GEMITO, Vincenzo
Scultore, nato a Napoli da genitori ignoti il 16 luglio 1852, morto ivi il 1° marzo 1929. Fu adottato da un povero falegname, "mastro Ciccio", la cui bella testa barbata ci appare in varî disegni giovanili e nel Filosofo del 1882. A nove anni, mentre faceva da fattorino a un sarto, il G. conobbe lo scultore Emanuele Caggiano e gli chiese insegnamenti d'arte. Ma poco dopo, nel 1862, si distaccò da quel primo suo maestro e, due anni più tardi, si presentò allo scultore Stanislao Lista, e, portandogli un fascio di suoi disegni, gli chiese possibilità di studio. Il Lista lo indusse a lavorare il bozzetto per un Bruto (Roma, Gall. d'arte moderna); ma il piccolo scultore, sentendosi preso tra convenzionalismi d'accademia e di realismo, si rifiutò di condurre a fine il suo lavoro. E abbandonò il maestro. L'intimo travaglio che era in lui manifestò la sua prima soluzione nelle mirabili terrecotte apparse tra il 1868 e il '70 (Museo di S. Martino; raccolte Casciaro e Astarita in Napoli). Era una scultura robusta e delicata di sole teste, nella quale si palesava una naturale tendenza ad alternare la pesantezza della materia con la ricerca di equivalenza di pittoricismo nella realizzazione plastica. Il successo che nell'ambiente napoletano arrise al G. fu in parte dovuto all'elevatezza di linguaggio scultorio nel quale il suo temperamento si faceva sentire, e, in particolar modo, all'apparente adesione del suo spirito a quelle concezioni di realismo plastico partenopeo, che, scaturite da mera istintività e mal confortate dallo studio, polemicamente si opponevano al formalismo delle accademie; e, per ciò appunto, il suo pittoricismo - per quanto accennava a un implicito superamento del gusto realistico del tempo - scarsamente convinse, allora e poi, i suoi compagni d'arte e i suoi giudici. Questo originario carattere della plastica di G. meno evidente appare nei ritratti a mezzo busto di Giuseppe Verdi (1872), di Amedeo di Savoia (1879), di Mariano Fortuny (1880), di Domenico Morelli (1882); ma più deciso si determina, e per virtù d'una grande finezza di lavoro, in altre terrecotte, quali, il Licco (1880), la Zingara (1883), Carmela (1885). In quello stefsso periodo di tempo, la possibilità raggiunta di lavorare in bronzo indusse l'artista a palesare, traverso plastiche d'interi corpi, aspetti nuovi e nuove tendenze della sua scultura. Nel Piccolo pescatore del '76, nell'altro Pescatore a grandezzu naturale, esposto a Pariġi nel 1878 (ora nel Museo naz. di Firenze), nel ritratto di Meissonnier (1879) e nel Venditore d'acqua (1881), il pieno senso di vitalità che penetrava e colmava di sé la metallica materia non era dovuto solo a un'affinata destrezza di lavero dominante sulle qualità della materia stessa, ma era soprattutto generato dalla suscitazione e dallo sviluppo dell'idea del moto nella forma realizzata con senso di staticità monumentale.
Dopo il grande successo che, col Pescatore, aveva ottenuto in Francia e in Italia, il G. divenne uno scontento. Dal 1878 in poi, per un decennio circa, egli visse di esaltata gioia mentre creava e di esaltata scontentezza poi che l'azione creativa era conclusa. Non era pago del sintetismo plastico, un po' frammentario e occasionale, cui ricorreva il suo pittoricismo; e dinnanzi ai suoi bronzi sentiva insuperato, e non sufficientemente risoluto, il dissidio tra il naturalismo popolano e schietto, ch'era amore di vita, e la necessità di esprimere il senso vitale della forma più che le materiali fattezze della forma stessa. Isolato, con'egli era, senza che la sua fervida e inquieta intelligenza avesse conforto di specifica cultura in una città ch'ebbe sempre tradizioni scultorie assai povere, cercò rifugio nel Museo di Napoli, tra i bronzi dissepolti, a çercare una determinatezza delle sue chiaroveggenze effimere e incerte (v. la copia del Narcisso di Pompei, presso la vedova dell'arch. A. Curri in Napoli). Di questa immersione in un'atmosfera di ellenismo, il G. si ritrasse con rinnovato fervore e con inquietudine più grande. Intorno al 1887, mentre lavorava intorno al bozzetto per il Carlo V, e alle cere per un servizio da tavola ordinatogli da Umberto I, la sua inquietudine raggiunse la tensione d'uno spasimo, che convinse tutti della sua pazzia. Sentì la necessità d'una purificazione e d'un distacco da tutto ciò che aveva fatto fino allora, e si rinchiuse per oltre vent'anni ìn una piccola stanza, come un selvaggio, per molto tempo restio al consueto lavoro.
Dei tentativi plastici ai quali s'indusse a poco a poco non restava traccia; ma s'iniziò da quel tempo la più grande serie dei suoi mirabili disegni, che si sviluppò negli anni successivi fino alla morte, dandoci la più genuina espressione dell'arte scultoria di lui nell'ultimo periodo di vita. Quand'egli riapparve (1909) si poté notare che, negli anni della solitudine, egli era andato solo affinando le sue squisite destrezze di lavoro, conducendole fino al virtuosismo e riducendole talvolta in una spiccata tendenza a fatture di oreficeria sottile. Rifece il Venditore di acqua del 1881, lavorandolo in argento, con riduzione d'ogni accento realistico e con maggiore sottigliezza di forma, ma con moto più rattenuto, quasi raggelato (1909). Rifece il Filosofo (1917) e il ritratto di Domenico Morelli (1926), rilavorando nell'uno e nell'altro la barba con eleganze e finezze di cesello; disdegnò il bronzo, non vide possibilità di lavoro che in argento e in oro, e il suo grande medaglione argenteo con un ritratto immaginario di Alessandro il Macedone rivela una plasticità sintetica con una spiccata tendenza neoclassica tutta sua, ben lontana dalle tradizioni canoviane, e con una gran massa di capelli che si direbbe suggerita da Leonardo. La più larga raccolta di sculture, di disegni e di documenti sull'arte e sulla vita di Vincenzo Gemito è nella collezione Minozzi in Napoli. (V. tavv. LXXIX e LXXX).
Bibl.: S. di Giacomo, V. G., Napoli 1905; Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XIII, Lipsia 1920 (con la bibl. prec.); S. di Giacomo, Il busto di Cesare Correnti modellato da V. G., in Dedalo, II (1921-22), pp. 72-76; U. Ojetti, L'arte di V. G. e sette ritratti inediti, ibid., V (1924-25), pp. 315-22; S. Ortolani, Un autoritratto di V. G., ibid., X (1929-30), pp. 652-54.