Borghini, Vincenzo
, L'esperienza critica del B. (1515-1580) segna forse l'epilogo più significativo di una vasta operazione di restauro filologico e di recupero dottrinario, che si sviluppa attraverso l'intero arco dell'esegesi dantesca nel Cinquecento fiorentino. Il suo carattere asistematico, qualificato da episodiche reazioni che repentinamente si esauriscono, da interventi sporadici che muovono irregolarmente verso obiettivi non sempre espliciti, rende impervio lo sfondo da cui essa prende corpo: senza parlare del naufragio cui l'autore stesso ha condannato i propri frammenti, abbandonandoli incompiuti e sparsi tra i vari quaderni in cui si raccoglie la sua produzione critica, ancora per buona parte inedita.
Questa oggettiva difficoltà di organizzare il discorso secondo una linea di occasioni critiche accertabili o di cronologie men che approssimative induce a inserire gl'interventi borghiniani entro i vari criteri di metodo o nelle situazioni polemiche da cui più scopertamente dipendono, sullo sfondo di un'attività critica come quella dell'Accademia Fiorentina, rispetto alla quale egli esercitò (pur non facendone parte) una rilevante funzione di moderatore esterno, almeno dal 1560 in poi. Va infatti premesso che per molti suoi aspetti la critica dantesca del B. da un lato trovava radici in un'educazione filologica le cui lontane premesse risalivano alla lezione del Poliziano, mentre si arricchiva dall'altro delle più recenti prospettive esegetiche che l'Accademia Fiorentina aveva elaborato fin dai primi anni della sua costituzione, adattando al nuovo contesto culturale in cui si trovò ad agire (spesso in maniera molto dialettica) un'idea della poesia e delle funzion i del poeta ancora fondamentalmente platonica e atipica, di stampo landiniano. Le proposizioni borghiniane, che sono apparse (affrancate da una tale elaborazione) in prospettive addirittura rivoluzionarie, ricevono senso e dimensioni storiche da una complessa rivalutazione dei risultati critici cui era pervenuto l'ultimo umanesimo fiorentino; proprio queste sopravvivenze creavano nel suo ambiente le premesse di una sotterranea avversione alle categorie aristoteliche, specie quando erano antistoricamente proposte come paradigma limitante nei confronti dell'esperienza poetica di Dante. Qui furono vivacissime le reazioni al nuovo razionalismo esegetico, al formalismo di stampo bembesco, alle provocazioni anti-naturalistiche e anti-trecentesche, al tecnicismo dei ‛ generi ', in una parola a tutte quelle condizioni del gusto e del costume critico di altri circoli che, unite a un senso del decoro prevalentemente aristocratico e cortese, avevano notevolmente impoverito le libertà contenutistiche e l'autonomia rappresentativa della poesia.
Il primo nucleo di attività filologica intorno al testo dantesco che emerga (sia pure in maniera indiretta e scarsamente sistematica) dall'opera del B. ha appunto un'origine difensiva: si tratta di quella Ruscelleide (ovvero Dante difeso dalle accuse di G. Ruscelli) i cui sparsi frammenti furono raccolti e pubblicati solo alla fine del secolo scorso, in due volumetti, da C. Arlia. Poco più di quarant'anni prima avevano visto la luce, per opera di O. Gigli, altre prove borghiniane, raccolte in modo eterogeneo, sia per la successione cronologica (imprecisata e difficilmente precisabile) che per la qualità dei temi; due di questi interventi superano (pur non accantonandolo affatto) il consueto impegno filologico, la tendenza all'accurato restauro storico-antiquario che è alla base del suo metodo, per porsi in una prospettiva più decisamente critica: si tratta della Introduzione al Poema di D. per l'allegoria, e della Difesa di D. come cattolico. Nel primo saggio il B. ripropone (dopo il Gelli) il problema di un'interpretazione unitaria dell'allegoria dantesca, prospettando la necessità di ridurre lo spessore dei significati accumulatisi sul testo del poema nel corso di due secoli, a vantaggio di una più concreta e immanente esemplarità dell'intera vicenda del viaggio, dove D. rappresenta, a suo avviso, condizioni che l'anima sperimenta nell'arco della vita, all'interno della società umana: in particolare, il critico insiste perché la misura dei sensi simbolici resti segnata dai limiti stessi che D. le pone nell'Epistola a Cangrande e dai metodi suggeriti implicitamente dal poeta, quando si auto-interpreta, nelle opere minori e nella Commedia. La seconda opera (che presuppone nel suo retroscena un attacco di tipo controriformistico) è una vigorosa difesa delle finalità religiose del poema e della sua ortodossia, condotta senza urtanti pietismi e tutta piena di quel senso storico che resta forse la qualità più rara del B. critico. Un velo di polemica si scopre anche nei confronti dell'esegesi toscana (dal Landino al Vellutello), alla quale il B. dà implicitamente la responsabilità di avere insistito fino all'eccesso su moduli interpretativi di tipo allegorico e sovrasensoriale, a danno di una corretta spiegazione e reintegrazione della parola, del segno espressivo. Infatti anche in questi saggi (e più particolarmente nel primo) il critico mostra di sentire predominante, tra le molte ragioni del distacco dei suoi contemporanei (specie non fiorentini) nei confronti dell'esempio dantesco, una progressiva dispersione dei suoi più genuini valori espressivi, dovuta al capriccio e alla velleitarietà degli interventi editoriali, allo smarrimento dell'originaria proprietà e naturalezza della lingua, provocato da contaminazioni culturali alle quali si aggiunsero (in epoca post-umanistica) arbitrarie usurpazioni di autorità linguistica, da parte di centri periferici, estranei all'ordinata evoluzione dell'uso naturale toscano.
All'explanatio verborum il B. attribuisce (come ebbe a riconoscere il Croce, mostrandosi in questo consenziente col critico cinquecentesco) un valore determinante, anche come strumento atto a restituire all'esperienza dantesca il giusto ruolo in quella successione di tempi, di forme, di scelte culturali che la proposta bembesca aveva finito per annullare, in un contatto diretto e metastorico coi propri paradigmi. Di qui l'attenzione per ogni documento coevo, per quanto infimo o apparentemente estraneo a risonanze letterarie, alla ricerca di una natura intatta e autenticamente popolare della lingua, in cui convogliare tra l'altro le forme del realismo dantesco, insieme a tutte quelle manifestazioni di aggressività rappresentativa e di oltraggio formale che venivano altrove confinate in un ambito di insufficienza tecnica, di perdurante ‛ barbarie ' retorica. A questa costante ricerca di un restauro sincronico dei significati anche in rapporto all'uso reale della lingua (che è il tema-guida della sua polemica contro il Ruscelli e altri editori o manipolatori di testi antichi) si affiancano episodicamente nell'opera del B. altre direzioni di indagine, che lo accomunano a molti altri del suo circolo nell'attività di vigilante tutela che essi andavano svolgendo nei confronti delle molteplici insidie che da più parti ormai provenivano, rivolte al mito quasi esclusivamente fiorentino dell'esemplarità dantesca. In certi casi, è ben noto, queste insidie si trasformarono in vere e proprie aggressioni: come quando cominciò a circolare (1572 circa) il Discorso del Castravilla contro Dante. Il B. annotava l'anno seguente i punti salienti della Difesa di I. Mazzoni, aggiungendovi una scarna trama di osservazioni che sono rimaste, al solito, nascoste nelle sue carte. A queste si aggiungeva (dettata nella stessa occasione) una lettera a mons. Altoviti, che per buona parte le riassume; ed essa resta tra i documenti più tipici della resistenza borghiniana (e più generalmente fiorentina) all'impoverimento razionalistico della poesia e delle sue funzioni. Il B. mette qui in dubbio (come già aveva fatto il Gelli) la piena autorità della Poetica (su cui si fonda apoditticamente l'anonimo polemista) e la sua possibilità di offrire paradigmi attuali per giudicare di Dante.
Quando giunge a invalidare le categorie della Poetica insistendo anche sulla povertà e parzialità del loro fondamento empirico, il B. muove da un'avversione al mito del modello unico ormai tradizionale nella cultura fiorentina. E in questa avversione restano coinvolti, con gli schemi aristotelici, quelli bembeschi, mentre altrove avevano finito per fondersi in comuni canoni di educazione critica e letteraria. C'è da sottolineare, al fondo di questa rivolta, la persistenza di un forte residuo platonico, che si rivela anche nella terminologia del B. e che con la súa tendenza atipica giustifica (più di ogni presentimento idealistico) l'estrema dilatazione che nella sua critica assumono le funzioni della poesia e insieme la decisa separazione che egli attua tra le forze recondite dell'ispirazione e il fascino intrinseco delle " scientie ", dei valori pedagogici e dottrinari che convergono nella rappresentazione: [Il Bembo] " presuppone che l'ammirazione di Dante sia tutta in noi per le molte scientie che. sono in quel Poema rinchiuse; e io non vo' dire che ne tenga poco conto, che sarebbe sciocchezza; ma io dico bene che l'ho per serventi, e non per principali, e ammiro il poeta come poeta, e non come filosofo o come teologo... ".
Alcuni aspetti della critica borghiniana ci risultano oggi meno isolati e in fondo meno originali di quanto non apparissero ai primi storici (dal Fanfani al Barbi, dal Legrenzi al Croce) che si accostarono alla sua umbratile attività: così l'insistente ricerca di una chiave allegorica che emerga dall'interno dell'opera dantesca, dai suggerimenti dell'Epistola a Cangrande (da lui ritenuta autentica) e dai procedimenti auto-esegetici del Convivio, è già caratteristica delle letture gelliane; e l'idea della poesia dantesca come rivelazione e mediazione tra i frammenti di tante esperienze mondane e lo specchio del loro fine ‛ teologico ' aveva, com'è noto, una tradizione antichissima, recentemente ripresa dall'Accademia Fiorentina. E oggi insisteremmo di più,per qualificare i risultati più significativi dell'esegesi borghiniana, sul suo già maturo storicismo estetico (di lontana derivazione polizianesca), sulla consapevolezza con cui egli manovra (avendo spesso per meta D.) gli strumenti filologici, dal minuto restauro semantico allo spoglio dei codici, sul recupero dei modi e delle finalità del realismo dantesco, cui egli giunge all'interno di una reinterpretazione della Commedia come esperienza totale di ogni forma di vita e di moralità.
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