DRAGO, Vincenzo
Nacque a Cattaro in Dalmazia nel 1770 da Serafino.
La famiglia, appartenente alla nobiltà del luogo e ricordata di frequente nei documenti cittadini a partire dal sec. XIII, annoverava tra i suoi rappresentanti tre vescovi della città: Nicolò (1397)., Marino [II] (1688), poi vescovo di Curzola (1708) e Vincenzo [II] (1743). Il padre fu procuratore alla Sanità della Repubblica veneta.
Il D. compì i suoi studi nella città natale e successivamente a Padova, dove i suoi interessi letterari lo portarono a stringere amicizia con l'abate Melchiorre Cesarotti, che aveva la cattedra di lingua greca e ebraica presso l'Archiginnasio cittadino. La frequentazione del Cesarotti, di cui era in corso la pubblicazione della versione letterale in prosa dell'Iliade, doveva aprirlo allo studio dei classici. Al ritorno in Dalmazia si stabilì a Sebenico, dove la famiglia si era trasferita, e presto vi contrasse matrimonio dal quale ebbe una numerosa figliolanza.
Nel periodo della reggenza francese non si lasciò muovere né da private, né da pubbliche sollecitazioni a prestare il proprio servizio. Va ricordato, tuttavia, il suo intervento nel 1807 nelle questioni relative alla nomina del vescovo di Sebenico.
Con la cessione della Dalmazia all'Austria il D. offrì i propri uffici all'amministrazione austriaca divenendo pretore giudiziario e politico dapprima a Sebenico e poi a Traù, dove mantenne la carica fino alla morte. Nel 1818 lo stesso imperatore Francesco I, in viaggio attraverso la Dalmazia, fu suo ospite per tre giorni. Gli impegni pubblici e familiari non lo distolsero dagli studi che anzi allargò al campo della filosofia e della teologia, acquistando presto fama di uomo dotto. In quegli stessi anni concepì il disegno di scrivere una storia completa dell'antica Grecia e a tal fine viaggiò e dimorò a lungo in diverse città italiane per consultare i grandi classici e raccogliere un'ampia mole di materiale.
Nel 1820dette alle stampe a Milano per i tipi di Nicolò Bettoni i primi due tomi della Storia dell'antica Grecia, l'unica delle sue opere ad esserci pervenuta. Nel Proemio, che apre il volume I, il D. affermava di voler opporre alla frammentazione cronologica dei testi classici come di quelli moderni (tra i quali mostrava di aver presenti l'Histoire ancienne di Charles Rollin, il Voyage du jeune Anacharsisen Grèce dell'abate Jean-Jacques Barthélemy e il The history of ancient Greece, itscolonies and conquests dell'inglese John Gillies) un'opera che abbracciasse l'intera parabola storica fino all'incendio di Corinto nelle cui fiamme erano bruciate la indipendenza e la libertà della nazione greca.
La struttura dei primi due tomi rispondeva all'esigenza da lui fortemente avvertita di aiutare il lettore a seguire lo svolgersi degli eventi offrendogli nel volume I un Prospetto geografico storico, in cui per la prima volta in uno studio relativo all'antica Grecia venivano delineati il teatro e le scene sulle quali si sarebbero poi mossi i grandi protagonisti, e soffermandosi nel volume II sui secoli eroici, gli anni d'oro fino alla guerra di Troia, descrivendo (sulla base dell'opera di A. Y. Goguet De l'origine des lois) gli usi e i costumi, la vita domestica, l'organizzazione sociale, le leggi, la religione, il commercio, le conoscenze tecniche e scientifiche del tempo. Soprattutto affermava di voler dare ai contemporanei, in cui la conoscenza del greco antico era ormai rara, non un'arida o infedele traduzione dei classici ma una storia che nella ricchezza della lingua rispecchiasse la fecondità e la grazia lessicale degli antichi. Deplorava perciò l'imitazione dei libri d'Oltralpe, l'uso della sintassi francese e dei vocaboli italianizzati, cosi come considerava da evitarsi "i vieti riboboli fiorentini, i gerghi dissipiti, le frasi oziose, la vuota sonorità e il tedioso ondeggiamento dei periodi compassati e interminabili e finalmente la pedantesca imitazione della lingua latina". Appare evidente il distacco dalle posizioni del Cesarotti e un avvicinamento agli ideali di una prosa letteraria conforme alle tradizioni e al genio della lingua, una prosa più elaborata, più italiana, ma non fiorentina, corrispondente all'uso vivo della lingua costituito da una ricca tradizione letteraria che, anche dopo il Trecento, aveva continuato a dare nuovi ed eccellenti frutti. Un purismo linguistico fine a se stesso, senza alcun intento civile e patriottico quale invece si ritrova in molti esponenti della prosa illustre italiana, tra cui era anche C. Botta, più volte ricordato dal Drago.
I due tomi apparsi nel pieno delle discussioni tra puristi e seguaci dei Monti furono accolti al loro apparire da numerose critiche. Al D. si rimproverava di aver dato spazio nel racconto a episodi vicini ai miti e alle leggende popolari degli antichi greci senza poi ricondurli alle loro profonde radici, quali manifestazioni della vita collettiva di quel popolo secondo un concetto di origine vichiana, e, soprattutto, si condannava l'uso di vocaboli desueti e di frasi ridondanti che rendevano la prosa affettata più che forbita e elegante. Il D. dovette ritenere fondate queste critiche se, come egli stesso ammetteva nella prefazione al volume III apparso nel 1822, provvide a emendare i successivi tomi dal manierismo eccessivo. Ancora sulla questione della lingua ritornava nella prefazione al volume V pubblicato nel 1834.
Prendendo lo spunto da una lettera inviatagli da A. Cesari il 20 nov. 1825 e da lui riportata (V, pp.VI s.), in cui, pur venendo lodata la sua profonda conoscenza della lingua, si auspicava una maggiore sobrietà, il D. ribadiva la sua opposizione a un ritorno ai modelli trecenteschi suggerendo anzi una riedizione di alcuni classici tra cui il Boccaccio "ripurgato di tutte le brutture linguistiche e il gran vizio degli ondeggianti periodi con il verbo in fine". Per lo stile dichiarava di aver tratto insegnamento dalle parole di G.H. Gaillard che, nella sua Histoire de François I, consigliava di variarlo e mutare il tono secondo gli avvenimenti e i personaggi.. Due diversi stili contraddistinguono infatti la Storia: uno poetico, a tratti pittoresco, per le parti descrittive, l'altro tragico nelle parti narrative ad imitazione della prosa del Guicciardini della Storia d'Italia, altrettanto piena di fatti eroici e insieme di atroci delitti e infimi raggiri. La descrizione dell'epidemia di peste ad Atene (vol. V) mostra chiara l'influenza di quello stesso episodio narrato da Lucrezio a forti tinte e da Boccaccio nel suo Decamerone. Ch. Rollin ha ispirato la parte relativa alla storia di Alessandro Magno; mentre per raccontare la fine dell'indipendenza della Grecia, conquistata dai Romani, il D. si ispira a Tito, Livio. Per lo stato della Grecia moderna la sua fonte è la Géographie mathématique, physique et politique di Edme Mentelle e C. Malte-Brun.
Tra il vol. IV, dato alle stampe nel 1825 come i precedenti per i tipi di Nicolò Bettoni, e il vol. V, pubblicato nel 1834 sempre a Milano, ma per i tipi di Giuseppe Crespi, intercorre un lungo lasso di tempo quasi certamente legato ai problemi che il governo austriaco, impegnato a cancellare qualsiasi traccia della dominazione francese e a colpire sospette idee liberali, poneva agli ambienti intellettuali dalmati.
Anche il D. fu sorvegliato dalla polizia austriaca e in un elenco di opere censurate nel 1829 figura il suo Panegirico di Giuseppe II, imperatore d'Alemagna, re d'Ungheria e di Boemia arrichito di note dilettevoli ed istruite, rimasto manoscritto e successivamente andato disperso. Motivo del sequestro i sentimenti liberali da lui adombrati nella sua Storia dell'antica Grecia e più probabilmente l'arringa agli Ateniesi pronunciata da Temistocle in cui allo statista greco veniva fatto affermare "che solo la signoria dei mare avrebbe ad essi [Ateniesi] data e conservata quella della terra" (vol. IV, cap. II, pp. 44 s.).
Il richiamo a Temistocle e a una sentenza "chi è padrone del mare è padrone del continente", attribuitagli in età napoleonica da F. Lomonaco nei suoi Discorsi letterari e filosofici e ripresa dal Foscolo nella Narrazione delle fortune e della cessione di Parga, doveva suonare alle orecchie dell'attenta polizia austriaca come sovversivo per la facile strumentalizzazione in senso filobritannico che poteva ancora avere in piena questione greca. A questo andava aggiunta la manifesta ammirazione del D. per Alessandro il Macedone di cui era ancora vivo nella memoria il parallelo con Napoleone, presente nel Foscolo. Non a caso l'immagine del grande re campeggiava in un'altra sua opera Sopra Alessandro il Macedone, rimasta manoscritta e poi andata persa, che il D., secondo il Tommaseo, voleva dedicare ad Alessandro di Russia. In realtà sono assenti nell'opera del D., come egli stesso sottolineava, "quei concetti civili, che con moderno vocabolo si chiamano oggi liberali" (vol. V, p. LII). La Storia risulta piuttosto un'esaltazione di quelle epoche felici (la Grecia di Pericle e quella di Alessandro Magno; la Roma di Cesare; il pontificato di Leone X e la Firenze dei Medici; la Francia di Luigi XIV e di Colbert) in cui i principi, accentrando nelle loro mani il potere, avevano lasciato una traccia indelebile nella storia (vol. IV, cap. IV).
Uomo di grande cultura, uso a frequenti citazioni anche nel conversare quotidiano, visse circondato da grande stima non solo nella natia Dalmazia, ma anche negli ambienti culturali milanesi e veneziani, come testimoniano alcune lettere a lui scritte dalla contessa Isabella Teotochi Albrizzi e dalla nobildonna veneta Marina Querini Benzone, finché la morte non lo colse a Spalato il 3 nov. 1836. Fu sepolto sulla penisoletta di Santo Stefano.
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