Vilfredo Pareto
Vilfredo Pareto, il più importante economista e sociologo italiano nell’età che va dalla fondazione dello Stato nazionale all’avvento del fascismo, è studioso che va ascritto alla tradizione del realismo politico (e non a caso la sua dottrina elitistica è stata definita «neo-machiavelliana») ma al tempo stesso al filone dei moralisti moderni, analisti delle passioni e delle determinanti irrazionali del comportamento umano. La sua teoria dei «residui» e delle «derivazioni» costituisce il maggior apporto alla critica delle ideologie che sia venuto dalla sociologia nel solco dell’opera di Karl Marx. Di questo autore Pareto è poi stato considerato il maggiore antagonista nell’ambito degli studi economici, fino a meritarsi l’appellativo di ‘Marx della borghesia’.
Vilfredo Pareto nasce a Parigi il 15 luglio 1848, figlio del marchese Raffaele, ingegnere. La sua famiglia si trasferisce nel 1852 in Italia, dove il padre lavora come docente presso vari istituti tecnici, prima a Genova e poi, dal 1859, a Casale Monferrato. In quest’ultima città il giovane ‘Fritz’ studia sotto la guida del matematico Ferdinando Pio Rossellini, per proseguire dal 1861 gli studi al Regio istituto tecnico, dove si diploma nel 1864. Ammesso nello stesso anno all’Università di Torino, nel 1867 vi consegue la licenza in scienze matematiche e fisiche, iscrivendosi poi alla Scuola di applicazione per ingegneri; qui stringe amicizia con il giovane Galileo Ferraris, il futuro scopritore del campo magnetico rotante e ideatore del motore elettrico a corrente alternata. Nel 1870 consegue il diploma di laurea in ingegneria, trovando impiego subito dopo come ingegnere presso la Società anonima delle strade ferrate romane a Firenze. Nel 1873 passa come dirigente nella Società per l’industria del ferro di San Giovanni Valdarno (in seguito Società delle ferriere italiane), di cui nel 1880 diventerà direttore generale.
Negli anni Settanta è già attivo sul fronte delle battaglie liberali, partecipa alla fondazione della Società Adamo Smith ed è nominato socio ordinario dell’Accademia dei Georgofili; inoltre, per due volte (1880 e 1882) tenta senza successo di essere eletto deputato. In questi anni Pareto non è soltanto un ammiratore del sistema politico britannico e un fautore della società aperta e della democrazia (in particolare del suffragio universale); è anche un difensore del diritto di sciopero delle organizzazioni operaie, su posizioni non diverse da quelle che aveva assunto John Stuart Mill e che saranno di Luigi Einaudi e di altri autori raccolti intorno alla rivista «La riforma sociale». Ma in lui non tarda a maturare la diagnosi secondo cui l’avvento della società industriale non ha coinciso con l’affermazione di un compiuto regime di libertà. I limiti dell’ideologia liberale gli appariranno sempre più evidenti a partire dal nuovo assetto che le società del capitalismo organizzato hanno conseguito nella fase in cui la sfida delle forze socialiste si è intensificata.
Nel 1890 abbandona la carriera di dirigente d’azienda, e dopo alcuni anni intraprende quella di professore universitario. Infatti nel 1893, grazie all’intermediazione di Maffeo Pantaleoni, gli viene offerta la cattedra di Marie-Esprit-Léon Walras (che aveva conosciuto nel 1891) a Losanna, dove già dal 1894 è professore ordinario. Da questo insegnamento scaturiscono due opere fondamentali.
Nel 1896-97 pubblica il Cours d’économie politique, in cui fornisce un’efficace sintesi della svolta marginalistica ormai in atto nella scienza economica (introducendo la distinzione tra il concetto oggettivo di utilità e quello soggettivo di ofelimità, che definisce la relazione di una cosa a un bisogno o desiderio) e dà formulazione matematica alla curva della distribuzione dei redditi, in base alla quale l’80% delle ricchezze è in mano al 20% della popolazione (ma nel Cours già due capitoli sono dedicati ad argomenti sociologici, ai fattori dell’evoluzione sociale e alla critica delle teorie razziali e del materialismo storico).
Nel 1906 appare il Manuale di economia politica, in cui dà ordine compiuto alla teoria dell’equilibrio economico e al modello della curva della distribuzione dei redditi e delinea in nuce una teoria dello sviluppo economico che troverà sviluppo nell’opera di Joseph Alois Schumpeter (inserendovi un lungo capitolo di Introduzione alla scienza sociale, in cui viene illustrata la distinzione tra rapporti reali e rapporti immaginari o creduti, vale a dire fenomeni soggettivi, ed è ormai anticipata a grandi linee la sua teoria delle «derivazioni»).
Nel frattempo gli interessi di Pareto si erano venuti sempre più orientando verso la sociologia, su cui gli viene affidato un corso a partire dal secondo semestre del 1897, all’interno del quale verrà affinando il proposito di sostituire alle sociologie «romanzate» fino a quel momento imperanti una teoria scientifica della società (e nel luglio 1897 esce sulla «Rassegna italiana di sociologia», alle pp. 45-54, il suo primo scritto sociologico di ampio respiro, Il compito della sociologia fra le scienze sociali); negli anni 1898-99 tiene corsi sul socialismo, dai quali ha origine un’ampia opera in due volumi, Les systèmes socialistes (1902-1903), in cui si trova la prima esposizione della teoria delle élites, e della loro circolazione e decadenza (qui è evidente, anche se non riconosciuto, il che diede origine a una «piccola polemica», il suo debito nei confronti della dottrina della classe politica di Gaetano Mosca, l’altro classico di quella teoria elitistica che dominerà la scienza politica del Novecento).
A partire dal 1900, anno in cui acquista la villa di Céligny sul lago di Ginevra (dove vivrà piuttosto appartato fino alla morte), predominante sarà il lavoro di costruzione del monumentale e labirintico Trattato di sociologia generale. In congedo dal 1911 per malattia (ma già dal 1906 aveva abbandonato l’insegnamento dell’economia politica), si concentra sulla composizione del Trattato che, dopo una lunga e tormentosa revisione (quasi un rifacimento) del testo in bozze, esce a Firenze presso l’editore Barbera nel 1916 (mentre l’edizione francese, tradotta dall’allievo Pierre Boven, esce a Parigi in due volumi, rispettivamente nel 1917 e nel 1919). Gli anni successivi, contrassegnati ancora da un’intensa attività pubblicistica, saranno prevalentemente dedicati a illustrare la validità scientifica delle tesi del Trattato, trovando conferme sperimentali nei grandi eventi politici del tempo: la guerra mondiale, la rivoluzione russa, la pace «cartaginese» di Versailles, la nascita della Società delle nazioni, la crisi dello Stato liberale in Europa, il sorgere del fascismo in Italia. Liberale scettico, Pareto diventa fiancheggiatore del fascismo. Il 2 febbraio 1923 viene nominato senatore del Regno, anche se, per il suo rifiuto di presentare i documenti necessari, la Commissione per la verifica dei poteri non potrà convalidare la nomina. Muore poco tempo dopo a Céligny, il 19 agosto.
Tutto il percorso teorico di Pareto analista dei fatti sociali sta sotto il segno del disincanto nei confronti dell’ideologia che negli anni della sua formazione è vincente, e comunque egemone fra le forze sociali innovatrici del 19° sec.: il liberalismo. Al pari dei maggiori sociologi della sua generazione, egli non idealizza la società liberale, anche se dalla disincantata diagnosi delle sue patologie non è disposto a dedurre credenziali di successo (secondo una tendenza che si affermava tra i sociologi di scuola positivistica) per la sua maggiore ideologia concorrente. L’utopia liberale persegue il fine del buon governo – il che, calato in una filosofia del progresso, significa ricerca dell’ottimo governo. Ma questa visione della politica ha senza dubbio per lui il difetto di attribuire troppa razionalità agli esseri umani. L’uomo non è semplicemente un animale razionale, è un essere dominato da pulsioni e sentimenti e soggiogato da credenze, quindi un animale ideologico, che usa la ragione non tanto per scoprire la verità quanto per deformarla o nasconderla. La sua attività è pertanto mossa da forze occulte e ineludibili, di cui le teorie sociali sono razionalizzazioni e travestimenti. Alieno da ogni concezione perfettistica, Pareto è un sismografo delle forze profonde del comportamento individuale e collettivo, attento a cogliere l’intensità crescente delle energie irrazionali che fanno la storia. Di conseguenza, la teoria ciclica del mutamento posta alla base di tutta la sua sociologia risulta in definitiva inconciliabile con l’idea di perfettibilità della natura e della società umana che è parte costitutiva dell’utopia liberale dell’ottimo governo.
Con Les systèmes socialistes, la prima fra le grandi opere di scienza sociale di cui è prodigo il primo decennio del Novecento (con Georg Ostrogorskij, Georg Simmel, Werner Sombart, Max Weber), Pareto inaugura la letteratura sul socialismo del 20° sec. e al tempo stesso l’età del disincanto sociologico, dopo che la sociologia nel secolo precedente era nata e si era sviluppata come scienza sulla base di un programma di critica alla filosofia sociale del liberalismo, ponendo al centro delle sue teorie concetti come lavoro, solidarietà e organizzazione. Les systèmes socialistes sono il laboratorio originario della sociologia di Pareto. È lo studio di questi concetti che gli consente di comprendere la discrepanza, nella società moderna divenuta macroscopica, tra le tendenze e forze irrazionali che governano la condotta degli attori (individuali e collettivi) e il paradigma sempre più esigente della razionalizzazione. L’ideologia socialista è un’estrinsecazione della sostanziale irrazionalità dell’agire umano, i cui moventi fondamentali sono i sentimenti e le fedi, e al tempo stesso dell’impellente necessità di dare a questi moventi una veste razionale, ancorandoli nell’alveo di una filosofia della storia che vede nel progresso una forza necessitante.
Posta questa critica, al materialismo storico Pareto riconosce il merito di aver messo in chiaro il «carattere contingente», e non assoluto, dei fenomeni ideologici, in particolare delle dottrine morali e religiose, e di aver realisticamente riconosciuto il ruolo svolto nella storia dalla violenza e dall’uso determinato degli strumenti di coercizione. Una tesi provocatoria per un autore che si richiamava alla tradizione liberale: e la provocazione era diretta con evidente compiacimento contro quella borghesia che mostrava ormai sempre più chiaramente la sua immaturità politica (in quegli stessi anni Weber ne denunciava con altrettanta severità la «volontà d’impotenza») e un atteggiamento remissivo e compromissorio nei confronti delle emergenti élites socialiste e social-nazionali. L’originalità del lavoro va individuata nell’edificazione del nucleo teorico della sua sociologia, che vede già definito nel primo capitolo il teorema della circolazione delle élites, e poi voluttuosamente anatomizzato, in lungo e in largo, l’enorme deposito di derivazioni prodotte nel corso dei secoli dall’immaginario socialista. Oltre a essere l’opera più organica sulle dottrine socialiste apparsa anteriormente al primo grande esperimento politico di socialismo reale, si può dire che essa contenga il canone di tutte le critiche del socialismo sviluppate nel corso del secolo.
Fra gli elementi che definiscono il canone di tale critica devono essere annoverate le tesi seguenti: 1) l’abolizione della proprietà privata non può avere come effetto una maggiore prosperità sociale e quindi nemmeno una migliore funzionalità delle istituzioni politiche; 2) le patologie della società moderna non sono connesse al regime delle libertà ma al fatto che esse se ne discostino perseguendo altri fini: il grande nemico della libertà non è la proprietà privata ma l’organizzazione, ovvero la burocratizzazione, e questa con il socialismo è destinata a crescere; 3) l’edificazione dello Stato di diritto non basta di per sé a contrastare gli abusi di potere, che sono connessi alla tendenza alla strutturazione oligarchica delle società; 4) la democrazia è strutturalmente un veicolo di politiche socialiste redistributive (quello che, in riferimento alla germanica Scuola storica dell’economia, in quegli anni si designava come «socialismo di Stato»), in quanto, in risposta alla pressione degli interessi corporativi, alimenta la tendenza alla crescita della spesa pubblica; 5) anche la democrazia, a ogni buon conto, non riesce a modificare sul lungo periodo e durevolmente la «curva della distribuzione», vale a dire a intaccare l’assetto inegualitario della ripartizione della ricchezza tra le classi sociali.
Muovendo dalla concezione marxiana della storia come storia dei conflitti per l’appropriazione, Pareto sostituisce alla lotta di classe la «circolazione delle élites» come vettore del mutamento, confutando conseguentemente l’assunto (parte d’origine illuministica e parte di matrice hegeliana) della crescente inclusività delle formazioni sociali della storia (e delle relative classi dominanti, fino al traguardo del proletariato come classe universale). Le élites possono variare tra loro per una molteplicità di fattori, ma sono tutte accomunate dall’essere «oligarchie». Alla tesi del materialismo storico, secondo la quale la storia è scandita dal succedersi di «modi di produzione», egli contrappone la tesi della storia come «cimitero delle aristocrazie». Anche il socialismo deve pertanto piegarsi alla tendenza alla strutturazione oligarchica delle società. Per quanto, per ovvie ragioni cronologiche, l’analisi paretiana sviluppata in Les systèmes (e poi anche nel Trattato di sociologia generale, benché subordinatamente agli intenti di una teoria generale del mutamento e dell’equilibrio sociale) abbia come oggetto o teorie e modelli utopistici o politiche di governi orientati in senso socialista, e non ancora le società del socialismo reale, le sue analisi anticipano, almeno in nuce, pressoché tutte le argomentazioni che la letteratura e la cultura politica liberale del Novecento svolgeranno nei confronti dell’esperimento sovietico di organizzazione collettivistica della società.
In Pareto critica della sociologia veteropositivistica e critica del programma ideologico del socialismo maturano in parallelo. Sul piano economico la critica a Marx è radicale: la sua teoria del capitale poggia su assunti speculativi e, diventando vulgata negli scrittori socialisti, ha pregiudicato la possibilità di innovare lo strumentario di analisi economica per lo stadio del capitalismo avanzato. Marx è però punto di riferimento ineludibile per un progetto d’integrazione della scienza economica con una scienza più comprensiva, la sociologia. E questo per due ragioni: perché la sua dottrina ha dato un contributo fondamentale a riconoscere, al di sotto di quei processi sociali regolati da norme tecniche e da norme giuridiche suscettibili di crescente razionalizzazione (e che il «progresso» ha effettivamente razionalizzato), che sono la produzione, lo scambio, la distribuzione, anche una dimensione solitamente elusa dall’analisi sociale, e sfuggente al disciplinamento della razionalizzazione, quella dell’appropriazione; e poi perché ha fatto luce sulla dimensione della copertura ideologica attraverso la quale sono mascherati quei processi sociali fondamentali e in particolare proprio l’appropriazione. A Marx si riconosce d’aver contribuito a «sgretolare l’edificio etico-umanitario dell’economia classica ad uso della borghesia» e di aver mostrato, introducendo il concetto di lotta di classe, «l’assoluta necessità di aggiungere nuovi concetti a quelli dell’economia, onde pervenire alla conoscenza del fenomeno concreto» (Trattato di sociologia, a cura di G. Busino, 1988, § 2021). Anche le basi filosofiche della costruzione marxiana sono poste in discussione, mentre se ne apprezza la portata critica: «l’etica di Marx non è poi migliore dell’etica borghese; ma è diversa, e ciò basta per porre sulla via di conoscere l’errore di entrambe» (§ 2021).
Fra le tante analisi del fenomeno ideologico che le scienze sociali hanno prodotto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, quella di Pareto è probabilmente, a onta delle pur significative differenze (l’altra è orientata politicamente, la sua pretende di essere scientifica), quella più fecondamente prossima alla teoria marxiana. Anche se l’eredità di quest’ultima sarà raccolta con maggiore fortuna, in area culturale tedesca, dalla sociologia della conoscenza (in particolare da Karl Mannheim), Pareto avrebbe esercitato una duratura e sotterranea influenza sulla sociologia funzionalistica americana, grazie soprattutto alla divulgazione della sua teoria a opera di autori quali Robert Michels, Pitirim Sorokin e Talcott Parsons.
Da economista, Pareto considera la società come un sistema in equilibrio, adottando un modello meccanicistico in opposizione all’organicismo prevalente nella sociologia ottocentesca. L’eredità della sociologia positivistica è certo riconoscibile nell’intento di ricercare le uniformità sociali; Pareto si rende però conto che, prima di affrontare questa ricerca, è necessario liberare i «fatti» (il fenomeno oggettivo, la realtà degli accadimenti) dalle valutazioni e dalle deformazioni ideologiche con cui gli interessi e i sentimenti degli attori li plasmano (il fenomeno soggettivo, l’idea che gli uomini se ne fanno). Il programma scientifico della sociologia è legato al presupposto dell’avalutatività – un elemento che lo avvicina, per quanto il retroterra metodologico fosse profondamente diverso (il positivismo nell’uno, lo storicismo nell’altro), alle prescrizioni di Weber. Anche per lui vale il postulato dell’irriducibilità di giudizi di fatto e giudizi di valore. In una lettera all’amico Pantaleoni, Pareto legittima la sua vocazione alla ricerca sociologica dichiarandosi libero da appartenenze di partito o religione, e anche esente da ogni «pregiudizio patriottico». Ciò che per lui conta sono i fatti e il rigore logico dell’argomentazione. Ma la sua enfasi sui fatti e le verità logico-sperimentali e la ricerca delle uniformità sociali non vanno ricondotte all’orizzonte del veteropositivismo. La sua crociata contro la metafisica è piuttosto prossima a quella dei neopositivisti: richiamando la teoria della relatività di Albert Einstein, dichiara di voler sostituire all’assoluto metafisico la «relatività sperimentale».
Un abbozzo del Trattato di sociologia è già rinvenibile, come si è detto, nei Systèmes socialistes, con l’esposizione della teoria della circulation des élites e di quella correlata del movimento ondulatorio delle società. Ma negli anni seguenti prende corpo la parte più innovativa del progetto, la teoria dei residui (la componente elementare degli impulsi e dei sentimenti) e delle derivazioni (il complesso dei ragionamenti pseudologici che l’uomo produce per persuadere gli altri e anche se stesso della giustezza di certe azioni e credenze). Il Trattato, un’opera smisurata, che Benedetto Croce ebbe a definire «un caso di teratologia scientifica», diventa così, in gran parte, un trattato di psicologia sociale che anatomizza le motivazioni dell’agire umano in società. Posta la distinzione tra azioni logiche e non logiche come fondamentale per accedere allo studio dei fatti sociali, e riconosciuta la difficoltà di analizzare le seconde, Pareto procede a indagarle partendo dalle loro manifestazioni verbali, cioè dalle teorie non logico-sperimentali (esemplificate in una pluralità di dottrine teologiche ma anche nelle varianti secolarizzate delle dottrine del diritto naturale): analizzando le quali perviene a quella classificazione dei residui e delle derivazioni che costituisce lo strumentario teorico di cui l’indagine si avvale. A prima vista, la tipologia dei residui elaborata appare piuttosto artificiosa, e risente in modo manifesto del lessico positivistico della psicologia tardo-ottocentesca; ma a considerarla da vicino essa si mostra in grado di dar conto di un variegato plesso motivazionale. Sono sei le classi di residui postulate:
I. Istinto delle combinazioni; II. Persistenza degli aggregati; III. Bisogno di manifestare con atti esterni i sentimenti; IV Residui in relazione colla socialità; V. Integrità dell’individuo e delle sue dipendenze; VI. Residuo sessuale (Trattato di sociologia, cit., § 888).
Di queste, soprattutto le prime due rivestono particolare importanza non solo per l’analisi dell’equilibrio sociale ma anche per quella dei processi politici. Pareto ne illustra fin da principio la rilevanza ai fini della coesione sociale, facendo ricorso a una metafora:
Si possono paragonare questi fenomeni ad un edificio di cui l’istinto delle combinazioni, la ricerca delle migliori, la fede nell’efficacia di esse, provvedono il materiale. La persistenza degli aggregati dà solidità all’edifizio, è il cemento che lo mantiene (§ 891).
Introducendo la categoria dei residui Pareto si dota di uno strumento mancante alla teoria economica, per così dire condannata ad analizzare la condotta umana sotto il profilo della sua razionalità strumentale (dunque in termini di interessi e preferenze) e a sottovalutare, di conseguenza, il problema degli effetti indiretti delle scelte, del loro inconsapevole impatto sulla dotazione motivazionale degli agenti. Per la sociologia è invece di fondamentale importanza comprendere come norme legislative e interventi politici operino modificando le composizioni di interessi e sentimenti presenti in una società, e così facendo finiscano sempre per avere (in misura variabile), oltre agli effetti desiderati, anche effetti imprevedibili e spesso indesiderati. Troviamo già chiaramente delineata nelle pagine del Trattato quell’analisi degli effetti imprevisti dell’agire sociale e politico che alcuni decenni più tardi Albert Hirschman avrebbe sintetizzato negli argomenti della «futilità», degli «effetti perversi» e della «messa a repentaglio» (Hirschman 1991, trad. it. 1991, pp. 73 e segg.). All’autore del Trattato è infatti perfettamente chiaro che ogni intervento ingegneristico nella complessità del sistema sociale è esposto tanto al rischio della perdita di controllo sul processo innescato quanto a quello della vanità dello sforzo. Non solo l’argomento degli effetti perversi ma anche quello della futilità riveste grande importanza per comprendere dinamiche, attriti e immobilismi nelle interazioni sociali:
Tale problema è analogo a quello che ha da risolvere la meccanica pratica, per costruire una macchina. Questa trasforma parte dell’energia in un effetto voluto, e parte ne sperde. La prima parte è spesso assai piccola in proporzione alla seconda (Trattato di sociologia, cit., § 1864).
Procedendo poi per ricomposizione di questi elementi – gli interessi, i residui, le derivazioni – che definiscono il quadro dell’eterogeneità sociale (le derivazioni hanno nell’equilibrio della società minore importanza dei residui, ma è importante indagarle perché sono rivelatrici dell’operare di quei moventi oscuri e altrimenti indecifrabili che sono i residui, sono anzi la via d’accesso ineludibile alla conoscenza di questi ultimi), Pareto approda, con evidente impianto meccanicistico, alla teoria dell’equilibrio sociale e del ricambio tra classe eletta e governati. A più riprese ritorna nell’opera a sottolineare come la teoria dell’equilibrio sociale sia assai più complessa della teoria dell’equilibrio economico, individuando in ciò una delle ragioni dell’arretratezza di questa scienza e della sua difficoltà a emanciparsi da un metafisico organicismo.
Quanto di più semplice possiamo dire in Economia è che l’equilibrio risulta dal contrasto tra i gusti e gli ostacoli; ma è semplicità solo apparente, perché occorre poi tenere conto della grande varietà dei gusti e degli ostacoli. Maggiore complicazione assai si ha nella Sociologia, in cui, alle azioni logiche considerate sole dall’Economia, occorre aggiungere le non-logiche, e, ai ragionamenti logici, le derivazioni (§ 2408).
Operata questa sintesi degli elementi nella teoria dell’equilibrio sociale – una teoria dinamica, che si sposa senza difficoltà con una concezione ciclica della storia –, nell’ultimo capitolo le uniformità sociali, che il metodo logico-sperimentale aveva fino a quel punto consentito d’individuare, sono sottoposte alla verifica storica, con ampi excursus sulle patologie del mondo antico e delle società contemporanee (e qui, se non fosse proprio per il suo programma scientifico meccanicistico e antiorganicistico, le sue diagnosi richiamerebbero quelle di Oswald Spengler in Der Untergang des Abendlandes, 1918-22). Suggestionato dalla grande storiografia antichistica, e soprattutto romanistica, degli ultimi decenni, Pareto indulge in questo capitolo a un esercizio diagnostico sulla crisi della società occidentale che, ancora una volta, può richiamare le preoccupazioni weberiane sul tramonto dell’individualismo e sulla «gabbia d’acciaio della burocratizzazione».
Il fulcro dell’opera non va rintracciato però in quest’ultima parte, nel momento cioè della sintesi, bensì nella parte analitica e critica, in cui Pareto ci propone (come ha messo in luce Norberto Bobbio) una concezione dell’uomo «come animale ideologico» ed elabora una teoria della genesi, della natura e della funzione del pensiero ideologico. A differenza che in Marx, il pensiero ideologico non è qui legato a specifiche formazioni economico-sociali, ma è piuttosto una manifestazione perenne della natura umana. Diversa ne è anche la struttura: il meccanismo dell’ideologia in Marx è la falsa universalizzazione, in Pareto la falsa razionalizzazione (l’uomo cerca di far apparire come razionali discorsi e argomentazioni che sono manifestazioni di credenze irrazionali). Analoga è però, almeno in parte, la funzione: quella di stabilizzare rapporti di potere esistenti. La contrapposizione di pensiero scientifico e ideologia è un tratto distintivo del suo positivismo: con la divaricazione tra utilità sociale e verità sperimentale delle teorie, Pareto prende però congedo dalla presunzione scientistica dei veteropositivisti. Ogni ideologia viene analizzata in base al grado di verità, efficacia (persuasività – e di qui l’interesse per le forme di argomentazione) e utilità; ma ciascuno di questi criteri è indipendente dall’altro, per cui si può dare una teoria logico-sperimentale, fondata sui fatti e confezionata con nesso logico stringente, che non risulta ai più persuasiva e pertanto non è in grado di dispiegare alcuna utilità sociale; e si può dare per converso una teoria non logico-sperimentale che riesce invece persuasiva (essendo gli uomini più influenzabili da giudizi di valore che risultano in accordo con i loro sentimenti che da corretti ragionamenti sull’adeguatezza di certi mezzi a certi fini), dispiegando, per es., sul breve periodo un effetto positivo (d’integrazione sociale) e sul lungo periodo un effetto negativo (d’inibizione del progresso).
Con le sue debordanti e alquanto artificiose classificazioni dei residui e delle derivazioni il Trattato appare come un masso erratico in un paesaggio la cui superficie è cartografata con l’acribia dello scientismo positivista ma il cui sottosuolo ribolle di un magma che attira gli indagatori dell’inconscio. Alla matematica del Manuale di economia politica è subentrata qui la speleologia dell’irrazionale. Ma Pareto non è Sigmund Freud, anche se, comunque, all’analisi del «residuo sessuale» (la classe VI dei residui) sono dedicati nel Trattato una settantina di paragrafi, in cui, con evidente compiacimento, si accanisce contro l’ipocrita moralismo dei virtuosi dell’ascetismo (e non dobbiamo dimenticare che al tema aveva già dedicato nel 1911 un gustoso scritto polemico, Le mythe vertuïste et la littérature immorale). Alla dimensione pulsionale e istintuale della psiche umana egli si avvicina non con la strumentazione dello studioso di patologie mediche ma con l’interesse del dissacratore dell’ipocrisia moralistica.
Andrebbe ancora osservato come, con la sua teoria dei residui e delle derivazioni, Pareto ponga le basi anche per quelle teorie della secolarizzazione delle credenze che nel corso del Novecento metteranno in campo il concetto di religione politica. In una società sempre più secolarizzata (e disincantata, come avrebbe detto il suo contemporaneo Weber), la religione cristiana sta perdendo terreno, ma per essere sostituita non da concezioni scientifiche del mondo bensì da ideologie che all’osservazione scientifica tradiscono la loro origine irrazionale. Analizzando la classe III dei residui, quella relativa al «bisogno di manifestare con atti esterni i sentimenti» (in cui trova posto anche un’indagine pionieristica sulle forme di ritualizzazione dei comportamenti), Pareto annota:
Gli atti del culto della religione cristiana hanno scemato, presso i popoli civili moderni, ma sono stati in parte sostituiti da atti del culto dei Santi Socialisti, dei santi umanitari, e principalmente del culto dello Stato e del dio Popolo (Trattato di sociologia, cit., § 1712).
Dalla sacralizzazione di Popolo e Stato egli vede sorgere, alla vigilia dei totalitarismi, la religione politica del presente, una religione che ha i suoi culti e anche i suoi riti: «Le processioni cattoliche sono quasi sparite, ma sono state sostituite dai ‘cortei’ e dalle ‘manifestazioni’ politiche e sociali» (§ 1712). E sarcasticamente aggiunge: «Il dio Popolo non ha più un ateo». Ma la dottrina democratica, nel tumulto dei fondamentalismi ideologici ai quali soprattutto il dopoguerra avrebbe dato vita, gli appare formicolante di eresie.
Tuttavia al tempo della composizione del Trattato i caratteri della nuova religione politica totalitaria non si erano ancora delineati. Quello che colpisce qui l’attenzione dell’autore è piuttosto il carattere umanitario della nuova religione democratica (oggi diremmo, con brutto neologismo, il suo buonismo).
Le molte varietà del socialismo, del sindacalismo, del radicalismo, del solidarismo, del Tolstoismo, del pacifismo, dell’umanitarismo, ecc., formano un complesso che si può dire appartenere alla religione democratica e che è simile a quello delle innumerevoli sètte che apparvero all’origine della religione cristiana (§ 1859).
Il parallelismo serve a Pareto, che nella sua opera indulge volentieri all’uso dell’analogia storica, a suggerire che, come il cristianesimo primitivo, così l’umanitarismo è espressione di uno stato di decadenza e corruzione sociale. La religione umanitaria, tuttavia, è considerata un surrogato deficitario della religione cristiana: perché meno di questa poggia su «residui utili agli individui e alla società», vale a dire (adottando, di nuovo, un lessico più vicino a noi) meno della religione cristiana è in grado di operare da fattore di integrazione sociale.
Anche se nel concetto di élite è fatto rientrare ogni individuo che primeggi in qualsivoglia settore della società, la sua sociologia è prevalentemente, come già aveva rilevato Schumpeter, una «sociologia del processo politico». Nonostante gli ingegnosi travestimenti della teoria dei residui e delle derivazioni, il sostrato delle sue analisi è nella disincantata analisi machiavelliana del potere, come già rivela l’insistito ricorso alle metafore delle «volpi» e dei «leoni» ogni qualvolta l’autore si accinga a descrivere un processo di mutamento politico. Ne è una riprova la teoria del «ciclo plutocratico», delineata nel Trattato e sviluppata nel suo ultimo lavoro organico, Trasformazione della democrazia (1921), in cui la crisi delle società occidentali del dopoguerra è diagnosticata a partire da tre fenomeni concomitanti: la disgregazione della sovranità statale e il prevalere di tendenze centrifughe, la redistribuzione del potere politico a vantaggio delle classi (parzialmente colluse) degli speculatori e degli operai e a danno dei possidenti e dei militari, la trasformazione dei sentimenti (residui) prevalenti nella società (con un’alterazione della bilancia a vantaggio dei residui della classe I e a danno della classe II). Gli speculatori, un gruppo sociale in cui prevalgono i residui classificati con la formula «istinto delle combinazioni», sono gli attori che fanno ricorso sistematicamente all’astuzia (le «volpi»); gli operai, organizzati in sindacati e partiti rivoluzionari che non esitano a far ricorso alla violenza per imporre i loro interessi sui ceti più deboli (i rentiers), sono invece i rappresentanti di quella parte della società in cui prevalgono i residui del tipo «persistenza degli aggregati» (i «leoni»): la risorsa che mobilitano nell’arena politica è la forza. Per quanto apparentemente classi con interessi antagonistici, questi gruppi vivono e operano in simbiosi d’interessi politici.
Naturalmente, anche quando passa ad analizzare l’attività dei governi e degli attori politici, Pareto non dimentica la sua formazione di economista. E infatti a spiegare la dinamica del ciclo plutocratico sono in primo luogo i comportamenti delle due categorie di soggetti economici a cui il sociologo è indotto a rivolgere particolare attenzione. Da un lato gli speculatori (S), categoria che include gli imprenditori e gli azionisti, «le persone di cui l’entrata è essenzialmente variabile e dipende dall’avvedutezza della persona nel trovare fonti di guadagno» (Trattato di sociologia, cit., § 2233), dall’altro i rentiers (R), o semplici possessori di risparmio, che sono invece «le persone di cui l’entrata è fissa o quasi fissa, e che quindi poco dipende dalle ingegnose combinazioni che si possono escogitare» (§ 2234). Gli uni sono gli agenti del mutamento e del «progresso» economico e sociale, gli altri invece un «potente elemento di stabilità».
Una società ove prevalgano quasi esclusivamente gli individui della categoria (R) rimane immobile, come cristallizzata; una società ove prevalgono quasi esclusivamente gli individui della categoria (S) manca di stabilità, è in uno stato di equilibrio instabile, che può essere distrutto da un lieve accidente, all’interno o all’esterno (§ 2235).
La specificità della dinamica sociopolitica dei Paesi democratici consiste nel fatto che la protezione industriale accresce la proporzione di (S) nella classe governante e le tecniche del governo parlamentare ne favoriscono i giochi nell’arena politica.
Con la ricostruzione del ciclo plutocratico Pareto si dota di uno strumentario analitico per indagare la fenomenologia del clientelismo e della corruzione nei regimi parlamentari contemporanei. Può essere interessante osservare come, mentre nel 1925 il liberale conservatore Mosca, allarmato per le involuzioni autoritarie della politica del dopoguerra, nella seconda edizione del suo Teorica dei governi e governo parlamentare smorzava l’originario antiparlamentarismo della prima edizione (1884) e prendeva una posizione netta contro la dittatura mussoliniana, due anni prima Pareto aveva affidato al suo ultimo scritto, un articolo pubblicato postumo con il titolo Il testamento politico di Vilfredo Pareto: pochi punti di un futuro ordinamento costituzionale («Il giornale economico», 25 sett. 1923, pp. 273-74), una cauta apertura di credito nei confronti del nascente fascismo, interpretato come un regime che può apportare alcune utili correzioni allo strapotere dei parlamenti. Va tenuto conto, per altro, che Pareto moriva nell’estate del 1923, quando ancora appariva ragionevole a molti osservatori prevedere un decorso più moderato del governo insediatosi soltanto pochi mesi prima.
L’interpretazione, che pure è circolata, dell’elitismo paretiano come una forma di pensiero protofascista è comunque destituita di fondamento. Ciò che in sede di bilancio si deve invece affermare è che il disincanto nei confronti delle promesse non mantenute della modernità fa di Pareto, nell’età della «plutocrazia demagogica», un critico inflessibile degli ideali democratici, dell’umanitarismo (la «tabe umanitaria»), del pacifismo. Anche nel suo ultimo lavoro di sintesi sulla «trasformazione della democrazia» egli si accanì, nel solco della tradizione del realismo politico, contro il mito della sovranità popolare e contro le illusioni del progresso morale del genere umano. Il grado di mistificazione di queste dottrine gli appariva non inferiore a quello di passate forme di legittimazione religiosa del potere e lo portava a condividere lo scetticismo sarcastico di Gustave Flaubert, secondo il quale «il sogno della democrazia è di innalzare il proletariato al livello di stupidità che ha già raggiunto la borghesia» (G. Eisermann, Max Weber und Vilfredo Pareto, Dialog und Konfrontation, 1989).
Le opere complete di Pareto sono state pubblicate in francese, con il titolo Œuvres complètes, a Ginevra tra il 1964 e il 2005, in 32 voll., a cura di G. Busino.
Qui di seguito vengono citate alcune edizioni moderne in francese e in italiano delle principali opere di Pareto:
Cours d’économie politique (1896-1897), in Œuvres complètes, 1° vol., éd. G. Busino, G.-H. Bousquet, 1964; ed. it. a cura di G. Palomba, G. Busino, Torino 1971.
Les systèmes socialistes (1902-1903), in Œuvres complètes, 5° vol., 1965; ed. it. a cura di G. Busino, Torino 1974.
Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale (1906), ed. francese in Œuvres complètes, 7° vol., 1981; ed. critica a cura di A. Montesano, A. Zanni, L. Bruni, Milano 2006.
Trattato di sociologia generale (1916), ed. francese in Œuvres complètes, 12° vol., 1968; ed. critica a cura di G. Busino, 4 voll., Torino 1988.
Si veda inoltre:
Scritti sociologici, a cura di G. Busino, Torino 1966.
Scritti politici, a cura di G. Busino, 2 voll., Torino 1974, 19882.
G. Busino, Introduction à une histoire de la sociologie de Pareto, Genève 19672.
N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari 1969, pp. 27-175.
A.O. Hirschman, The rhetoric of reaction: perversity, futility, jeopardy, Cambridge (Mass.) 1991 (trad. it. Bologna 1991, pp. 55-85).
Economia, sociologia e politica nell’opera di Vilfredo Pareto, a cura di C. Malandrino, R. Marchionatti, Firenze 2000.
Vilfredo Pareto (1848-1923): l’uomo e lo scienziato, a cura di G. Manca, Milano 2002.
M. Bach, Jenseits des rationalen Handelns: zur Soziologie Vilfredo Paretos, Wiesbaden 2004.
G. Albert, Hermeneutischer Positivismus und dialektischer Essentialismus Vilfredo Paretos, Wiesbaden 2005.
J.V. Femia, Pareto and political theory, London-New York 2006.