DURAZZO, Vincenzo
Nacque a Genova intorno al 1635 da Giovan Matteo e da Angela Caterina Pozzo di Giovanni.
Il padre, governatore di Corsica nel 1654, era uno dei dodici figli di Giovanni Battista doge nel 1639. A sua volta il nonno del D. era nipote, cugino e zio di tre dogi (rispettivamente lo zio Giacomo primo doge della famiglia Durazzo nel 1573 il cugino Pietro, doge nel 1619, e il nipote Cesare, doge nel 1665: quest'ultimo a sua volta padre e nonno di dogi, Pietro nel 1685 e Stefano nel 1734). Tuttavia, nonostante la forte personalità del nonno e le sue poliedriche capacità in campo economico, politico e militare, e nonostante l'elevata natalità, il ramo dei Durazzo cui il D. appartenne fu il primo ad estinguersi, sopratutto a causa dell'altissimo numero di monacazioni e forse anche per la presenza di qualche tara ereditaria. Basti pensare che dei dodici figli del nonno del D., Giovanni Battista, tre gli premorirono, altri due si trasferirono a Palermo e li morirono senza discendenza maschile, quattro scelsero la condizione ecclesiastica (due femmine, Giulia e Annamaria, monache in S. Marta; un maschio, Giovan Bernardo, carmelitano, e un altro, Francesco, vescovo di Brugnato tra il 1640 e il 1650). Ebbero prole solo in due: Gregorio, morto a Palermo nel 1648, con la moglie e due figliolette per un incidente o un'epidemia, e appunto il padre del D., Giovan Matteo. Ma la stessa fortissima contrazione demografica avviene nella generazione del D.: dei suoi sette tra fratelli e sorelle solo due si sposarono (Maria Francesca con Stefano Ferretto e Clelia con Giulio De Franchi Bulgaro: e quest'ultima mori poi demente nel 1718) e gli altri cinque abbracciarono tutti lo stato ecclesiastico: Giuseppe, nato attorno al 1640, fu sacerdote; Mario Emanuele fu vescovo di Aleria in Corsica dal 1674 al 1704 e poi di Mariana ed Accia dal 1704 fino alla morte, avvenuta in Bastia nel 1707; Lelia Maria, Laura, Maria Maddalena furono tutte e tre monache in S. Marta.
Questa contrazione avrebbe dovuto consentire al D. la salvaguardia del patrimonio familiare, ma esso dovette invece per altre ragioni svanire quasi completamente nel giro di queste due generazioni, tanto che il D. fu costretto - ed è un caso limite anche per le linee di maggior natalità dei Durazzo - a monacare tutte e sei le sue figlie. Anche la carriera del D. - piuttosto limitata, e impegnata prima nel settore militare e poi in quello giuridico-amministrativo - sembra confermare una perdita di prestigio economico e politico in questo ramo della famiglia.
Tale perdita ebbe forse origine nel 1639 quando, essendo doge il nonno Giovanni Battista, tutti i beni, terreni e rendite che egli possedeva nel Ducato di Milano gli vennero confiscati dal governatore, marchese di Leganès, come rappresaglia nei confronti dei protettori di S. Giorgio e le loro misure contro il contrabbando spagnolo. Per quanto il Banco di S. Giorgio si fosse assunto l'onere di rifondere i danni subiti da chi era stato colpito dalle confische, è probabile che Giovanni Battista fosse rimasto tra i più danneggiati: forse anche in rappresaglia nei confronti dei suoi atteggiamenti cautamente innovatori e comunque polemici nei confronti della Spagna e del partito "spagnolo" di Genova.
Di fatto, le condizioni patrimoniali del D. dovevano essere modeste. Iniziò la carriera come commissario militare in Savona nel 1664; Poi fu capitano di Chiavari, del Bisagno e di S. Romolo; quindi, nel 1679, fu estratto tra gli otto procuratori della Repubblica (cioé tra i componenti la Camera, cui era precipuamente affidata l'amministrazione delle finanze pubbliche). Tra il 1680 e il 1700 fu a più riprese nel magistrato degli Straordinari, con funzione di giurisdizione civile; in quello delle taglie extra jugos, dei provvisori dell'Olio, delle Vettovaglie e poi dei conservatori del Mare, che era la magistratura cui competeva il giudizio in tutte le questioni civili e penali in materia marittima e tutta la regolamentazione in materia di navigazione. Infine fu più volte preposto al delicato ufficio biennale dei conservatori delle Leggi, cui competeva la vigilanza sulla osservanza delle norme costituzionali in occasione di nomine ai pubblici incarichi, a cominciare da quelle del doge e dei membri dei Collegi.
Dopo essere stato nominato nel 1706 governatore della fortezza di Savona, il 14 sett. 1709, già settantaquattrenne, venne eletto doge. La votazione (410 voti su 584) indica un vasto consenso, o almeno un sofido compromesso, attorno ad un uomo ormai vecchio, politicamente innocuo, probo funzionario, garante della stretta osservanza costituzionale, in grado di garantire a tutti il più tranquillo statu quo. L'incoronazione del D. avvenne il 23 novembre in S. Lorenzo, officiata dal barnabita monsignor Raffaele Raggi, che era succeduto come vescovo di Aleria al già defunto fratello del D., Mario Emanuele.
Terminato il biennio dogale (passato alle cronache minute come l'anno del gelo, per il freddissimo inverno del 1710, con gelate disastrose per l'economia ortofrutticola della regione), il D. fu eletto tra i procuratori perpetui e preside delle Cose marittime.
Morì a Genova il 29 febbr. 1724.
Del suo matrimonio con Francesca Morando di Giovanni Battista restava, nella vita secolare, un unico figlio, Giovanni Battista, che gli era nato nel 1672 e aveva sposato Geronima Della Torre, e che morirà senza prole il 4 ag. 1752. Con lui si estinse la discendenza del D. e tutto il ramo dei Durazzo discendente da Giovanni Battista, doge del 1639. Le figlie del D. - M. Lelia, M. Maddalena, M. Teresa, M. Vittoria, M. Paola, Angela Caterina - si monacarono: le prime tre nel monastero di S. Siro di Piacenza, le altre a Genova, in S. Teresa e in S. Marta.
Bibl.: L. Uvati, Idogi di Genova dal 1669 al 1721…, Genova 1912, p. 14; L. Alfonso, Aspetti della personalità di Stefano Durazzo, arcivescovo di Genova, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, n. s., XII (1972), p. 452; D. Puncuh, L'archivio dei Durazzo, marchesi di Gabiano, ibid., n. s., XXI (1981), p. 624; Id., Collezionismo e commercio di quadri…, in Rassegna degli Archivi di Stato, XLIV (1984), pp. 168 e n. 16, 213.
M. Cavanna Ciappina