GEMITO, Vincenzo
Nacque a Napoli il 16 luglio 1852 e, quando aveva appena un giorno, fu deposto nella ruota dello Stabilimento dell'Annunziata. Il 30 luglio venne affidato a Giuseppina Baratta, moglie di Giuseppe Bes. Dopo la morte del marito, la Baratta nel 1863 sposò Francesco Jadicicco, di professione muratore, quel "Mastro Ciccio" tante volte raffigurato nella produzione plastica del Gemito.
Di indole irrequieta e prepotente, il G. trascorse un'adolescenza povera e turbolenta, legandosi di assidua consuetudine con il coetaneo Antonio Mancini, detto Totonno, anche nelle precoci esperienze artistiche. Frequentò gli studi di due scultori: fu ragazzo di bottega di Emanuele Caggiano e, a dodici anni, di Stanislao Lista, promotore dello studio del vero nella scultura. Il 23 apr. 1864 fu ammesso a seguire i corsi del Regio Istituto di belle arti, ma cercò piuttosto ispirazione nei vicoli del centro antico e nel circo Guillaume allogato al teatro Bellini. Risale al 1868 il suo esordio alla mostra della Società promotrice di belle arti di Napoli dove espose il Giocatore.
In quest'opera - acquistata da Vittorio Emanuele II per le collezioni di Capodimonte - adottò il modellato pittorico e vibrante per suggerire la concretezza dell'esperienza visiva e la spontaneità della realtà vernacola napoletana. Il G. confermò queste novità formali nel Ritratto del pittore Petrocelli (Napoli, collezione Minozzi) plasmato intorno al 1869, a riprova dell'intolleranza verso la codificazione accademica dell'arte scultorea, che si muoveva allora fra le incertezze del romanticismo e gli ultimi esiti delle correnti canoviane.
Inoltre, insieme con altri artisti ribelli all'arte ufficiale - tra i quali, oltre a Mancini, Giovanni Battista Amendola, Vincenzo Buonocore, Achille D'Orsi, Luigi Fabron, Ettore Ximenes - il G. prese in affitto uno studio nell'ex convento di S. Andrea delle Dame. Qui presero forma le delicate testine datate 1870-72 e conservate a Napoli, mirabili per vivacità di sguardi e naturalezza di atteggiamenti, quali Moretto, Scugnizzo e Fiociniere (collezione del Banco di Napoli), Malatiello e Fanciulla velata (Museo nazionale di S. Martino); queste sculture vennero eseguite in terracotta, mezzo plastico congeniale all'interpretazione realistica del soggetto, per le libere variazioni di piani e le mobili vibrazioni luminose.
Nel 1871, al concorso annuale per il pensionato artistico romano, il G. si classificò al primo posto con il rilievo Giuseppe venduto dai fratelli (Napoli, Galleria d'arte dell'Ottocento dell'Accademia di belle arti) giustificando la stima del professore di pittura Domenico Morelli. Per il saggio di statuaria realizzò Bruto (terracotta: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna), la sua prima immagine dichiaratamente collegata al mondo antico che andava studiando al Museo nazionale di Napoli.
Nel 1873 conobbe Matilde Duffaud, che divenne sua convivente nonché modella nel nuovo studio sulla collina del Mojarello, a Capodimonte. Dello stesso anno sono i busti bronzei raffiguranti D. Morelli e G. Verdi e quelli in terracotta raffiguranti F.P. Michetti (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna) e Totonl'amico mio. Quest'ultimo fu acquistato dal pittore spagnolo Mariano Fortuny allora residente a Portici, del quale il G. nel 1874 eseguì il busto per la tomba al cimitero del Verano a Roma. A questo periodo risale anche il Ritratto diGuidoMarvasi (Napoli, collezione del Banco di Napoli), figlio del prefetto napoletano Diomede, tra i primi mecenati dello scultore e collezionisti delle sue opere.
La produzione plastica gemitiana si sostanzia di numerose repliche: svariate le datazioni, le tecniche e le collezioni pubbliche e private che le conservano (si darà, quindi, notizia dell'ubicazione nota solo per le opere uniche). Questo vale in particolare modo per i ritratti di cui sorprende, oltre allo studio accurato del dato naturale, la propensione introspettiva suscitata dall'interesse per il modello di cui descrivono i connotati e il temperamento. Rotta l'accademica simmetria nella costruzione dei busti, lo scultore modellò la creta per via di porre, cercando il movimento al fine di rendere con veridicità l'espressività della vita, senza ricercatezze formali gratuite. Del bronzo, invece, amò la superficie da trattare con gusto pittorico su influenza morelliana e fortuniana, suggestionato dai ricordi classici come dal naturalismo di ispirazione moderna che lo tenne lontano dall'idealizzare i suoi modelli.
Nel 1876 trasferì lo studio nei pressi del Museo nazionale, che frequentò da allora regolarmente copiandone le sculture di Pompei ed Ercolano, in cui trovava un ricco patrimonio di concrete soluzioni creative. L'anno seguente partecipò all'Esposizione nazionale di belle arti di Napoli e al Salon parigino dove, presente per interessamento del noto mercante Alphonse Goupil, ottenne buon successo di pubblico, in particolare, per il Gran pescatore o Pescatore napoletano, in bronzo a grandezza naturale (Firenze, Museo del Bargello).
Il Pescatore napoletano - ripresentato all'Esposizione universale parigina del 1878, dove il G. consolidò con una medaglia la notorietà presso i Francesi, e in seguito più volte esposto in Italia e all'estero riportando numerosi premi - appare in bilico su uno scoglio nell'atto di trattenere sul petto dei pesciolini guizzanti e mostra un'energia sul punto di prorompere, come attestano i segni del cesello creanti continui passaggi chiaroscurali. Il G. scelse il fanciullo del popolo quale costante iconografica della sua produzione grafica e plastica sin dal Giocatore e il corpo di adolescente nudo al sole quale banco di prova di un'appassionata costruzione plastica e volumetrica, negli anni più controllata ma pur sempre dinamica e vitale.
Per gli studi sulle diverse versioni del tema del pescatore, dai primi anni Settanta, si sa che il G. obbligava gli scugnizzi, pagati, a lunghe ore di posa: rimanere, per esempio, in equilibrio su un grosso sasso insaponato allo scopo di studiare le fasce muscolari in un momento di sforzo. Tale interesse non si spiega certamente con semplice curiosità aneddotica, né si giustifica appieno con qualche eco della fortuna romantica degli scugnizzi e dei costumi popolari, né con la suggestione dell'arte dei "pastorari" napoletani e con la lezione seicentesca di matrice caravaggesca (nel 1915 il G. dipinse una tempera dal Bacchino malato della Galleria Borghese), e tanto meno risponde a moventi sociali. Di sicuro la tempra istintiva, la gioventù parimenti diseredata e la formazione verista contribuirono (se non a un'identificazione con i soggetti) al calore sensuale e sentimentale nel narrare l'esperienza della realtà.
Le tante immagini di fanciulli - nella produzione tarda gli scugnizzi divengono arcieri - risentono inoltre di un particolare vagheggiamento dell'arte ellenistica che le porta fuori della cronaca, garantendone l'atemporalità e fornendo un filtro tra ispirazione e forma definitiva, ben lontana comunque dal riproporre fedelmente gli spunti antichi e da retoriche declamazioni.
Trasferitosi a Parigi nel 1877, riunitosi con l'amico Mancini e raggiunto dalla Duffaud, ottenne il successo mondano ma non il benessere economico, per un'incauta amministrazione. Eseguì il Ritratto di Cesare Correnti commissario italiano all'Esposizione universale parigina del 1878 (la versione in bronzo e oro, del 1880, si conserva presso la Galleria nazionale d'arte moderna di Roma); Correnti, già ministro della Pubblica Istruzione, gli aveva commissionato la traduzione in marmo del Bruto, mai compiuta.
Al Salon del 1878 presentò due busti in bronzo: quello ricoperto d'argento del pittore G. Boldini, allora residente a Parigi, e quello di J.-B. Faure, cantante e collezionista degli impressionisti; al Salon seguente, dove ottenne la medaglia di terza classe, espose il Ritratto del dottor Landolt (gesso: Firenze, collezione privata) e quello del pittore Federico de Madrazo (terracotta: Venezia, Museo Fortuny); a quello del 1880 espose il ritratto in bronzo di Paul Dubois, scultore e direttore dell'École des beaux-arts, e meritò la medaglia di seconda classe per la statuetta bronzea a figura intera Ritratto di G.L. Ernesto Meissonier.
Quest'ultimo ritratto segnala particolarmente l'indirizzo stilistico parigino sotto l'influenza del modello di Meissonier, pittore ufficiale di costume e di storia, che fu per il G. precettore, mecenate e ospite nella villa di Poissy e nello studio di Parigi: la predilezione della rifinitura formale che il bronzo consente per l'elegante minuzia descrittiva del cesello. Il Ritratto di Meissonier fu nuovamente esposto nel 1880 a Torino alla IV Esposizione nazionale di belle arti insieme con il busto bronzeo di Amedeo d'Aosta, duca di Genova, commissionatogli dalla colonia italiana a Parigi e conservato nel palazzo reale di Napoli.
Tornato definitivamente a Napoli all'inizio del 1880, il G. lavorò senza tregua per più di un anno all'Acquaiolo (bronzo: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna), dalla posa sbilenca e malferma per un gioco di membra in movimento eppure statiche. Rilettura del Fauno danzante di Pompei e riprodotta in innumerevoli esemplari, l'opera fu composta a ricordo della città partenopea su commissione, tramite Filippo Palizzi, di Francesco II di Borbone, l'ex re di Napoli esule a Parigi.
Morta precocemente Matilde per tisi nell'aprile del 1881, il G. si ritirò per alcuni mesi a Capri disegnando molti ritratti dal vero, sulla scorta dei quali modellò Rosa (esposta al Salon parigino del 1882). L'anno seguente sposò Anna Cutolo, detta Nannina, la modella di Domenico Morelli; e nel 1885 nacque la figlia Giuseppina: moglie e figlia saranno entrambe ispiratrici di opere del G. (quali il Ritratto di Anna Gemito, del 1886, in terracotta e creta: Roma, Galleria comunale d'arte moderna e contemporanea).
Nel 1883 fu esposto alla Promotrice napoletana il bronzo Il filosofo con la dicitura "Nec plus ultra": se l'opera appare una scultura antica ispirata alla Testa dello Pseudo-Seneca del Museo archeologico napoletano, le sembianze ricordano quelle di Mastro Ciccio, l'amato anziano patrigno, valido collaboratore insieme con Tommaso Celentano e Pietro Renna nella fonderia di via Mergellina, avviata proprio in quell'anno grazie al finanziamento del barone belga Oscar de Mesnil e attiva sino al 1886.
Nel 1883 ad Anversa furono tributati al G. due diplomi d'onore accompagnati rispettivamente dalla medaglia d'argento e da quella di prima classe; due anni dopo, nella stessa città, all'Esposizione universale lo scultore ottenne la medaglia di prima classe con una rappresentativa selezione di opere, tra cui la prima copia del Narciso rinvenuto a Pompei (Napoli, palazzo reale: del 1886 è la replica per Diego Pignatelli d'Aragona Cortes conservata nell'omonimo museo napoletano).
Il G. ricevette inoltre da Umberto I le commissioni di una statua marmorea più grande del vero raffigurante Carlo V da collocare in una delle nicchie della facciata del palazzo reale di Napoli e, in seguito, di un Trionfo da tavola in argento per la reggia di Capodimonte. Messo in crisi dall'inconsueta tematica storica (per la quale si documentò e chiese consiglio a Meissonier durante il secondo viaggio a Parigi nel 1885), realizzò solo il modello in gesso e il bozzetto bronzeo del Carlo V (Napoli, Museo di Capodimonte); del Trionfo da tavola compose soltanto il bozzetto in cera (Roma, Galleria comunale d'arte moderna e contemporanea) e una numerosa serie di disegni, dai quali emerge il conflitto culturale provocato da quella combinazione di figure anticheggianti - personificazioni di mari e fiumi italiani - con decorazioni di sapore barocco secondo il gusto francese contemporaneo.
Si manifestarono allora i sintomi di un esaurimento psichico (causato dalle vicende personali, dall'insoddisfazione dei risultati raggiunti, dall'ossessiva ansia di superare se stesso) che lo portò al ricovero. Fuggito nel 1887 dalla casa di cura Fleuret, si segregò nell'abitazione di via Tasso per trascorrervi, tra deliri, digiuni e allucinazioni, circa un ventennio, nel corso del quale si dedicò prevalentemente alla grafica, alternando momenti lucidamente creativi a periodi di solitaria alienazione.
Nel contempo il successo internazionale dell'artista era ormai solido e accompagnato da riconoscimenti ufficiali: a Buenos Aires, nel 1886, vinse la medaglia d'argento di prima classe; a Parigi, nel 1889 e nel 1890, il grand prix per la scultura; ad Anversa, il diploma d'onore nel 1892; a Parigi, nuovamente il grand prix nel 1900. Gabriele D'Annunzio ne esaltò la potente vitalità di eco ellenica. In occasione della V Esposizione internazionale biennale di Venezia del 1903, il G. ebbe l'onore di esporre nella sala del Mezzogiorno insieme con Morelli. Inoltre, Achille Minozzi, amico e appassionato collezionista dell'opera gemitiana, volle consacrare la sua raccolta pubblicando nel 1905 una monografia lussuosa scritta da Salvatore Di Giacomo.
Morte la madre e la moglie, il G. riprese la vita pubblica nel 1909: per consegnare il Pescatorello, richiestogli per la regina Margherita da Elena d'Orléans, duchessa d'Aosta, e per esporre, su incitamento di questa, alla VIII Biennale di Venezia i disegni di ambiente popolare napoletano che ne riconfermarono il successo mondiale.
Allo scorcio del secolo appartiene la produzione incentrata sulla figura femminile: ritratti di popolane, le "zingare", riprese da sole o con bambini nelle attitudini quotidiane e nella vitale gestualità (Maria la zingara, Nutrice, Carmela: Napoli, collezione Minozzi). Inoltre eseguì numerosi disegni famigliari e autoritratti di grande potenza simbolica e passionale (Autoritratto con Matilde Duffaud, 1880-81, sanguigna acquerellata: collezione del Banco di Napoli), cui seguiranno quelli più tardi con la barba fluente e l'aspetto da profeta michelangiolesco, sia grafici sia plastici (Autoritratto, del 1921, in bronzo: Milano, Civica Galleria d'arte moderna).
Ormai i disegni non sono più solo studi preparatori, ma autentici punti d'arrivo e il G., proprio perché liberato dal vincolo progettuale, appare vigoroso e fertilissimo. Negli anni, infatti, il talento dell'artista, nutrito dal tormento quotidiano per raggiungere la pienezza dell'espressione, trova nel disegno il personale appagamento creativo, dimostrando non solo la padronanza della forma, ma anche la comprensione del fenomeno luminoso, la sapienza del gioco dei valori e dei toni perseguita con le tecniche più varie (matita, penna, acquerello, pastello). Stupiscono la varietà di intenti e di attuazione e la conoscenza delle risorse più efficaci a esaltare il movimento, l'energia e il senso della materia e dell'epidermide.
La produzione plastica del secondo decennio appare caratterizzata da iconografie storicizzanti o allegoriche (o comunque astratte dai temi sociali e quotidiani) e da studi decorativi che mostrano maestria nell'orientarsi tra i soggetti antichi per riproporli alla maniera moderna. All'immediatezza giovanile si sostituisce l'elaborazione ricercata con preziosistico gusto da orafo, aiutato dal discepolo Salvatore Pavone nello sbalzo e nel cesello.
Del 1910 sono le opere Sorgente e Giovinezza di Nettuno; del 1911, in occasione dell'Esposizione internazionale di belle arti di Roma, Medusa (argento cesellato e dorato a fuoco: Malibu, CA, The J. Paul Getty Museum), revival ellenistico per cui trasse spunto dal fondo esterno della Tazza Farnese del Museo nazionale napoletano; al 1914 e al 1918 risalgono Inverno, Tempo, Vasaio, Fanciulla greca, Sibilla Cumana, Sirena, opere con cui porta una nota di prezioso estetismo nel nuovo clima simbolista.
Nel 1911 si trasferì al Parco Grifeo di Napoli. Nel 1913 e nel 1915 partecipò rispettivamente alla XI Esposizione di belle arti di Monaco e all'Esposizione universale di San Francisco. Tra 1915 e 1917 fu spesso a Roma e dintorni (ritrasse figure di ciociare); scolpì la Madonnina del Grappa; concepì il progetto grafico per un monumento a Pio X raffigurante la Fede (Roma, Galleria comunale d'arte moderna e contemporanea). Nel 1919 Matteo Marangoni, allora deputato, ottenne dal Parlamento una "pensione d'onore" (mai consegnata a causa di disguidi burocratici) per il G., che si trovava in pessime condizioni finanziarie. L'anno seguente avvenne l'incontro a Napoli, dopo quarant'anni, con Mancini, cui altri ne seguirono a Roma, dove il G. si recò spesso, impaziente di ottenere l'alloggio desiderato a Castel Sant'Angelo come l'invidiato Benvenuto Cellini. Nel 1922 nella capitale venne organizzata dalla rivista La Fiamma un'esposizione dell'opera gemitiana, che si sostanziava in quegli anni di raffinate opere di cesello in oro e argento, prevalentemente in piccole dimensioni e di fattura classicheggiante. Nel 1924 l'artista fece l'ultimo, deludente, viaggio a Parigi.
Negli anni 1920-26 lavorò assiduamente intorno al tema di Alessandro Magno, protagonista di tante sue visioni, proponendo l'immagine ideale dell'eroe mitico in busti e medaglie, meditando sui prototipi antichi e concependo persino una scultura equestre. Al 1926 risalgono le sue ultime opere: Sibilla, in argento, esposta alla Promotrice napoletana, e Ritratto dell'attore Raffaele Viviani (terracotta: Napoli, Museo di Capodimonte), in cui sottile è la resa psicologica al di là del realismo fisiognomico conseguito grazie alla tecnica esperta.
Lo Stato italiano, nel 1927, gli assegnò per volontà di B. Mussolini un premio in denaro di 100.000 lire. Esposizioni antologiche vennero allestite nel 1927 alla galleria di Lino Pesaro a Milano e, l'anno seguente, in Castelnuovo a Napoli.
Il G. morì a Napoli il 1° marzo 1929.
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