CARTARI, Vincenzo
Nacque a Reggio Emilia da Cesare con ogni probabilità nel 1531. Il 17 febbraio di quell'anno infatti fu battezzato, insieme con la sorella Grazia, nella sua città natale da Bartolomeo Lamberti, canonico della collegiata di S. Prospero e rettore di S. Giovanni Battista iuxta plateam.
Tutta la sua vita, per quanto risulta almeno dalle scarse notizie pervenuteci, ruotò intorno agli Este, di cui anche i suoi avi erano stati fedeli servitori. Dedicando nel 1551 ad Alfonso II, futuro duca di Ferrara, la sua traduzione dei Fasti di Ovidio, il C. precisa che i servizi della sua famiglia erano stati particolarmente apprezzati al tempo del duca Ercole I (1471-1505). Nella stessa dedica il C. accenna al fatto di essere rimasto quasi solo al mondo e questo, a parte i dati che accompagnano la notizia del battesimo, è tutto ciò che sappiamo della sua vita familiare. Appartenne sicuramente alla corte del card. Ippolito II d'Este che, come dimostra la protezione accordata al Mureto, apprezzava gli uomini di cultura. In una lettera di cui non conosciamo la data l'umanista Bartolomeo Ricci da Lugo, precettore dei figli del duca Ercole II, si congratula col C. per gli ottimi rapporti da lui intrattenuti col card. Ippolito. Attraverso il Ricci si uniscono alle felicitazioni per la protezione cardinalizia anche altri qualificati personaggi ferraresi, tra i quali si notano i nomi di Gian Antonio Rondanelli e Camillo Gualenghi, ricorrenti anche nelle dediche delle opere del Cartari. Ippolito d'Este portò con sé il C. nella delicata missione diplomatica compiuta tra il 1561 ed il 1563 alla corte di Francia per conto di Pio IV. Il nome del C. figura infatti, subito prima di quello del Mureto, nella lista delle persone al seguito del cardinale redatta dall'ambasciatore mantovano Francesco Tonina in una lettera del 2 luglio 1561 al duca Guglielmo Gonzaga (cfr. Pacifici). Di questo soggiorno Oltralpe dà conferma Gabriel Giolito de' Ferrari nella sua dedica al gentiluomo veneziano Vincenzo Molino del compendio italiano ad opera del C. delle Historiae di Paolo Giovio, apparso appunto a cura del Giolito nel 1562 a Venezia. L'editore informa che il C., pur disponendo di nuovo quanto imprecisato materiale, non può darlo alle stampe perché trattenuto in Francia dai negozi del cardinale. La data di morte è ignota: un termine post quem è costituito dalla dedica dell'edizione veneziana del 1571 delle Imagini, la sua opera più famosa, che è rivolta al card. Luigi d'Este e reca la data del 10 sett. 1569.
Il C. pubblicò in giovane età e nel ristretto arco di undici anni quattro opere, alcune delle quali gli valsero una notorietà che avrebbe giustificato nella letteratura un maggior spazio alle sue vicende biografiche: I Fasti di Ovidio tratti alla lingua volgare per Vincenzo Cartari regiano, Vinetia, F. Marcolini, 1551; Il Flavio intorno ai Fasti Volgari, Vinegia, Scotto, 1553; Le imagini con la spositione de i dei de gliantichi raccolte per Vincenzo Cartari, Venetia, F. Marcolini, 1556; Compendio dell'Historie di Monsignor Paolo Giovio da Como vescovo di Nocera, fatto per M. Vincentio Cartari da Reggio, con le postille et con la tavola delle cose notabili, Vinegia, G. Giolito, 1562.
La versione dei Fasti, la prima che si conosca in lingua moderna, offre maggiori motivi d'interesse per i criteri metodologici cui è ispirata che per la sua intrinseca riuscita. Si tratta infatti di una traduzione in versi sciolti molto faticosi ed in complesso di fattura assolutamente mediocre, che non permettono di avvicinare la versione del C. agli esempi più autorevoli di un genere molto in voga nel pieno Cinquecento. L'obiettivo principale del traduttore non era costituito comunque dall'elaborazione di un testo italiano dotato di autonoma validità artistica, quanto dalla fedele interpretazione di una opera di Ovidio tra le meno conosciute e apprezzate. Nella seconda dedica della versione (la prima, come si è visto, è ad Alfonso II), il C. dichiara al Rondanelli di voler raggiungere il suo fine esplicativo anche a costo di sovrabbondare nella resa italiana. È quanto in effetti si verifica, contribuendo a mettere in miglior luce il Flavio, cioè il commento ai Fasti preannunciato nella stessa traduzione.
Il testo è stato articolato in tre libri sotto forma di dialogo tra i dotti giovani Flavio e Licinio da una parte ed il loro coetaneo Erotimo, ignorante di lettere classiche ma ad esse vivamente interessato, dall'altra. Nella prefazione (l'opera è dedicata ancora al Rondanelli) il C. difende apertamente il principio dell'utilità delle traduzioni, che consentono anche agli indotti di apprezzare opere universalmente famose. Alle critiche di coloro che l'avevano rimproverato per aver tradotto i Fasti in "stile basso" ed in versi sciolti, anziché in terzine, il C. ribatte che l'opera di Ovidio, scritta in distici elegiaci, è appunto un esempio di "stile basso", mentre la terza rima, come insegna Dante, deve essere riservata agli argomenti gravi. Al di là dell'autodifesa stilistica, che fa dunque intravvedere l'impatto della versione dei Fasti nel microcosmo culturale ferrarese dell'epoca, il Flavio rappresenta il frutto migliore della notevole fatica sostenuta dal giovane C. intorno al testo ovidiano. Non vi si dovrà naturalmente cercare una analisi filologica, ma se ne potranno apprezzare la quantità davvero cospicua di conoscenze antiquarie e l'esposizione dettagliata e puntuale di riti, leggende e costumi dell'antica Roma.
In una prosa meno ostacolata da preoccupazioni esegetiche e quindi più spigliata è condotta la versione compendiata delle Historiae di Paolo Giovio. Tuttavia la diffusione dell'opera del Giovio, di cui era già disponibile la traduzione italiana di Lodovico Domenichi, e il carattere riassuntivo della versione diminuiscono obiettivamente la validità di questo lavoro, alla cui pubblicazione, in assenza dell'autore, sembra essere stato particolarmente interessato il Giolito.
Il nome del C. è comunque legato soprattutto alle Imagini, dedicate a Luigi d'Este non ancora cardinale (al testo è inframezzata anche una lettera al Gualenghi). Questo trattato sulla iconografia delle divinità classiche conobbe infatti per due secoli un successo eccezionale, concretatosi in circa venticinque edizioni, di cui una buona metà in latino, inglese, francese e tedesco. Il dichiarato intento dell'autore è quello di fornire agli artisti figurativi un completo repertorio mitologico-iconografico. Le fonti di cui si serve il C. sono di carattere esclusivamente letterario: anche le descrizioni di sculture o medaglie antiche sono sempre di seconda o terza mano. Nonostante la conclamata volontà di utilizzare autori classici di provata competenza in campo mitologico il C. fa usualmente ricorso a poeti e mitografi tardo-antichi (ad esempio Claudiano e Marziano Capella) e medievali, tra i quali ultimi spicca il Boccaccio della Genealogia deorum gentilium.
Naturalmente la realizzazione del progetto di fornire modelli agli artisti era strettamente legata al corredo figurativo del testo che apparve solo con le incisioni curate da Bolognino Zaltierì per l'edizione veneziana del 1571.Le figure dello Zaltieri, basate sulle descrizioni del C. e quindi prive di ogni valore storico-artistico, contribuirono in maniera decisiva all'affermazione dell'opera. Sulla fine del sec. XVI e per tutto il XVII le Imagini costituirono, come era nelle intenzioni dell'autore, il manuale d'uso per le arti figurative, ed in particolare per la pittura, in tutta l'Europa occidentale. Il loro successo oscurò il ricordo di due opere di poco precedenti, di livello superiore e ampiamente utilizzate dal C., cioè il De deis gentium varia et multiplex historia in qua simul de eorum imaginibus et cognominibus agitur…di Giglio Gregorio Giraldi (Basilea 1548) ed i Mythologiae sive explicationum fabularum libri decem di Natale Conti (Venezia 1551).Anche se non fondati su basi più scientifiche di quelle delle Imagini, i libridel Giraldi e del Conti, tendenti rispettivamente all'analisi filologico-etimologica di nomi ed epiteti delle divinità ed all'interpretazione filosofica dei miti, non possedevano infatti le qualità di semplicità e maneggevolezza del manuale del Cartari. Quest'ultimo, ridotto col susseguirsi delle edizioni ad autentico dizionario mitologico illustrato, offrì ad artisti figurativi ed anche scrittori modelli tanto numerosi da presentare difficoltà di riconoscimento appunto per la loro frequenza e genericità. Una serie di testimonianze scritte permettono di accertare con sicurezza l'influsso delle Imagini sulle raffigurazioni mitologiche degli affreschi di Giorgio Vasari a Palazzo Vecchio, di Taddeo Zuccari nella villa Farnese di Caprarola e di Iacopo Zucchi nella galleria di palazzo Ruspoli a Roma. Ma la memoria delle descrizioni del C. è stata riconosciuta dalla critica, per citare solo alcuni tra gli esempi più famosi, anche negli Amori di Agostino Carracci al Kunsthistorisches Museum di Vienna, nel cosiddetto Trionfo di Nettuno ed Anfitrite di Nicolas Poussin al Philadelphia Museum of Art, nel Borea e Orizia e negli Orrori della guerra di P. P. Rubens, rispettivamente alla Akademie der bildenden Künste di Vienna ed a palazzo Pitti, ed infine nell'affresco raffigurante Diana ed Endimione di Annibale Carracci nella galleria di palazzo Farnese a Roma. Evidenti tracce del manuale del C. si distinguono poi nelle opere dei poeti della Pléiade nonché in quelle di illustri rappresentanti della letteratura elisabettiana, quali Robert Burton, George Chapman, Ben Jonson, John Marston. Alle Imagini si ispirarono anche molti coreografi dei masques inglesi e di cortei e feste mascherate del tardo Rinascimento. Particolare significato assume infine la constatazione che il successo dell'opera del C. non sia stato offuscato nemmeno dalla pur fortunatissima Iconologia di Cesare Ripa (apparsa a Roma nel 1593), tanto più in linea con i principi ed i gusti artistici della Controriforma.
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