli Italiani (1845), a cura di E. Castelli, Milano 1938.
Il gesuita moderno (1846-1847), a cura di M.F. Sciacca, 6 voll., Milano 1940-1944.
Apologia del libro intitolato “Il gesuita moderno” con alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano (1848), a cura di R. Orecchia, 2 voll., Padova 1973-1974.
Del rinnovamento civile d’Italia (1851), a cura di L. Quattrocchi, 3 voll., Roma 1969.
A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1922, 19312.
A. Omodeo, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino 1941.
G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974.
G. Rumi, Gioberti, Bologna 1999.
Giornata giobertiana, Atti del Convegno organizzato dal Centro studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson e dall’Accademia delle scienze di Torino, Torino (20 nov. 1998), a cura di G. Riconda, G. Cuozzo, Torino 2000.
M. Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli 2000.
F. Traniello, Gioberti Vincenzo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 55° vol., Roma 2001, ad vocem.
Rosmini e Gioberti. Pensatori europei, a cura di G. Beschin, L. Cristellon, Brescia 2003.
F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007.