ARDISSONE, Vincenzo Andrea
Nato a Nizza da Giovanni Battista e Carlotta Torre il 2 nov. 1885, giovanissimo si trasferì a Genova con la famiglia. Ottenuto il diploma di ragioniere, all'età di diciotto anni venne assunto dalla Società ligure metallurgica di Sestri Ponente, la più piccola fra le grandi imprese siderurgiche italiane dell'epoca che, attraverso un complesso sistema di controlli incrociati, dipendevano dalla Terni, diretta dalla fine dell'Ottocento dal duo Odero-Orlando. L'A. lavorò presso la Ligure metallurgica fino al 1911, prestando nel contempo la propria opera anche nella società Elba, l'impresa che aveva in concessione lo sfruttamento delle miniere di ferro dell'isola d'Elba, e nell'Ilva, l'azienda costituita dal trust della Terni nel 1905 (l'anno successivo al varo della legge su Napoli) per la creazione di un nuovo stabilimento siderurgico a Bagnoli. Egli assunse presto incarichi di un certo rilievo all'interno di queste aziende siderurgiche, legando i propri destini - almeno per tutta una lunga fase - a quelli del gruppo dirigente (per parecchi anni vincente) guidato da Attilio Odero. Nel 1911, all'epoca del primo grande salvataggio siderurgico voluto dal governo e organizzato dalle "banche miste" (Banca commerciale e Credito italiano) con la supervisione della Banca d'Italia, l'A. venne incaricato di predisporre una relazione sulla situazione contabile delle imprese del trust, in previsione dell'operazione di rifinanziamento.
Gli accordi conclusi nell'occasione toccarono diversi ambiti dell'attività delle imprese siderurgiche, pur senza mutarne gli indirizzi di fondo e senza addivenire ad una loro effettiva razionalizzazione. Le maggiori aziende legate alla siderurgia della ghisa (l'Ilva, le Ferriere italiane, l'Elba, la Ligure metallurgica e la Siderurgica di Savona da una parte - tutte quelle cioè che facevano capo alla Terni - e gli Alti forni e acciaierie di Piombino dall'altra, la società diretta dalla famiglia Bondi) affidarono all'Ilva la gestione dei loro stabilimenti mediante un mandato ad negotia; sulpiano finanziario, inoltre, fu concesso loro un ampio margine di tempo per il pagamento dei debiti nei confronti delle banche, mentre su quello commerciale l'intero settore, comprese quindi anche le aziende di maggior rilievo della siderurgia da rottame, dovette sottostare ad una serie di disposizioni relative alla suddivisione delle quote di mercato e alla vendita dei prodotti, che venivano emanate da una società appositamente costituita, la Ferro e acciaio.
Allo scopo di procedere ad una gestione effettivamente unitaria degli accordi fu costituito presso la società Ilva un comitato direttivo (il cui segretario fu proprio l'A. fino al 1917, quando l'organismo cessò di esistere a seguito dei mutamenti intervenuti nella mappa del potere dell'Ilva) nel quale trovarono posto i rappresentanti dei gruppi Odero e Bondi. Lo scoppio della guerra e le ingenti commesse belliche consentirono all'intero settore di lavorare a ritmi serrati senza più la preoccupazione assillante degli sbocchi di mercato, facilitando nel contempo la completa estinzione dei debiti contratti nei confronti delle banche. Nel giugno del 1916 le aziende consorziate nell'Ilva firmarono nuovi accordi che prolungavano al 1930 quelli siglati nel 1911, introducendo tuttavia qualche modifica a favore della Piombino (senza dubbio l'azienda meglio attrezzata sul piano tecnico-produttivo fra tutte quelle che avevano sottoscritto la precedente intesa) per quanto riguardava la ripartizione dei minerali di ferro escavati all'Elba e in alcune miniere sarde, e infittendo i legami finanziari tra le diverse aziende con scambi di pacchetti azionari che coinvolsero stavolta anche l'impresa dei Bondi. Questi ultimi, però, non considerarono evidentemente soddisfatti a pieno i propri interessi e, nel corso dell'anno successivo, diedero vita ad una serie di accordi e di alleanze con alcuni dirigenti dell'Ilva e di altre società ad essa collegate per giungere ad un ribaltamento dei rapporti di forza all'interno della società esercente. L'operazione andò definitivamente in porto nell'ottobre del 1917, quando Max Bondi, spalleggiato dai nuovi soci, riuscì ad estromettere l'Odero e i suoi dall'Ilva. Mentre i nuovi padroni della siderurgia italiana perfezionavano il loro piano con la fusione nella Piombino della Savona, della Ligure metallurgica, delle Ferriere italiane e dell'Ilva (la nuova società fu denominata Ilva, altiforni e acciaierie d'Italia), l'Odero e l'Orlando si trovarono a dirigere solo la Terni, la capogruppo di un gruppo che non esisteva più, un'impresa che fino a quel momento aveva evidentemente basato la propria politica degli acquisti di ghisa solo sulle aziende del trust. Vistisi privati di questa comoda e diretta fonte di approvvigionamento, terrorizzati dall'idea di dipendere dal Bondi per rifornire la propria acciaieria, nei primi mesi del 1918 i due dirigenti della Terni acquisirono il controllo della società delle Ferriere di Voltri, dove pensavano di costruire degli altiforni. Con l'arrivo dell'Odero alla guida delle Ferriere di Voltri anche l'A., fedelissimo dell'industriale ligure, entrò a far parte del nuovo consiglio d'amministrazione della società nel maggio del 1918.
La crisi del dopoguerra travolse il mastodontico castello costruito da Max Bondi sulle fondamenta strutturalmente fragili dell'Ilva che, oltretutto, l'industriale livornese aveva contribuito ad indebolire ulteriormente mediante una serie di disinvolte operazioni speculative. La nuova sistemazione dell'Ilva venne affidata - ancora una volta - alle due maggiori banche che erano già intervenute nel 1911, la Commerciale e il Credito italiano, divenute nel frattempo anche le principali azioniste della società dopo l'uscita di scena del Bondi. Nel 1921 esse affidarono la ricerca della soluzione per il risanamento finanziario della società ad un direttorio di "tecnici", del quale fece parte anche l'Ardissone. Il progetto venne messo a punto in pochi mesi e già nella primavera del 1922 Arturo Bocciardo, l'uomo che la Commerciale aveva già voluto a capo della "nuova" Terni (un'azienda non più solo siderurgica, ma anche chimica ed elettrica), poteva assumere la presidenza della società siderurgica. E, pochi mesi più tardi, l'A. venne nominato direttore generale dell'Ilva dal nuovo consiglio di amministrazione. Da quel momento in poi questi (insieme con il Bocciardo, che però era molto assorbito dalla gestione della Terni), avrebbe rappresentato non più solo l'uomo di fiducia di un gruppo industriale e bancario, ma avrebbe impersonato con coerenza e convinzione (salvo un inesplicabile e brusco mutamento di rotta nel 1937) un'intera visione del problema siderurgico italiano così come si era espressa dall'inizio del secolo e come avrebbe continuato ad imporre la propria egemonia sino alla seconda metà degli anni Trenta.
L'Ilva che l'A. si trovò a dirigere era all'incirca la medesima, per strutture tecnico-produttive (ma anche per problemi e deficienze), nella quale si era installato il gruppo Bondi nel 1917, al più alleggerita dalle numerose partecipazioni nell'industria meccanica, ma anche appesantita - se possibile - dagli impianti di Servola (Trieste), acquisiti dalla società con la fine della guerra. Gli indirizzi che l'A. diede all'impresa siderurgica non evidenziarono in nessuna occasione la benché minima volontà di operare quei mutamenti necessari per giungere ad una sua ristrutturazione e ad una razionalizzazione delle sue attività.
Le storture e gli errori (e a volte persino le vere e proprie assurdità tecniche ed economiche: si pensi agli impianti della società Elba di Portoferraio nei quali si produceva ghisa che poi, una volta raffreddata, veniva inviata via mare alle acciaierie di Savona, perché nella zona dell'isola prescelta mancava lo spazio per costruire anche l'acciaieria) emersi nel periodo giolittiano non vennero per nulla corretti. D'altro canto la stessa politica governativa in campo siderurgico non aveva certo manifestato inversioni di tendenza rispetto al passato. Il settore continuava ad essere protetto sul piano doganale: ma, andando a vedere da vicino il significato concreto di tale scelta, si scopriva che l'acciaio era nettamente privilegiato, mentre la ghisa subiva un trattamento tariffario inferiore, poiché non era considerata punto di partenza decisivo, indissolubilmente legato al minerale, del ciclo integrale dell'acciaio, ma assimilata ad una materia prima e, come tale, interscambiabile con il rottame. Nel concreto, la scelta di gestire semplicemente l'esistente significò il rinvio sine die di ogni politica di specializzazione delle produzioni dei singoli impianti e comportò l'accantonamento di ogni discorso che portasse ad una seria riconsiderazione della effettiva validità, sul piano economico, delle diverse unità produttive.
Assicuratasi una cospicua fetta di commesse statali, l'Ilva dell'A. a sua volta non poteva fare a meno di esaudire certe richieste (magari più che opinabili a livello di costi economici) avanzate dal regime. Emblematica di questa politica statale e aziendale basata su uno scambio reciproco di favori fu la decisione di riaprire lo stabilimento di Bagnoli, una scelta molto costosa per l'azienda sul piano finanziario, ma pagante per il governo su quello politico e sociale. Un altro elemento che caratterizzò l'operato dell'A. alla testa dell'Ilva, fino alla fine degli anni Venti, fu la sua costante ricerca di accordi con gli altri grandi produttori nazionali del settore: anche in questo caso con l'appoggio - determinante - del governo, che intervenne in più di un'occasione per favorire la stipula di patti consortili relativi alla spartizione delle quote di mercato e ai prezzi dei prodotti. I risultati dell'immobilismo nella gestione aziendale e dell'affannosa ricerca di accordi con la più accorta concorrenza si evidenziarono drammaticamente nella caduta verticale della quota di mercato appannaggio dell'Ilva. Scelta la strada (errata) di contrastare principalmente sul loro terreno (la siderurgia da rottame) gli industriali del settore dell'Italia padana (che dopo la guerra avevano compiuto parecchi passi sulla via del potenziamento e dell'ammodernamento tecnologico delle attrezzature produttive), l'Ilva finì inevitabilmente per manifestare a pieno tutte le proprie debolezze, tanto che la percentuale di acciaio prodotto rispetto al totale nazionale calò dal 61% del 1913 al 34% del 1925, per poi scendere al 31% nel 1931 e al 29% nel 1935.
Lo smobilizzo delle "banche miste" all'inizio degli anni Trenta e il passaggio alla finanziaria di Stato Sofindit di molte delle aziende controllate dalla Banca commerciale portarono grossi mutamenti nel gruppo dirigente dell'Ilva. Fu soprattutto l'entrata di Oscar Sinigaglia nel consiglio d'amministrazione a smuovere - e in maniera alquanto violenta - le acque stagnanti della società siderurgica. L'A. (che il 24 marzo 1929 era anche stato eletto al Parlamento per la XXVIII legislatura in rappresentanza della Corporazione metallurgica e meccanica e fu poi confermato il 25 marzo 1934 per la XXIX legislatura) conservò tuttavia il proprio posto e con esso tutta una lunga serie di cariche in imprese in qualche modo legate al settore (nel 1933 era infatti presidente del Consorzio ligure fra industriali meccanici, metallurgici e navali, della Ferrotaie, della Ferro e metallo, delle Acciaierie e ferriere nazionali, del Consorzio siderurgico italiano; era vicepresidente dell'Unione siderurgica italiana e consigliere della Siderurgica commerciale, dell'Azienda nazionale consumatori di carboni, della Toscana prodotti refrattari e della Rejna, una società di assicurazione controllata dall'Ilva; era inoltre nel collegio sindacale della Piaggio e della Immobiliare industriale di Genova). A partire dal 1931-32 e fino al 1937-38 i massimi dirigenti dell'azienda, il gruppo di comando della Sofindit e poi dell'IRI, i ministri economici furono immersi in un serrato dibattito sulla riorganizzazione delle strutture portanti della siderurgia italiana e sulla sua ristrutturazione sulla base di indirizzi tecnico-produttivi che avevano il loro fulcro nella realizzazione di impianti a ciclo integrale. Se prima Sinigaglia e poi Rocca (quando il primo nel 1935 si dimise dal consiglio d'amministrazione dell'Ilva per ragioni ancora oggi non chiarite fino in fondo) furono i migliori interpreti delle proposte innovatrici, l'A. figurò sempre tra i più tenaci oppositori del progetto. La nascita della Società italiana acciaierie Cornigliano (SIAC) nel 1934 e l'approntamento, pur tra tante difficoltà e tentennamenti, dei primi studi per la creazione a Cornigliano di uno stabilimento a ciclo integrale e il prevalere della logica della politica autarchica (che puntava ad una riduzione della dipendenza dall'estero nei rifornimenti di materie prime) rappresentarono i momenti di svolta decisivi - insieme con la costituzione nel 1937 della Finsider - rispetto ai precedenti orientamenti. La sanzione ufficiale dell'abbandono delle vecchie posizioni avvenne fra il 1938 e il 1939. In verità c'è da aggiungere che l'A. aveva avuto modo di cambiare campo all'inizio del 1937. Ma l'improvviso favore con cui guardò alla siderurgia a ciclo integrale (peraltro avvolto da motivazioni imperscrutabili, allo stato delle ricerche) non gli risparmiò tuttavia l'esclusione dalla direzione dell'Ilva nell'agosto del 1938. Promoveatur ut amoveatur fu la formula prescelta: e l'A. fu posto a capo delle aziende commerciali della Finsider, carica che mantenne anche durante gli anni di guerra.
Nel secondo dopoguerra continuò a svolgere una intensa attività in campo economico, rigorosamente lontano però dal mondo siderurgico. Nel 1947 fu tra i principali fondatori della Fulgor (della quale fu presidente fino alla morte), un'azienda con sede e stabilimenti a Genova che si occupava della produzione di cavi e condutture elettriche e in genere di lavorazioni in gomma. Fino alla fine degli anni Cinquanta lo si ritrova inoltre nei consigli d'amministrazione della Immobiliare ligure (di cui era presidente), della Vincent-Silos livornesi, della San Giorgio, della Piaggio, della Misure pesi macchine, della Levante (una compagnia di assicurazioni) e dello Zuccherificio del Volano. Poi, con l'avanzare degli anni, ridusse progressivamente gli impegni, mantenendo unicamente la presidenza della Fulgor, il posto di consigliere nella Levante e quello di sindaco nello Zuccherificio del Volano.
L'A. morì a Genova il 2 dic. 1960.
Fonti e Bibl.: Alcuni brevi cenni biografici si possono trovare in E. Savino, La nazione operante, Milano 1934, p. 376e in Chi è? Dizionario degli Italiani d'oggi, 3ª ediz., Roma 1936, p. 32. Lostesso A. fornì una dettagliata ricostruzione della propria carriera fino a quel momento nel corso dell'interrogatorio che subì davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta per le spese di guerra il 28 giugno 1921. La documentazione è conservata presso l'Archivio storico della Camera dei deputati, Inchiesta parlamentare sulle spese diguerra, busta 24. Sulla sua nomina a segretario del comitato direttivo dell'Ilva nel 1911 vedi Archivio storico Nuova Italsider di Genova (ASNI), Archivio Italsider (ex-Ilva), n. 38, verbali del consiglio direttivo della società Ilva, seduta del 5 agosto 1911. Sulla sua entrata nel consiglio d'amministrazione delle Ferriere di Voltri vedi ASNI, Archivi aggregati, n. 22, verbali del consiglio d'amministrazione della società delle Ferriere di Voltri, seduta del 30 maggio 1918. Sulla nomina a direttore generale dell'Ilva, vedi ASNI, Archivio Italsider (ex-Ilva), n. 13, verbali del consiglio d'amministrazione della società Ilva, seduta del 15 dic. 1922. Sul passaggio dell'A, dalla direzione dell'Ilva a quella delle aziende commerciali della Finsider nel 1938 cfr. Ibid., n. 28, verbali del consiglio d'amministrazione della società Ilva, seduta del 13 agosto 1938. Sulla politica seguita dall'A. alla guida dell'Ilva vedi A. Carparelli, I perché di una "mezza siderurgia". La società Ilva, l'industria della ghisa e il ciclo integrale neglianniVenti, in F. Bonelli - A. Carparelli - M. Pozzobon, La riformasiderurgica Iri tra autarchia e mercato (1935-42) e P. Rugafiori, I gruppi dirigenti della siderurgia pubblica tra gli anni Trenta egli anni Sessanta, in AA. VV, Acciaio per l'industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico, a cura di F. Bonelli, Torino 1982, ad Indicem. Sugli stessi temi vedi anche V. Castronovo, L'industria siderurgica e il piano di coordinamentodell'IRI (1936-1939), in Ricerche storiche, VIII (1978), pp. 163-188; L. Scalpelli, L'Ilva alla vigilia del piano autarchico per lasiderurgia (1930-1936), ibid., pp. 241-249; P. Rugafiori, Agostino Rocca (1895-1978), in I protagonisti dell'intervento pubblico in Italia, a cura di A. Mortara, Milano 1984, p. 394; G. Toniolo, Oscar Sinigaglia (1877-1953), ibid., pp. 420-421; L. Scalpelli, Francesco Giordani (1896-1961), ibid., pp. 482-483.
Un elenco delle cariche ricoperte dall'A. all'inizio degli anni Trenta è fornito da E. Lodolini - A. Welczowsky, Guida degliamministratori e dei sindaci delle società anonime. Biografia finanziaria italiana, Roma 1934, p. 28. Per il periodo successivo alla seconda guerra mondiale vedi Associazione fra le società italiane per azioni, Notizie statistiche sulle principali societàitaliane per azioni, 1949, Roma 1950, pp. 210, 292, 335, 397, 1193, 1354; Il Chi è? nella finanza italiana 1955, Milano-Varese 1956, p. 35; Panorama biografico degli Italiani d'oggi, Milano 1956, p. 63; Il Chi è? nella finanza italiana 1962, Varese-Milano 1963, p. 37.