DIEDO, Vincenzo
Nacque a Venezia nel 1499 da Alvise di Francesco, del ramo a Ss. Apostoli, ed Elisabetta Priuli di Gerolamo di Nicolò.
Si trattava di famiglie ricche e prestigiose (il padre tra l'altro fu provveditore in Romagna, durante la laboriosa riconquista della Terraferma seguita alla rotta di Agnadello), e questo, insieme con una notevole ambizione e indubbie qualità intellettuali, consentì al D. di percorrere una cospicua carriera politica, certamente superiore a quella dei fratelli Pietro (il quale non andò oltre la nomina di ufficiale alle Rason Nove) e Francesco, che dopo il matrimonio con Chiara Bembo di Girolamo (1521) si occupò prevalentemente dell'amministrazione familiare.
Discutibile risulta però l'esordio di questo giovane colto e deciso all'agone politico, avvenuto col saviato agli Ordini, cui venne eletto il 20 sett. 1520, mentre ancora non aveva raggiunto la maggiore età; quando, di lì a poco, la cosa fu scoperta, il D. cercò di ovviare alla mancanza del requisito, peraltro fondamentale, con l'offerta di 500 ducati alla cassa dell'Arsenale; il 16 ottobre l'offerta era tuttavia respinta, con soddisfazione del Sanuto ("Fo ben fatto a non aprir questa porta"). Fu indubbiamente un passo falso, e il D., a mo' di riparazione, accettò due anni dopo la nomina ad una podesteria "minore" quella cioè di Piove di Sacco, quasi ai margini della laguna, dove si recò il 25 nov. 1522; il gesto valse a riabilitarne l'immagine agli occhi dei concittadini, al punto che il D., una volta espletato l'incarico, venne eletto governatore delle Entrate ed auditor nuovo, come sappiamo - ancora una volta - dal Sanuto, che alla data del 10 genn. '27 puntualmente lo annota tra i debitori della "tansa" levata sopra questi uffici.
Nell'ottobre del '30 il D. fece parte di una legazione di ventotto nobili mandati a Chioggia ad incontrare il duca di Milano, e appunto ambasciatore presso lo Sforza il D. fu ballottato, ma non eletto, il 20 giugno '33; entrò invece a far parte, tre mesi dopo, dei provveditori sopra il Cottimo di Londra, carica che abbandonò il 17 sett. '34 per assumere quella di ufficiale ai Dieci Uffici, la quale pure lasciò l'11 genn. 1535, non si sa per quale ragione.
Nel '37 - anno in cui gli morì il padre - fu eletto ambasciatore al re di Polonia, Sigismondo Augusto; la missione si inquadrava nell'ambito degli sforzi che lo Stato marciano andava allora compiendo in ogni direzione con la speranza di dar vita ad una coalizione che valesse a contenere l'espansionismo di Solimano, senonché di questa ambasceria non rimane traccia: il 12 novembre fu concesso al D. di continuare a frequentare le assemblee del Senato, in attesa di recarsi in Polonia, poi la partenza dovette essere rinviata, presumibilmente a causa della cattiva stagione. Certo è che le commissioni non gli furono mai consegnate, mentre in primavera l'attenzione della diplomazia veneziana si spostava sul convegno di Nizza, il cui esito positivo tuttavia non evitò alla Repubblica di sottoscrivere, nel 1540, una ingloriosa pace con il potente aggressore.
Il D. fece quindi parte della Quarantia criminale e nel settembre del '40 assunse la podesteria di Bergamo: la relazione conclusiva, letta in Senato il 30 genn. 1542, insisteva soprattutto sulla sterilità di un territorio incapace di sopperire alle esigenze dei suoi abitanti, e caldeggiava il potenziamento del mercato di Romano, ai confini col Milanese, e l'abbattimento di alcune restrizioni annonarie: in pratica, libertà di commercio e di contrabbando.
Nuovamente a Venezia, ottenne il saviato di Terraferma dall'aprile al settembre '42, quindi, dopo due anni di assenza dalla politica (queste saltuarie interruzioni sono ricorrenti nella carriera del D.; una spiegazione potrebbe consistere nella precarietà della sua salute: sappiamo che era di debole costituzione, quasi macilento, e che morì a soli sessant'anni), fu nominato podestà a Verona, dove rimase dal maggio del 1545 al luglio '46, in una sede certo più tranquilla e prestigiosa rispetto al precedente rettorato. Savio di Terraferma per il secondo semestre del '47, il 29 giugno dell'anno seguente entrò a far parte del collegio dei Venticinque tansadori; fu poi ancora savio di Terraferma nella seconda metà del '49, ma non portò a termine il mandato, giacché in novembre accettò la luogotenenza della Patria del Friuli, dove rimase fino alla primavera del 1551, occupandosi soprattutto della sistemazione finanziaria della provincia, in relazione all'esigenza, ormai chiaramente avvertita anche a Venezia, di rafforzarne le strutture difensive, e della spinosa opera di prevenzione e contenimento delle molteplici angherie con cui i feudatari angustiavano i contadini, spesso mediante la connivenza e l'appoggio degli Imperiali.
Al rientro in città ricoprì nuovamente la carica di savio di Terraferma (1º aprile-30 sett. '51), quindi fu eletto, agli inizi del '52, riformatore dello Studio di Padova (la qual cosa significava ch'egli era dotato di buona cultura, o quantomeno ad essa sensibile), ma preferì optare per il saviato di Terraferma, per lo stesso periodo dell'anno precedente; riconfermato riformatore dello Studio di Padova l'8 di ottobre, neppure quattro mesi dopo declinava nuovamente l'incarico per assumere quello di consigliere ducale per il sestiere di S. Polo, dove si era trasferito, probabilmente dopo la morte del padre: e in tale veste toccò a lui, come al più giovane, incoronare il doge Marcantonio Trevisan, nel giugno 1553.
Sostenne quindi un ultimo reggimento e dall'agosto '54 alla fine del '55 esercitò la carica di capitano a Padova.
Una carriera intensa, dunque, e dispendiosa, segnata soprattutto da un fitto succedersi di incarichi interni, mentre nei dibattiti assembleari il D. manifestò sempre molta moderazione: la sua visione politica fu infatti ispirata al mantenimento della pace e ai buoni rapporti con la S. Sede; non a caso, quasi trent'anni dopo la sua scomparsa, Sisto V, dolendosi degli attacchi che gli muoveva il partito dei "giovani", rimpiangeva tra i defunti "oracoli della città" anche il D., che certo mai avrebbe tollerato tanta oltraggiosa intransigenza.
Si spiega forse in tal modo la comparsa del suo nome tra i candidati alla nomina a vescovo di Venezia, il 21 ag. '54: dopo il lunghissimo e difficile patriarcato del domenicano Gerolamo Querini (1524-54), rigoroso assertore delle prerogative della sua Chiesa nei confronti dello Stato, ma altrettanto intransigente verso il proprio clero e lo stesso nunzio pontificio (in odio a tutti, era morto a Vicenza, dove si era relegato in una sorta di volontario esilio), il Senato aveva deciso di preferire un laico ad un religioso, quasi a voler sottolineare la dipendenza del patriarca dalla politica marciana. La scelta cadde sul senatore Pietro Francesco Contarini, ma il D. riuscì secondo, raccogliendo ben 105 suffragi; senonché il Contarini morì dopo soli sedici mesi, e questa volta, nella votazione del 27 dic. 1555, il Pregadi elesse patriarca il D., sul cui nome confluirono 179 sì e 155 no. Il D., che si trovava ancora a Padova, tornò subito a Venezia.
Quasi a dimostrazione di buona volontà, e di fiducia verso il neoeletto, due mesi dopo Paolo IV gli inviava la conferma e il pallio; nel contempo dava istruzioni al nunzio Filippo Archinti sulla condotta da tenere col D.: a quest'uomo, definito di proba dottrina, prudenza e ricchezza di virtù, era opportuno non creare difficoltà, perché non avessero da ripetersi gli inconvenienti e le incomprensioni del passato. Il problema di fondo era costituito dall'elezione del clero veneziano; e a questo proposito il D. - cui il problema stette effettivamente a cuore - dimostrò ben presto di voler sostanzialmente attenersi alla linea di condotta del suo predecessore Querini: non fu impresa facile, ma egli riuscì nel suo intento grazie all'aiuto papale, che non gli venne mai meno.
Sin dall'agosto '56 il D. emanò una costituzione con cui si proibiva che nelle elezioni ai benefici ed ai titoli canonici la scelta cadesse sui parenti, al fine di premiare la purezza di vita e la dottrina degli ecclesiastici, cui fece seguito, nel maggio '57, il divieto ai vescovi di promuovere agli Ordini i chierici veneziani, senza previa licenza del loro legittimo pastore: un costume, questo, che aveva dato origine alla piaga dei preti e monaci vagabondi, già condannata dalla stessa S. Sede. Naturalmente il D. ebbe a subire contestazioni e opposizioni, ma - come si è accennato - Roma appoggiò sempre la sua opera, al punto da sottrarre al nunzio, con breve del 20 dic. 1557, l'esame dei piovani per conferirlo al patriarca. Il quale non fu solo uomo di chiesa, ossia non volle esaurire il suo compito nella cura spirituale della diocesi (e a questo proposito ne va ricordato l'impegno per l'istituzione della pia casa dei catecumeni, la cui seduta di fondazione ebbe luogo il 21 ott. 1557, ch'egli volle estesa non solo agli ebrei, ma anche ai musulmani): fu sua l'iniziativa - del resto perfettamente in linea con l'ideologia che animava il patriziato filoromano - di affidare ad Andrea Palladio il progetto della nuova facciata di S. Pietro di Castello.
Purtroppo non ci è conservata la soluzione ideata dall'architetto vicentino, che certo doveva costituire un interessante precedente per le successive realizzazioni di S. Giorgio Maggiore e del Redentore, anche perché vi si affrontava per la prima volta il problema del rifacimento in senso classico della facciata di una chiesa di tipo basilicale: i lavori, ai quali fu dato inizio nei primi mesi del '58, furono presto interrotti, probabilmente in seguito alla morte del D., per cui la facciata attuale è opera successiva di F. Smeraldi.
Non si può escludere che proprio l'urgenza di disporre di grosse somme abbia suggerito al D. di risparmiare qualcosina attraverso il classico ricorso all'evasione fiscale (del resto, c'era abituato: si è visto come il Sanuto, una trentina d'anni avanti, lo annotasse tra i pubblici debitori); sta di fatto che nella primavera del '59 i governatori delle Entrate gli ingiunsero di soddisfare 2.000 ducati di decime arretrate.
Per reagire alle critiche che i concittadini non mancarono di riversare sul patriarca, questi pensò bene di recarsi in Senato, in maggio, dolendosi - come riferisce la cronaca del Lippomano - "che contra la sua dignità fossero state dette molte parole di poco rispetto, et che essendo lui vissuto, mentre che fu laico, innocentissimo et senza oppositione alcuna, che hora che era fatto religioso si doveva credere che havesse migliorata natura et vita, et non deteriorata, et che però saria bene, che Sua Serenità provvedesse con l'autorità sua a queste male lingue...", e intanto chiedeva una dilazione di otto anni per il soddisfacimento del debito, ricordando appunto i "molti danari spesi nel riparamento della Chiesa et Palazzo".
Fu una mossa errata. Insorse allora il savio di Terraferma Giovanni Donà, attaccabrighe notorio e di lingua pungente, apostrofandolo duramente: "et dicovi qui in faccia che non solamente non sete degno di scusa, ma che meritate grandissima riprensione et castigo"; seguì un lunghissimo discorso (non per nulla il Donà era soprannominato "dalle renghe") la cui conclusione era che il D. doveva essere multato e deposto.
Questi allora pensò bene di ricorrere a Roma, che naturalmente gli diede ragione. Fu un secondo errore, che offrì al Donà il destro di esibirsi in Senato il 19 luglio: dapprima apostrofò il patriarca come "collo torto", "hyppocrito", "lupo rapace", poi ricordò i 900 ducati da lui spesi per un banchetto in onore del cardinale Carafa "col disegno d'acquistarsi un Cappello co'l mezzo della gola"; da ultimo accennò al motivo - tradizionalmente caro al patriziato veneziano - del prelato insensibile agli ideali di povertà e spiritualità: "vi vuoi altro che masticar paternostri et giegiunare, et comparir macro e pallido in publico, e voler esser tenuto huomo da bene; bisogna operar non solo in pubblico, bene, ma anco in privato".
Al D. non rimase che accettare la sconfitta, che i successivi interventi dei savi del Consiglio Grimani e Soranzo resero meno umiliante, facendo accettare al Senato un piano di rateizzazione del debito, proposto dallo stesso patriarca. Il quale morì di lì a poco, nel suo palazzo a S. Pietro di Castello, l'8 dic. 1559, "amalato già mesi tre"; una breve iscrizione ne ricorda la sepoltura, davanti alla porta maggiore della cattedrale.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd. I, St. veneta 19:M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii..., III, p. 216; Ibid., Avogaria di Comun, b. 159: Necrologi di nobili, sub 11 dic. 1559; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni dei Pregadi, reg. "A", c. 29r; reg. I, cc. 12, 26, 44, 53, 87; reg. 2, c. 72; Ibid., Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 1, cc. 18, 28, 126; 2, cc. 5, 121, 136; Ibid., Senato, Mar, reg. 32, cc. 11v-47, 53v-86v, 101v- 104v; per l'elezione all'ambasceria in Polonia, Ibid., Senato, Tema, reg. 29c. 176r; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti..., I, cc. 245rv; per lo scrutinio a patriarca, ibid. 1536: Memorie spettanti alla Città e Dominio di Venezia…, pp. 391, 393; sulla questione delle decime non pagate, e i dibattiti che ne seguirono, ibid. 2558: G. Lippomano, Delle historie vinitiane dall'anno MDLI all'anno MDLXVIII…, pp. 464-479; M. Sanuto, Diarii, XXIX, Venezia 1890, coll. 203, 256, 302, 395; XXXIII, ibid. 1892, col. 525; XLIII, ibid. 1895, col. 622; LIV, ibid. 1899, col. 34; LVIII, ibid. 1903, col. 355; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 297 s.; l'unica relazione pervenutaci, in Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, XII, Podesteria e capitanato di Bergamo, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1978, pp. 11. Cfr. inoltre: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare..., Venetia 1663, pp. 7, 15, 18; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, p. 15; IV, ibid. 1834, p. 137; V, ibid. 1842, p. 90; VI, ibid. 1853, p. 565; G. Cappelletti, Le chiese d'Italia…, IX, Venezia 1853, pp. 315 ss.; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Firenze 1958, pp. 28 s.; A. Niero, Ipatriarchi di Venezia da L. Giustiniani ai nostri giorni, Venezia 1961, pp. 89-93; P. F. Grendler, The Tre savi sopra eresia 1547-1605: a prosopographical study, in Studi veneziani, n. s., III (1979), pp. 305, 309, 313, 320; D. Battilotti, Palladio a Venezia. Regesti per un itinerario, in Palladio e Venezia, a cura di L. Puppi, Firenze 1982, pp. 180 s.; B. Pullan, Gli ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985, p. 395; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985, p. 197; G. Zalin, I problemi annonari nell'Oltremincio e nei laghi delle Prealpi, in Uomini, grani e contrabbandi sul Garda tra Quattrocento e Seicento, a cura di E. Rossini-G. Zalin, Verona 1985, p. 14; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-eccles. …, XCI, pp. 9, 245; XCIII, p. 133; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica Medii Aevi…, III, Monasterii 1923, p. 350.