ERRANTE, Vincenzo
Commediografo siciliano, nacque probabilmente a Castelbuono (Palermo), dove in ogni caso visse e operò; la sua data di nascita si deve collocare all'incirca nel 1578, come indicano i versi che tal V. Mazza gli rivolse in un sonetto-dedica premesso ai suoi Inganni d'amore, composti e pubblicati a Palermo nel 1603: "Attonito per cui (poi che in sì acerba/età che à pena al quinto lustro arrivi, /d'amor gli Inganni così ben descrivi). N'andrà Castellobuono alta, e superba".
Anche le poche altre notizie che riguardano l'E. si deducono dai riferimenti interni del citato testo o da qualche allusione contenuta nei versi di encomio di suoi amici ed estimatori. La commedia, ambientata a Castelbuono, rivela infatti l'appartenenza dell'E. alla cittadina Accademia dei Curiosi, dove egli era appunto entrato con lo pseudonimo di Attonito. E di questa istituzione l'autore fa intravvedere gli orientamenti letterari, precisando in una scena (atto terzo, scena prima) degli Inganni d'amore che i Curiosi discutevano di poesia (sopra il sonetto di Petrarca La gola, il sonno e l'oziose piume) e componevano versi sacri e profani.
La figura dell'E., anche per la scarsissima circolazione della sua commedia, è rimasta comunque pressoché sconosciuta, a parte veloci e ripetitive citazioni di pochi eruditi isolani. E. Teza (V. Belando...) negò addirittura la sua esistenza e, fuorviato dalle molte coincidenze (contemporaneità di fioritura, identità del nome e della zona di origine), sostenne che E. era pseudonimo accademico di V. Belando, autore oltre tutto di una commedia intitolata Gli amorosi inganni. A separare di nuovo le due personalità ci ha pensato C. Naselli, che in due successivi interventi (Commedie del Seicento ... e Comediografi e accademici...) ha potuto mostrare, grazie anche al recupero di una copia degli Inganni d'amore presso la Bibl. naz. di Firenze (Palat. 12,7,2,39) l'indipendenza di quest'opera dalla produzione del Belando, rispetto a cui ha felicemente individuato anche le difformità di natura linguistica e stilistica.
Come si vede, dunque, la figura dell'E. coincide con la sua unica e assai poco studiata commedia, che egli dedicò a Marcantonio Ferrero barone di Pittineo e Migaido, cui pure prometteva più alti frutti delle sue fatiche intellettuali. Zeppa di omaggi in triplice lingua (toscano, siciliano, latino), cerimoniosamente offerti all'autore da altri Curiosi e da letterati locali, la commedia non può prescindere da un'immediata ricezione paesana e presuppone la complicità di spettatori pronti a cogliere i riferimenti a realtà e situazioni vicine. Ma non per questo la commedia ha andamento municipalistico ed è sprovvista di misura e accorgimenti letterari. Regolare è intanto la divisione in cinque atti; e canonico il rispetto delle tre unità, che fa addensare in un giorno e una notte tutta una ridda di avvenimenti concatenati. L'E. ha creato una vasta e complicata macchina d'azione, di cui sono motore gli "inganni", ora orditi con astuzia sapiente, ora di rimbalzo generati dalla mischia degli avvenimenti.
Sullo sfondo del borgo di Castelbuono - ma nella piccola élite dei cittadini di riguardo - Ambrogio ama Marzia; Marzia e Leonora amano Ippolito; Aurelio ama Leonora; Lucilla ama Aurelio; c'è insomma come una catena di amanti non corrisposti, che dà vita ad una girandola di trovate ingegnose, di trame incrociate e sovrapposte; solo Ippolito ama con fortuna la serva Beatrice, ma la differenza di casta è fonte di altri fraintendimenti e sospetti. L'azione si complica quando Lucilla, sorella di Ippolito e innamorata di Aurelio, decide prendere i panni del fratello, per potersi meglio accostare all'amante. L'espediente provoca disdette e travisamenti, accresciuti dalla presenza di personaggi secondari e dai maneggi dei servi. Alla fine si crea una vera "notte degli imbrogli", con tutti i protagonisti che si inseguono per le viuzze oscure del paese, in panni spesso impropri, allettati da promesse d'amore puntualmente frustrate, tra scorribande e camuffamenti, randellate e progetti di stupro, in un succedersi di equivoci e colpi di scena. All'alba però tutto si aggiusta; e attorno alla coppia Ippolito-Beatrice, allietata dalla tradizionale agnizione, che riabilita la fanciulla costretta a servire, si stringono gli altri legami tra Lucilla e Aurelio, Annibale e Marzia, cortigiana ansiosa di coniugale virtù, mentre Leonora e il vecchio Ambrogio, rinunciando alle loro sortite extramatrimoniali, si rallegrano di non aver contaminato il loro talamo.
Commedia con scene e atmosfere pronunciatamente licenziose, ma sempre imbrigliate da un forte senso della decenza e dell'onorabilità, Inganni d'amore è infatti affidata, per l'assolvimento delle sue pretese ricreative, più alla macchinosità dell'"imbroglio" che all'esasperazione e, quindi, alla satira o alla parodia di tipi e situazioni irregolari. Tipici sono parecchi personaggi, quasi ritratti nelle pose irrigidite dei caratteri (il vecchio babbeo esposto al ludibrio nel suo abito di "galante giovanetto innamorato", la cortigiana sentimentale, i servi farabutti); e tutto di repertorio è il congegno comico, con la moltiplicazione della tecnica del travestimento al fine di generare lo scambio di persona, con l'agnizione rivelatrice e le busse ai servi zotici e vili. Ma il vero tono della commedia si trova, fuori da questi clichés, in un'andatura sostanzialmente moralistica, che finisce con il castigare i desideri illeciti a beneficio dell'ordine matrimoniale, di cui sono paladini Ippolito e Beatrice, i quali, anche quando sono convinti del dislivello sociale tra loro esistente, parlano (atto terzo, scena terza) in un tono sentimentale e sospiroso, con vere incursioni nello stile alto. Rispetto a questo prevalere del serio e del lecito, il triviale rimane episodio di poca importanza; ed esso affiora per lo più, oltre che nella sfera del rozzo interesse economico rivendicato dai servi, nell'ambito del desiderio sessuale, che in poche e circoscritte situazioni acquista una sua qualche greve risonanza.
L'E., con la sua vena urbana e i suoi giudiziosi scioglimenti rispettosi del buon costume, èscrittore egualmente corretto, lontano dall'esuberanza linguistica, come lo è dai garbugli scenici incontrollabili o dagli eccessi furbeschi e parodistici. Egli porta nella sua scrittura un entusiasmo di giovane letterato, che descrive la passione d'amore dei suoi personaggi citando quella degli ovidiani Salmace ed Ermafrodito (atto terzo, scena seconda), e che soprattutto mostra le sue letture di Boccaccio, ora attraverso un'allusione a Calandrino, ora attraverso l'analogia di situazione col Decamerone II, III (la scoperta sotto un abito maschile di "popelline tonde e bianche come la neve"). Autore colto ed emendato, l'E. riduce al minimo la presenza dei forestierismi e non attinge nemmeno dal dialetto, limitandosi a ricorrere talvolta a vocaboli rari e gergali e una volta anche al latino (l'aforisma "omnis repletio mala"), sia pure in contesto parodistico. Chiusa nel piccolo spazio cittadino di Castelbuono e tutta correlata con l'attività dell'Accademia dei Curiosi, chiamati in causa con evidente scopo laudativo anche per le loro tirate antifemministe (atto quarto, scena seconda), la commedia dell'E. non manca di rivelarci, dietro le censure e l'elogio dell'ordine, le miserie e i disagi del suo secolo. Miserie e disagi che si avvertono nel richiamo insistito al problema della sopravvivenza alimentare ("Forse in quel tempo il pane era scarso come adesso"), che si colora talvolta di effetti orrifici e raccapriccianti, come nel racconto del rapimento di Beatrice (atto quinto, scena ottava) da parte del cingaro Farfallone. L'agnizione va infatti in questo caso al di là dello scontato effetto teatrale e diventa testimonianza realistica degli efferati costumi del tempo. Un tempo, in cui i bambini rapiti appagavano, debitamente storpiati, la curiosità di un pubblico amante delle mostruosità e consentivano ai loro carnefici di "andarsi guadagnando il pane per questa o quell'altra città".
Si ignorano il luogo e la data della sua morte.
Fonti e Bibl.: A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Panormi 1708, II, p. 281; A. Narbone, Bibliografia sicola sistematica, IV, Palermo 1855, p. 99; G. M. Mira, Bibliografia siciliana, Palermo 1875, I, pp. 92, 330; E. Teza, V. Belando: versi veneziani nel Cinquecento di un siciliano, in Atti e mem. della R. Acc. di scienze, lettere ed arti in Padova, n. s., XVI (1899-1900), pp. 87-101; C. Naselli, Commedie del Seicento. Noterella bibliografica, in La Bibliofilia, XXXIV (1932), 6-7, pp. 237-42; Id., Commediografi e accademici siciliani del Seicento, in Convivium, V (1933), pp. 232-48; A. Migliori, Belando, Vincenzo, in Diz. biogr. degli Ital., VII, Roma 1965, pp. 543 ss.; G. Nicastro, Il teatro dal '400 al '700, in Storia della Sicilia, IV, Palermo 1980, p. 593.