BORELLI, Vincenzo
Nato a Modena il 5 genn. 1786 da Giulio e da Maria Malmusi, si laureò in giurisprudenza all'università di Bologna nel 1806 ed esercitò la professione di notaio. Verso il 1822 fu colpito da una parziale forma di paralisi. Sebbene di idee liberali, il B. non partecipò alla cospirazione di Ciro Menotti ed Enrico Misley; solo il 6 febbr. 1831 - all'indomani della partenza da Modena del duca Francesco IV - sollecitato, per il prestigio di cui godeva, da parte della cittadinanza, si occupò della situazione politica che si era venuta a creare, insieme col fratello minore Giuseppe (1793-1835), già compromesso politicamente nel 1821, condannato in contumacia a sette anni di reclusione nel 1822 e poi graziato nel 1830 per l'intercessione del Misley. L'intervento dei due fratelli, in particolare di Vincenzo, fu teso insieme a consolidare e a contenere la situazione rivoluzionaria.
Per prima cosa, forzando la mano al ciambellano di corte, conte Francesco Guidelli, ottennero l'istituzione della guardia civica e la scarcerazione dei detenuti politici; quindi propugnarono la nomina di un governo provvisorio al posto della reggenza istituita dal chirografo ducale del giorno precedente, in modo da assicurare la prevalenza dei liberali più moderati. Il B. ebbe, perciò, uno scontro verbale col podestà marchese Rangoni, presidente della reggenza nominata dal duca, e col conte Guidelli, restio a quel passo dopo i primi cedimenti. Fallita, per l'opposizione di costoro e per il rifiuto degli stessi ministri designati, una prima notificazione che istituiva il governo provvisorio, il B., il Guidelli e il Rangoni raggiunsero nella mattinata del giorno 7 una soluzione di compromesso: il governo sarebbe risultato dall'allargamento della vecchia giunta comunitativa con l'ingresso di tre delegati del popolo: G. Bellentani, F. Cialdini e B. Nardi.
Ma la soluzione non fu accettata dai seguaci del Menotti, i quali non intendevano condividere il potere con elementi reazionari e malfidi, orientati verso la restaurazione ducale. Perciò, occupato fin dalla sera dell'8 il palazzo del Comune e abbattuto il governo provvisorio appena insediato, nella mattinata del 9 costituirono un governo dittatoriale, cercando di raccogliere il massimo numero di consensi intorno alla deliberazione, dettata dallo stesso dittatore Nardi - e chiamata poi dei Settantadue dal numero dei firmatari -, con la quale si dichiarò decaduto dal trono Francesco IV.
Tale deliberazione, secondo la tradizione storica comunemente accettata, sarebbe stata rogata dal B., che in realtà ne fu sorpreso e la sottoscrisse, come altri, intimidito anche dalla presenza della guardia nazionale nella sala del comune, per garantire, quale che fosse, un ordine alla città e al territorio circostante.
Pur non avendo partecipato ad alcuna attività sotto il governo dittatoriale, col fallimento dei moti, il B. riparò a Bologna, ma decise poi di tornare nella sua città, invano trattenuto dal patriota Giuseppe Campi, cui si deve la prima diffusione, in una lettera ad Atto Vannucci (A. Vannucci, Imartiri della libertà italiana, II, Milano 1878, p. 182; III, ibid. 1880, pp. 27-37, 71), della notizia secondo cui egli rogò l'atto rivoluzionario. Rientrato in Modena, il 16 marzo fu arrestato e tradotto nelle carceri del palazzo comunale sotto l'accusa di lesa maestà. La sua situazione fu aggravata dalla nomina a capo del tribunale del giudice Pier Ercole Zerbini, vecchio nemico personale del B. per questioni d'interesse.
Negli interrogatori del 6 e del 14 maggio il B. giustificò il suo operato, distinguendo la propria condotta dei giorni 6 e 7, consapevolmente intesa a garantire l'ordine, da quella del 9, che minimizzò, attribuendola alle circostanze e alle intimidazioni dei rivoluzionari.
Lo Zerbini, vincendo la disposizione alla clemenza degli altri giudici con l'assicurazione che il duca avrebbe commutato la pena, fece emettere, il 18 maggio, la condanna a morte per il B., unico a subirla oltre Ciro Menotti. Accompagnò peraltro la sentenza con una relazione a Francesco IV, in cui, facendo espresso riferimento ai provvedimenti di grazia prospettati per i casi più dubbiosi nel chirografo ducale del 20 marzo, indicava, pur con una certa ambiguità, le attenuanti atte a suggerire la clemenza.
Ma il duca fu irremovibile, nonostante l'intercessione del conte Guidelli: approvate il 21 maggio le due sentenze capitali, ne sollecitò l'esecuzione.
Evidentemente aveva deciso di non lasciare isolata la condanna a morte di Menotti, sia per intimorire i liberali sia per non avvalorare, con punizioni blande, l'opinione di una sua precedente intesa con loro. La scelta del capro espiatorio in un personaggio estraneo alla congiura estense tendeva, probabilmente, a stornare l'attenzione dall'oscura fase preparatoria del moto e a dimostrare che i più pericolosi sovversivi non si trovavano soltanto tra quelli con cui il duca avrebbe trattato.
All'alba del 26 maggio 1831, precedendo Ciro Menotti, il B. affrontò con coraggio il patibolo.
La fama, così consolidata, che il B. abbia rogato la deliberazione dei Settantadue, può esser dovuta a varie ragioni: l'importanza del suo ruolo nei giorni precedenti, la sua qualità di notaio, il prestigio che poteva derivarne, anche a distanza di tempo, all'operato dei rivoluzionari e, infine, la ricerca di un motivo. speciale, che spiegasse la condanna del martire. Essa è però smentita dalla rigorosa analisi storica condotta da G. Ruffini (Ilsacrificio di V. B. L'imputazione e il processo, in Atti e memorie d. Deputaz. di storia patria per le antiche provincie modenesi, s. 8, VI [1954], pp. 111-161), che fa anzitutto presente la mancanza di un'accusa riguardo alla rogazione negli atti processuali, nella sentenza e nella relazione del principale giudice a Francesco IV. Pure degna di nota è l'assenza d'ogni traccia di rogazione in una minuta descrizione giudiziaria del documento incriminato, stesa al momento del sequestro dalle autorità estensi. Infine, nelle cronache cittadine modenesi (Rangone, Setti, Sossai) la notizia della rogazione compare con incertezza o non compare affatto.
Fonti e Bibl.: La rivol. del 1531nella cronaca di Francesco Rangone, a cura di G. Natali, Roma 1935, pp. 241 s., 244 ss.; A. Vesi, Rivoluzione di Romagna del 1831, Firenze 1851, p. 58; C. Galvani, Memorie storiche intorno la vita di Francesco IV, Modena 1854, pp. 59, 100, 107; L. Bosellini, Francesco IV e V di Modena, Torino 1861, pp. 58 s., 65 s.; N. Bianchi, I ducati estensi dall'anno 1815all'anno 1850, Torino 1862, I, pp. 87 s.; G. Silingardi, Ciro Menotti e la rivoluzione del 1831 in Modena, Firenze 1881, pp. 315-323; M. D'Ayala, Vite degli Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino-Roma-Firenze 1883, pp. 92-95; G. Sforza, La rivoluzione del 1831nel ducato di Modena, Roma-Milano 1909, pp. 255 ss., 259, 285, 289, 310, 323, 326 ss., 329, 364 ss., 369; A. Panizzi, Le prime vittime di Francesco IV duca di Modena, Milano-Roma-Napoli 1912, pp. 193, 212 s.; G. Canevazzi, Le forche di Ciro Menotti e di V. B., estratto da Il Risorgimento italiano, VII (1914), 3, pp. 3-10; Id., Memorie di F. Cialdini, Milano-Roma-Napoli 1924, pp. XXVIII, 61, 62, 143; I. Raulich, Storia del Risorgimento politico d'Italia, II (1830-44), Bologna s.d., pp. 97 ss.; G. Ruffini, Nuovi documenti dell'Austria. Lettera dello Zerbini a Francesco IV per prospettare ragioni di grazia a favore di V. B., in Archiginnasio, XXVI (1931), pp. 283-288; A. Solmi, Ciro Menotti e l'idea unitaria nell'insurrezione del 1831, Modena 1931, pp. 4, 24, 199 s.; C. Fano, Francesco IV (Documenti e aspetti di vita reggiana), Reggio Emilia 1932, pp. 298, 340; C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell'unità d'Italia, II, Milano 1934, pp. 382, 464, 466; Diz. del Risorg. nazionale, II, p. 366; Encicl. Ital., VII, p. 467.