CAPPELLO, Vincenzo
Nacque a Venezia, da Nicolò, nel 1469. Irrilevanti risultano i dati della iniziale carriera politica e della preparazione culturale dell'uomo che diventerà "freggio immortale della famiglia" e "senatore amplissimo" (Cappellari Vivaro, Famiglie venete). La prima notizia lo presenta già oratore a Milano, il 4 ottobre del 1499, presso Luigi XII, con l'intento di vendergli un "collar fo dil re di romani", ma senza risultato: solo nel 1530 gli oratori di Mosca furono interessati all'acquisto prestigioso. Dopo aver ricoperto la mansione di camerlengo di Comun, alla quale era stato preposto il 30 ag. 1502, poi rinnovata il 28 marzo 1504, nel giugno dello stesso anno è capitano delle galere di Fiandra e di Londra, impegnato su una delle rotte commerciali più vantaggiose.
"Messo bancho", ed espletati i lunghi preparativi, nel febbraio 1505 inizia il viaggio che la "fortuna" osteggerà per gran parte del suo corso. Tuttavia, quando, il 27 luglio 1506, il C. è ricevuto dal re d'Inghilterra, le galee sono cariche al punto che il C. fu costretto a lasciare a terra "300 baloni di lana". Da Enrico VII riceve non solo tutti i vantaggi commerciali desiderabili, ma pure un importante messaggio politico di simpatia e di alleanza - verso Venezia. Il re inoltre fece dono al C. dell'insegna della "rosa", da inserire nello stemma, e lo creò cavaliere. Anche il ritorno recò vantaggi. Sebbene il 2 nov. 1506, presso la Sardegna, venisse assalito da una nave genovese che lo confondeva con corsari, il C. riuscì, nel porto di Cagliari ove era stato condotto prima del riconoscimento, ad impossessarsi di merce per il valore di 6.000 ducati (Sanuto, VI, p. 469). E quando il 28 novembre rientrò, le sue galee risultarono "carge et riche", con una imponente quantità di prodotti: "700 baloni di lana, 800 peze di stagni, 1500 pani, tra colorati e bianchi".Con la ricchezza proveniente dai traffici, il C. riesce a farsi propaganda, a primeggiare, ormai, anche nella vita politica. Nell'aprile 1509 fa divulgare la voce di un suo prestito di 10.000 ducati alla Repubblica: e quando essa sarà smentita i suoi partigiani addurranno la brevità della sua elezione ai Pregadi nel 1507. Il suo nome, d'altronde, diviene popolare, anche se i nemici lo accusano di volersi elevare a gran "maistro" dello Stato. Il 14 genn. 1512, infatti, dietro la spinta di questo favore, è eletto provveditore all'Armata dimostrando presto, contro le voci malevole, una maturità di giudizio sui problemi navali della Repubblica che derivava da una attenzione acuta ed intelligente maturata da tempo, e che non nasceva da ricchezza, ma da "virtù", come gli ammiratori sottolineavano.
I pericoli, che al commercio sarebbero venuti dall'intensificarsi della pirateria, ormai penetrata nello stesso Golfo, la scarsa organizzazione e l'inesistente coordinamento della flotta, carente di biscotto e di uomini preparati, le possibili insurrezioni, che sarebbero nate da una Dalmazia povera ed affamata, sono gli insistenti motivi che si snodano nella corrispondenza fra l'aprile e l'ottobre 1513, durante l'inseguimento a Corfù di due fuste turche o l'affannosa ricerca di biscotto presso Curzola.
Inviato momentaneamente, nel febbraio 1514, alla difesa di Padova, viene, subito nel marzo, preposto al controllo delle coste dalmate, ove aumentano i fermenti antiaristocratici. Piega duramente la rivolta di Lesina dell'agosto 1514, dando un'interpretazione repressiva degli ordini ambigui, ma improntati ad un cauto pragmatismo, del Consiglio dei dieci: solo nell'ordine sociale sancito da Venezia sarebbe stato possibile inserire un modello più aperto e duttile di amministrazione economica. Tuttavia questa sua prima esperienza di provveditore lo poneva di fronte alla realtà cruda della crisi navale di Venezia: per mancanza di biscotto il 2 luglio del 1514, a Corfù, non può inseguire venti fuste turche, mentre, per il rifiuto degli ufficiali e delle ciurme ad attendere ancora il soldo dovuto, il 7 dic. 1515, è costretto a disarmare in Istria. Esperienza utile, ma amara, questa che gli aveva permesso di sperimentare le carenze del sistema navale della Repubblica: lodato, come d'uso, dal doge, il C. stende una relazione spietata nel rilevare come le galee "non vanno" e come il sistema sia carente a tutti i livelli della sua organizzazione. Questa opinione era rafforzata dalla nomina a capitano in Famagosta lo stesso dicembre 1515, dopo che egli aveva fatto dono di 2.000 ducati allo Stato. Insufficiente, infatti, è la fortezza, inadatta a subire un violento attacco turco, oltre ad essere "scandaloso" il comportamento di quanti dovrebbero dirigere "le cose de l'isola". L'efficace fortificazione di Famagosta diventò così l'obiettivo principale della sua azione, mentre il C. insisteva a far risaltare la cattiva fede dei Turchi, la loro ambiguità politica: sul Turco infido non si doveva in nessun modo contare per una politica lungimirante e garante di Venezia e del suo "impero". La difesa di Famagosta viene in breve assicurata, ed anche con una limitata spesa mensile, non più di 400 ducati. Lo stesso Bartolomeo Contarini, suo successore, nel marzo 1519, non poteva non elogiare la sua opera, "nominando le cortine, torioni, ... siché è fortissima".
Ma il soggiorno in Cipro assume una profonda importanza nella vita del C., in particolare per le amicizie col milieu mercantile di Tripoli e Aleppo, per cui, accanto ad una visione politica e religiosa centrata sulla sacralità della struttura nobiliare della Repubblica nel Mediterraneo, diviso da una lotta implacabile col Turco, si fanno strada alcuni temi culturali (valore concreto del denaro; funzione politica della cultura), propri del ceto mercantile, sui quali il C. ritornerà ancora ampiamente.
Lasciata Famagosta il 10 marzo 1519, il 29 luglio il C. giunge a Venezia, ammalato, su una nave che "vien molto richa". Gli impegni si susseguono senza sosta. Rifiutata la nomina di provveditore a l'Armar del 16 agosto, accetta quella del 16 ottobre al Consiglio dei dieci; il 1º giugno 1520 è consigliere del sestiere di S. Croce, consigliere ducale il 19 giugno e il 9 settembre luogotenente del Friuli, ove svolge un'attenta attività di informazione sui movimenti militari turchi in Dalmazia. Il 7 giugno 1522 torna a Venezia; eletto nell'agosto oratore presso Adriano VI, non giunge a Roma a causa della peste, e adducendo una malattia si ferma a Ferrara. Consigliere di Cannaregio il 26 maggio 1523, fu nominato duca di Candia il 27 settembre. Rifiutata la nomina, partecipa nell'ottobre ad una inchiesta contro le "occulte intelligenze" del Consiglio dei dieci e "contro le sette e subornatori delli Officii". Eletto oratore presso Clemente VII il 26 novembre (ma, ancora una volta ammalatosi, è costretto a rifiutare), il 3 maggio 1524 è savio "a tansar", e provveditore sopra le Vendite il 9 dicembre. Diviene consigliere "da basso" il 1º febbr. 1525, e il 30 sett. 1526 è dei Quaranta della zonta; entra il 1º sett. 1527 nel Consiglio dei dieci e risulta il 3 ott. 1527 fra i "revedadori di le Casse". Nel frattempo continua attraverso prestiti una capillare opera di penetrazione politica per sé e per la sua famiglia, proprio mentre, per mezzo delle ripetute cariche amministrative alle quali è delegato, si fa portavoce della necessità di un maggiore attaccamento della burocrazia verso lo Stato, di un miglior ordine nella struttura amministrativa della Repubblica: 250 ducati vengono dati il 29 apr. 1528 allo Stato, e 1.000 ducati il 17 settembre. Fino a divenire, dopo la nomina del 5 marzo 1529 ad uno dei sette savi di Terraferma ed a consigliere "di là da canal" il 1º agosto, provveditore all'Armata il 12 settembre.
Pur avendo accettato la nomina "aliegramente", non trascura le garanzie necessarie. Esige, infatti, mille uomini, "biscoti per do mexi almen a galie 50, vol monition perché l'armata è mal in ordine", oltre ad una somma superiore ai 15.000 ducati. Gli improvvisi, ripetuti scontri col Consiglio ne ritardano la partenza, generando una tensione che ritrova intatta al rinnovo dell'incarico, l'11 giugno 1532, quando gli si impongono due precisi obiettivi: mantenere la pace col Turco e l'imperatore, evitando qualsiasi incidente che potesse metterla in pericolo, e porre "ordine a l'armada".
Ma le difficoltà in cui s'imbatte, unitamente ai tesi rapporti col governo, non permettono al C. di raggiungere alcuno di questi risultati, simbolo lui stesso, in questa impossibilità in cui si dibatte, della crisi navale di Venezia. Difficoltà di armare in Dalmazia, bisogno incessante di biscotto, e di ottima qualità, mentre gli uomini fuggono verso l'armata dell'imperatore "per la fame di l'avadagno"; deboli, inoltre, le piazzeforti di Zara, Sebenico, Corfù che abbisognano di essere fortificate; il sistema di costruzione delle navi deve essere migliorato per eliminare le continue avarie che bloccano la flotta e non permettono interventi pronti ed efficaci: questi i punti della relazione del 10 febbr. 1533, quando ormai è tornato nel Consiglio dei pregadi, ribaditi con tenacia, pur restando sempre su di un piano empirico, di limitati rimedi, senza alzarsi ad orizzonti riformatori generali, e ripresi nelle lettere del 1534, una volta tornato provveditore all'Armata. Ma l'orizzonte del C. resta ancorato ad una prospettiva quotidiana, amministrativa, dei problemi: una"ventura senza risego" diviene il motto preferito a chiusura delle lettere, nel rifiuto delle grandi avventure e dei grandi ideali in vista di una Venezia cristallizzata nella sua forza e nei suoi domini, immobile e al di fuori della concreta dirompente dialettica del processo storico.
È con questa visione di immobilità che, dopo essere stato consigliere del sestiere di Castello nel 1535 e dopo la conquista di Castelnuovo nel 1537, partecipa, di nuovo provveditore all'Armata, nell'ottobre 1538 alla battaglia della Prevesa; uno scontro e una sconfitta, che nella loro meccanica politica denunciavano la limitatezza degli orizzonti politici e mentali del C. e di gran parte della classe dirigente veneziana di fronte alle profonde modificazioni politiche e militari indotte nel Mediterraneo dai tentativi di avvicinamento fra Carlo V e i Turchi. La stessa Castelnuvo, d'altronde, conquistata dal C., era presidiata dagli Spagnoli. Ammalatosi, il C. lascia il comando della flotta, e ritorna a Venezia, accolto fra i Savi grandi e sommerso dalle critiche spagnole che lo vedevano, ingiustamente, l'unico responsabile della sconfitta. Partecipa all'elezione del doge Pietro Lando nel gennaio 1539 (il 21 dello stesso mese è eletto procuratore di S. Marco nella Procuratia de Supra), e muore, a Venezia, il 19 ag. 1541. Fu sepolto in S. Maria Formosa: l'urna, e la statua, vennero collocate sulla facciata, eretta lo stesso anno a sue spese.
La figura del C., che nel dialogo di Cristoforo da Canal, Della milizia marittima, scritto con ogni probabilità fra il 1553 e il 1554, appare, quella di un semplice, ma esperto uomo di mare, nel ritratto di Tiziano e poi nella poesia di Pietro Aretino a Nicolò Molino del Natale 1540, assume le proporzioni mitiche del difensore di Cristo e di Venezia a cui "il vetato combatter fu vittoria", proporzioni che la storiografia veneziana fino alle pagine settecentesche del Morosini riprese e sviluppò.
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