DI GIOVANNI, Vincenzo
Nacque verso la metà del sec. XVI a Palermo da Francesco, barone del Parco, e da Delizia Del Carretto; fu fratello di Girolamo, di cui seguì le esperienze e il costume di vita. Anche il D., infatti, si arruolò nella flotta di don Giovanni d'Austria e conibatté contro i Turchi a Navarino; e, come il fratello, amò le giostre e i duelli, seguì gli studi giuridici e fu membro dell'Accademia degli Opportuni. Ebbe un figlio, di nome Giovanni, che nel 1603 entrò nell'Accademia dei Cavalieri. Il D. fu letterato e storiografo; ma la sua produzione è infoltita con opere, che furono probabilmente composte da Girolamo e divulgate - non si sa per quale motivo - sotto il suo nome. Particolarmente controversa è l'attribuzione del poema Palermo trionfante (1600), che lo stesso D. assegna, all'interno di una medesima opera, Palermo restaurato, ora a se stesso, ora al fratello, generando confusione e disorientamento.
Il D. è certamente autore di una vasta opera di carattere storiografico, Palermo restaurato, appunto, composta intorno al 1615, in un momento in cui gli sforzi urbanistici dell'amministrazione spagnola assicuravano a Palermo un incontestabile primato sulle altre città siciliane e le davano nuovo decoro e dignità. Partendo proprio da questo ritrovato splendore monumentale, il D. descrive in quattro libri le vicende più remote della città e il moderno assetto urbanistico, mescolando leggenda e verità, testimonianze dirette e ipotesi indiziarie.
In effetti, parziale è l'utilità del libro, ed essa risulta crescente all'approssimarsi ai fatti contemporanei. I libri primo (Dell'origine e fondazione di Palermo con le cose successefino a Ruggero) e terzo (De' re, con tutte le guerre da loro fatte, e degli eroi sino al tempo che i re fecero residenza) sono perciò i meno attendibili, perché le poche notizie attinte da antiche fonti sono incrostate da supposizioni fallaci e indulgono al "meraviglioso", in linea con gli intenti municipalistici e celebrativi dell'opera. Gli altri due libri, il secondo (Del sito della città, nobiltà, magistrati e persone illustri) e il quarto (De' vicere' e cose notabili fino al duca di Ossuna), pur non privi di inesattezze, forniscono importanti notizie sulla vita cittadina e sui suoi rappresentanti più autorevoli. Nel Palermo restaurato "non l'ingegno, non la dottrina, non la diligenza, ma principal merito è l'amor di patria" sostiene l'editore ottocentesco G. Di Marzo (p. XXIII), che avverte con fastidio il depositarsi di "fole" e "apocrife storie" sui pochi documenti consultati. In effetti il D. discute con puntiglio, in tono epico-celebrativo e non certo di ponderata ricognizione storiografica, sugli eroi fondatori della città, chiedendosi con male applicata acribia se Palermo fu fondata da Cam o da Saturno o da altri eroi dell'immaginazione. In realtà egli ignora fondamentali vicende della storia antica e, trascurando il valore della presenza gfeca, favoleggia anche di un'indipendenza palermitana al di fuori del conflitto tra Romani e Cartaginesi.
Priva della serietà della contemporanea opera di Mariano Valguamera, Delle origini ed antichità di Palermo, il libro risulta tuttavia apprezzabile nella descrizione della topografia e dell'assetto monumentale della città, che al D. appariva, proprio in questo incremento della sua dignità urbanistica, "restaurata" nella sua immagine di fioridezza e decoro. Ma accanto all'interesse per siti e planimetrie prevale nell'opera l'attenzione, tipicamente secentesca, per le parate e le cerimonie fastose, le contese nobiliari, i protocolli e gli intrighi araldici, nella cui valutazione finiscono con lo smorzarsi le tensioni di un secolo non certo privo di conflitti e avverse congiunture. L'opera del D. fu in effetti nota per l'accurata ricostruzione delle genealogie della nobiltà cittadina, una classe che, come quella dei letterati e delle altre persone illustri, è vista come fregio e onore della città. Per il resto, ferma restando l'assoluta invalidità storiografica delle pagine dedicate all'"origine e fondazione di Palermo", in cui arriva a smentire Polibio e Diodoro, ad alterare Livio, accomodando le più strampalate etimologie, il D. ha scritto un'opera appassionata, in cui non manca qualche momento di vivace narrazione, fuori soprattutto da certa greve e mal supportata pedanteria. Col suo fare panegiristico ed encomiastico il Palermo restaurato si propone almeno due obbiettivi: uno obbedisce ad un impulso civico fortemente sottolineato; l'altro, meno esibito, ad un bisogno di illustrare la propria stirpe; ed infatti il D. non si perita di ritagliare, entro l'ondosa narrazione di tanti casi e uomini celebri, una spazio privilegiato per la sua famiglia, esaltando ora la pietà dell'avo che staccò dalle inferriate dello Steri la testa mozzata di un infelice amico, ora la virtù del padre Francesco, lodato e rimpianto dal viceré, ora ancora le prodezze del fratello Girolamo, sempre alla ribalta con la sua perizia schermistica e la sua ostentata generosità. Non uomo di profondi studi e diversificate ricerche, il D. è un gentiluomo dell'apparato di potere, un potere che egli non osa criticare, anche quando ha inflitto (a suo dire ingiustamente) la pena carceraria a due suoi fratelli. Tutti saggi e magnanimi sono i viceré; e tutta prospera e fortunata è la sorte di Palermo, fin dall'incipit chiamata "felicissima patria mia", "nobile e principale", nonostante le rivolte (come quella di notar Cataldo), le pestilenze, gli incendi, che egli quasi malvolentieri è costretto a registrare.
Manca un giudizio, se non di disapprovazione, almeno di critica distanziata; e il filospagnolo D. ha lasciato il ritratto di una città che, secondo una visione cortigiana, vede crescere la sua felicità sotto le più recenti dominazioni, fino a trovare il duca di Ossuna, ultimo e vivente viceré, quello "di migliore intenzione ed effetti".
Conosciuto quasi esclusivamente per la sua attività storiografica, il D. è indicato dal Mongitore (Bibliotheca Sicula, p. 287) come autore di una Vita e morte di s. Rosalia, di Rime, di Satire e di un'Oratione funerale in morte di don Lucio de' Tignosi, di cui è menzione nello stesso Palermo restaurato. Sotto il suo nome si trova nella Biblioteca comunale di Palermo (2QqB8) una raccolta manoscritta di Rime di carattere prevalentemente pastorale. La silloge contiene tra l'altro l'egloga Fortunio, dedicata "per dispregio della corruzione umana" "al colleggio delle statue della nostra ricchissima fonte di Palermo". In questi versi assai scolastici prevalgono le tonalità accese e il gusto per la dilazione e l'indugio descrittivo. L'imitazione della poesia ovidiana (degli Amores, ma anche delle Metamorfosi) tinteggia di eccessi sentimentali e verbali le consuete atmosfere virgiliane, che, dopo gli sviluppi cinquecenteschi del genere bucolico, sono tuttavia la cassa di risonanza della desolazione e del cordoglio amoroso. A contrade palermitane, comunque, rimanda certa toponomastica, come il "bello Oreto"; mentre nelle liriche di argomento vario è compreso un sonetto (Alla città di Palermo), dove il poeta allude ad un suo progetto di celebrazione della città (forse il Palermo restaurato) come opera da realizzare, il che colloca prima del 1615 questa lirica, se non l'intera raccolta.
Il D. morì nel febbraio del 1627 a Castronovo (Castronuovo di Sicilia, in prov. di Palermo), dove ricopriva la carica di giudice.
Il Palermo restaurato, rimasto a lungo manoscritto, è stato pubblicato in due volumi a cura di G. Di Marzo, in Opere storiche inedite sulla città di Palermo, Palermo 1872.
Fonti e Bibl.: Palermo, Bibl. comunale, Mss. Qq, D, 19: V. Auria, Teatro degli uomini letterati palermitani; G. M. Amato, Oratio prima in litterariis anni renascentis auspiciis, Panormi 1703, passim; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Panormi 1708, pp. 286 s.; V. Di Giovanni, La poesia italiana in Sicilia, in Filologia e letteratura siciliana, Palermo 1871-79, II, pp. 98-104; Id., Della poesia epica in Sicilia, ibid., III, pp. 273-280; G. M. Mira, Bibliografia siciliana, Palermo 1875, I, p. 434; S. SalomoneMarino, La Congregazione dei cavalieri d'armi, in Nuove Effemeri di siciliane, s. 3, V (1877), p. 138.