DE MARINI (Marini), Vincenzo
Nacque a Genova nel 1583 da Pietro Francesco di Goffredo e venne ascritto alla nobiltà l'8 dic. 1608. Ebbe un solo fratello, Marco Antonio, che non risulta iscritto; risultano invece iscritti nel 1611 (mentre lo zio del D., Giovan Giorgio, era ambasciatore a Madrid) i quattro cugini Paolo Maria, Goffredo, Francesco e Alessandro, gli ultimi due poi sacerdoti. Dagli alberi genealogici della nobiltà non risulta invece alcuno stretto legame di parentela con Claudio De Marini (dato invece per scontato dagli storici), alla cui vicenda quella del D. risulta strettamente collegata. Il D. infatti, direttore generale delle Poste della Repubblica, nel 1625, venne accusato di alto tradimento proprio perché collegato alle, vere o presunte, trame franco-sabaude contro Genova, che sarebbero state orchestrate appunto da Claudio.
Il D., definito dal Casoni "nato in tenuità di fortuna di una chiara famiglia, intollerante dello stato dalla Divina Provvidenza affidatogli", avrebbe acconsentito a fornire informazioni politiche e militari a Claudio De Marini, in quel tempo ambasciatore del re di Francia a Torino, in cambio di una pensione annua di 500 scudi d'oro pagatagli dal re di Francia. La sua posizione alle Poste, che gli avrebbe permesso di leggere e decifrare la corrispondenza ufficiale proveniente dalla Spagna, e il cognome di Claudio, fecero probabilmente del D., al di là della consistenza delle sue colpe, il capro espiatorio cercato in quel momento dalla Repubblica, ansiosa di soddisfare la dignità offesa della Spagna e di "dare un esempio" di fermezza al Piemonte e alla Francia e a quanti in Genova potevano simpatizzare per la potenza d'Oltralpe.
Certo la situazione internazionale era molto tesa, quando nel 1625 (con la Spagna impegnata contro i Franco-Sabaudi nello scacchiere italiano della guerra dei Trent'anni e, per Genova, la guerra alle porte, nonostante la proclamata neutralità) il governo genovese, sospettando che il duca di Savoia, accantonata la via militare, cercasse di impossessarsi della Repubblica attraverso trame e congiure, arrestò tre borghesi (Giulio Cesare Vachero, Giovan Girolamo Russo e Giovan Tomaso Maggiolo), che però in questa circostanza furono presto rilasciati, e appunto il De Marini. L'accusa sarebbe venuta da una sua serva, insospettita dalle lunghe ore notturne trascorse dal D. a scrivere messaggi, e sarebbe stata confermata da una perquisizione in casa del D., dove sarebbero state scoperte molte lettere compromettenti.
Venne subito istruito il processo "con solennità spaventosa", affidato al senatore G. B. Saluzzo e ad Opicio Spinola, mentre la difesa del D. era assunta da Ottavio Sauli e Leonardo Spinola. Sottoposto a tortura, il D. confessò di aver consentito a Matteo Tarcone, ingegnere francese, di ricavare il modello delle fortificazioni della città; di aver comunicato ai nemici notizie pregiudizievoli per la Repubblica; di aver approfittato del suo ufficio di direttore delle Poste per intercettare la corrispondenza del re di Spagna e dei suoi ministri e fornire informazioni ai Francesi; di aver ospitato negli ultimi tempi nella sua casa alcuni ernissari del duca di Savoia, inviatigli da Claudio De Marini, per spiare "gli arcani della Repubblica"; aver accettato, in cambio di questi servigi, la citata pensione di 500 scudi d'oro dal re di Francia.
Messa ai voti la dichiarazione di alto tradimento, i Collegi, la sera del 7 maggio 1625, lo condannarono a morte. Conosciuto il verdetto, Claudio De Marini fece intervenire il conestabile di Francia duca di Lesdiguières, che con una infelice lettera di minacce chiese la sospensione della condanna del D., al che il governo genovese rispose con l'immediata esecuzione della stessa. Il D. venne decapitato nella torre il 12maggio e il suo cadavere, vestito del saio dei cappuccini, fu esposto al popolo nel cortile di palazzo ducale.
Le scene di violenza popolare (secondo il Casoni, più volte le guardie sarebbero dovute intervenire per impedire lo scempio del cadavere) consigliarono di seppellire nello stesso pomeriggio il D. nella vicina chiesa del Gesù, di cui si dovettero subito chiudere le porte per impedire al popolo furibondo di entrare. Anche questi particolari confermano l'impressione che il processo e la condanna del D. abbiano avuto un fine politico e propagandistico: prima di tutto, accontentare finalmente la Spagna (che tramite il D. dimostrava le presunte responsabilità dell'odiato Claudio De Marini) e in secondo luogo mostrare al popolo, agitato dalle recenti esperienze belliche alle porte della città, i subdoli tentativi dei nemici franco-sabaudi e l'efficiente e inesorabile sistema di controllo del governo.
Venticinque anni dopo la sua morte, il D. venne depennato dal Libro della nobiltà con sentenza 29 giugno 1650, con la clausola che, se avesse lasciato figli, questi non potessero essere iscritti. E probabilmente lasciò qualche discendente, poiché ancora molti anni dopo, il 25 ag. 1683, un biglietto anonimo metteva in guardia i Collegi contro l'ascrizione di Ferdinando e Vincenzo Marini, perché si riflettesse sui loro padri e ascendenti.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Mss. 454, cc. 38 s., 62v, 80;F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, V, Genova 1800, pp. 102ss.; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1836, pp. 258 s.; M. E. Vincens, Histoire de la Republique de Gênes, Paris 1849, III, pp. 151 ss.; G. Arias, La congiura di G. C. Vachero, Firenze 1897, pp. 31 s.; F. Donaver, La storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, II, pp. 272ss.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, p. 282;G. Guelfi Camajani, Il "Liber nobilitatis Genuensis"..., Firenze 1965, p. 331