DANDINI, Vincenzo
Fratello del pittore Cesare, nacque a Firenze nel 1607.
Menzionato solo marginalmente nella biografia di quest'ultimo dettata da Filippo Baldinucci o citato occasionalmente in quella del nipote Pietro Dandini, anch'egli pittore, scritta da F.S. Baldinucci, era assai apprezzato dai Fiorentini contemporanei, e non solo da quelli, per esempio anche da Pietro da Cortona, come si apprende da cenni nelle fonti. Filippo Baldinucci promise una biografia che poi non scrisse, o quantomeno non pubblicò; mentre un secolo dopo il D. appare oggetto di grande interesse da parte dell'anonimo che, fruendo di notizie trasmessegli da G. Targioni Tozzetti, il celebre erudito toscano, nel 1774 redasse l'elogio del pittore nella Serie d. uomini più illustri..., ossia una estesa biografia, in cui trovano riscontro e appoggio osservazioni critiche quali si possono fare oggi ricucendo filologicamente i dati che si desumono dai dipinti con certezza attribuibili al, D. reidentificati e studiati per la prima volta.
La ricostruzione per sommi capi della figura storica del D. e la collocazione della stessa nell'ambito che le compete della pittura fiorentina seicentesca si fonda sul rinvenimento di due importanti dipinti da lui eseguiti per il principe don Lorenzo de' Medici intorno al 163 8, destinati alla villa della Petraia (Borea, 1975, 1977), oggi nei depositi degli Uffizi, a Firenze.
Le due tele, raffiguranti Venere, Mercurio e Amore, e il Sacrificio di Niobe (quest'ultima nota al biografo del 1774 e al Lanzi, ma in epoca recente attribuita a G. Martinelli: Berti, 1956), di notevole qualità pittorica, lasciano intendere che il D., se da un lato guardava a F. Furini - a quel momento attivo anch'egli per don Lorenzo - e da lui riprendeva i tipici blu oltremare e i gialli setosi che caratterizzano la sua gamma cromatica, dall'altro si studiava di dare una propria interpretazione di fatti di cultura romana che non poteva aver appreso che in Roma stessa, e in ambienti classicisti.
D'altra parte il suo interesse per l'antico, testimoniato dal biografò del 1774, che insiste a proposito di un lungo esercizio di riflessione grafica sui celebri monumenti della scultura antica in Roma, e su Raffaello e su Michelangelo, è provato anche da disegni contrassegnati dalla sua sigla, oggi nella raccolta americana Held (cfr. il catal. 1970), con studi dai rilievi traianei dell'arco di Costantino. E non vi è dubbio che il riflesso di questi studi si coglie nel summenzionato Sacrificio di Niobe, dove l'azione si svolge maestosa come in un fregio antico reinterpretato tramite Domenichino e Poussin. Purtroppo al momento attuale nulla è stato ritrovato in quanto a pitture del D. che possano riferirsi al suo periodo romano, e neanche quel saggio ad acquarello, un Diluvio universale, che egli avrebbe eseguito con grande successo per l'Accademia di S. Luca (Serie degli uomini più illustri..., 1774, p. 162).
Per così accentuata propensione classicistica da modelli piuttosto bolognesi che alla Pietro da Cortona, il D. appare in posizione singolare rispetto alla pittura fiorentina coeva, che non riflette quasi per nulla il revival di interesse per l'antico cui partecipano pittori come G. Gimignani o il Camassei o il Romanelli, avvicinati forse dal D. a Roma alla fine del quarto decennio; ma quando egli si esprime in figurazioni semplici, ove domina la tematica cara anche al fratello Cesare, gli si reimpone come modello il Furini per la morbidezza della pittura, ad esempio nei due ovati con mezze figure, Elia l'uno, Salomé l'altro, della collezione fiorentina Bigongiari, o nella Artemisia del castello di Schleissheim (questa un tempo attribuita al Furini, in seguito al Marinari dal Cantelli), opere che sono state restituite al D. (Borea, 1975) per confronto stilistico con i citati quadri eseguiti per don Lorenzo e con l'ovato con Baccante, già noto al Baldinucci, della Galleria Corsini di Firenze.
Tra queste opere di destinazione privata, di difficile datazione, e quelle in luogo pubblico attribuite al D. dal biografo del 1774 e dalle antiche guide, parrebbe intercorrere un lungo lasso di tempo, essendo datata 1657 la pala d'altare in Arezzo, S. Maria in Gradi, con i SS. Andrea Zoroandro e Carlo Borromeo, e databili intorno al 1670 (Razzoli, 1898) quelle nella chiesa di Ognissanti a Firenze: i SS. Bernardino e Giovanni da Capestrano, la Madonna con i ss. Giovacchino ed Anna (erroneamente tramandata col nome di Pietro Dandini, e recentemente pubblicata come di Cesare; Cantelli, 1983), la Immacolata Concezione, la Morte di s. Pietro d'Alcantara.
Mentre il primo di questi quattro dipinti, che sarebbe del 1667, di notevole qualità, si ricollega per l'intensità pittorica alle opere per don Lorenzo e alla pala di Arezzo, gli altri, come dei resto la tela con S. Berta in S. Felicita, recano i segni della stanchezza nell'omaggio all'Accademia fiorentina più convenzionale. In ogni caso il debito verso l'arte di Pietro da Cortona, che dai più è stato indicato come alla base della cultura del D., nelle opere conservateci e giudicabili appare marginale e non qualificante.
Il Battesimo di Costantino già in S. Bartolomeo in Pantano a Pistoia è attualmente (1985) in un magazzino della Soprintendenza a Firenze mentre l'Annunciazione di S. Ambrogio a Firenze, che il Richa tramanda come datata 1651 non è più in situ. Scomparso è anche l'affresco con Aurora nella villa di Poggio Imperiale, dipinto nel 1656, e che il D. stesso menziona come già guasto e bisognoso di ritocchi in una sua nota autografa del 1662. In quel tomo d'anni è sempre egli stesso a riferirci che inviava quadri a Napoli.
Il D. morì a Firenze il 22 aprile 1675, lasciando numerosi allievi, tra i quali il nipote Pietro, A. D. Gabbiani, A. Rosi, G. B. Foggini, scultore. Una sua effige di profilo ci è tramandata da una incisione di G. Retti, tratta da un disegno di A.D. Gabbiani, come avverte l'anonimo autore della biografia del 1774 ove è pubblicata l'incisione (pp. 160, 168).
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