vile
Compare in prevalenza nel Convivio, dov'è attestato 66 volte, mentre per le altre opere si hanno 20 occorrenze, di cui nessuna nell'Inferno.
Le ragioni di questa difformità rilevabile nell'indice di frequenza sono intuibili quando, richiamata la definizione etimologica che di ‛ nobile ' si dà in Cv IV XVI 6 (è falsissimo che ‛ nobile ' vegna da ‛ conoscere ', ma viene da ‛ non vile '; onde ‛ nobile ' è quasi ‛ non vile '), si tenga presente quale importanza il tema della nobiltà occupi nella speculazione dantesca in genere e nel Convivio in particolare. Il passo, inoltre, consente di accertare quale valore v. assuma nel lessico di D., almeno nell'ambito dell'accezione per la quale l'aggettivo ricorre con maggior frequenza: se ‛ nobile ' è sinonimo di ‛ non vile ', v. è tutto ciò, o chiunque, sia privo di gentilezza, naturalmente secondo l'ampia e duttile articolazione che il concetto di nobiltà acquista nel pensiero di Dante.
Un elemento non meno importante per un'esatta intelligenza del valore semantico di v. è offerto da Cv IV II 14, dove la replica e il commento a Le dolci rime 15 riprovando 'l giudicio falso e vile / di quei che voglion che di gentilezza / sia principio ricchezza, offrono allo scrittore l'occasione per chiarire così il suo pensiero: falso, cioè rimosso da la veritade, e vile, cioè da viltà d'animo affermato e fortificato. Ora, com'è noto, il termine ‛ viltà ' (v.), nella lingua del tempo, non implica sempre un giudizio morale; esso può indicare anche mancanza di fiducia nelle proprie capacità, uno stato d'animo scorato e depresso, la prostrazione fisica e morale provocata da qualche grande dolore. ‛ Vile ' è anche chi prova tutto ciò e ‛ vili ' sono gli atteggiamenti esteriori, il modo di comportarsi causati da una condizione psicologica deteriorata o, per dirla con un termine dantesco, ‛ invilita ' (v. INVILIRE).
L'aggettivo è pertanto disponibile a esprimere sia una qualità vera e propria, o, meglio, la mancanza di una qualità (" non nobile "), sia un sentimento (" sfiduciato ", " scorato ", " depresso "), ma è facile intendere come queste due accezioni, se sono agevolmente distinguibili nel contesto di un discorso dottrinario rigorosamente condotto, tendono a confondersi l'una nell'altra allorquando sul rigore logico prevalgono i valori affettivi.
Di qua la tendenza a precisarne il significato mediante l'accoppiamento con altri aggettivi di significato affine o complementare: malvagio e vile (Vn XXXI 11 33), vile e noioso (Rime LXXXIII 10), ‛ misero e vile ' (Cv II XV 8, IV XXVIII 7, XXIX 4); e si notino inoltre gli esempi seguenti nei quali il ricorso al superlativo implica una valutazione d'ordine morale che suggerisce di dare a v. il significato di " spregevole ": II VIII 8 intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita; IV XX 4 come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini; V 9 oh stoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete (sono gl'ignoranti presuntuosi).
Questa pregnanza semantica non verrebbe colta nella pienezza della sua importanza storica se non si tenesse presente il fatto che D., innovando e approfondendo, desume l'uso di v. da una lunga tradizione poetica. Per dimostrarlo, sarà sufficiente ricordare alcuni fra gli echi di poeti precedenti rinvenibili nel corpus dantesco. L'accoppiamento di v. con ‛ misero ' e con ‛ noioso ' (v.), attestato in Rime LXXXIII 10 e Cv II XV 8 (già citati), deriva da Guittone (cfr. Tu vizio, accidia 5 " O poltron vizio vil, miser, noioso "); una tipica formula guittoniana (cfr. " Lussuria, tu, di saggi' om matto fai / ... e vil serv'om signore ") è ripresa in Rime CVI 43 Servo non di signor, ma di vil servo / si fa chi di cotal serva si scosta; nella stessa canzone, voi tenete vil fango vestito (v. 105) è evidente eco di uno spunto guinizzelliano (Al cor gentil 31-32 " Fere lo sol lo fango tutto 'l giorno: / vile reman "). Persino Fiore CXLIV 11 Or convien che tu abbie il mi' consiglio, / che cader non potessi in luogo vile, " non abbia a capitare in triste mani " (Petronio), sia pure solo formalmente e con tutt'altra connotazione concettuale, consuona con una movenza del Cavalcanti (Poi che di doglia 3 " sì vil loco ", cioè " una condizione di mortale sconforto "; né si fa qui questione di precedenza cronologica, essendo sufficiente notare la presenza della medesima locuzione).
Che poi l'esperienza dantesca rifluisca nella produzione dei poeti dello Stil nuovo aperti per ragione di età al magistero di D., esula da questo esame il dirnostrarlo, fuor che per il sonetto cavalcantiano I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte (dove ricorrono " vilmente ", v. 2; " per la vil tua vita ", v. 9; " anima invilita ", v. 14) non solo per l'ovvia considerazione che esso è rivolto a D., ma perché le ben note difficoltà incontrate dall'esegesi a darne un'interpretazione del tutto sicura (cfr. Contini, Poeti II 548-549) derivano in gran parte dalla varietà delle accezioni con le quali v. è presente nella Vita Nuova. Rimprovera Guido a D. l'abbattimento morale da cui fu colpito per la morte di Beatrice? o non piuttosto il cosiddetto traviamento di cui si è voluto vedere un esempio nell'amore per la Donna gentile? Si discute su queste e altre ipotesi, che il testo della Vita Nuova giustifica o non esclude.
Allorquando, ancor dolorosamente sconvolto dalla morte di Beatrice, D. vede per la prima volta il viso della Donna gentile, intuendo in lei pietà, prova il bisogno di piangere; e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi partio dinanzi da li occhi di questa gentile (Vn XXXV 3); qui v. vale certamente " scoraggiata ", " sfiduciata " (altri esempi della medesima accezione in XIX 61 10 ch'io divenisse per temenza vile; Cv 11 Voi che 'ntendendo 45 n'hai paura, si se' fatta vile!). Ma quando il pensiero del nuovo amore ha preso tutto l'animo del poeta, e questi, pur cedendo al fascino lusinghiero della Donna gentile, sente in sé come un rimorso il tradimento compiuto alla memoria di Beatrice, allora v. si carica di un significato moralmente più grave (" spregevole "): Vn XXXVII 1 li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai; XXXVIII 4 dissi questo sonetto, lo quale comincia: Gentil pensero; e dico ‛ gentile ' in quanto ragionava di gentile donna, che per altro era vilissimo; altro esempio al § 2.
Altrettanto importante è notare come anche nel Convivio l'uso dell'aggettivo si collega ad alcuni temi fondamentali dell'operosità di D., come la difesa della sua reputazione dopo l'infamante condanna all'esilio (I IV 13 fatto mi sono più vile [" ho perduto pregio "] forse che 'l vero non vuole non solamente a quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri) o la violenta invettiva contro i malvagi che lodano il volgare altrui e spregiano il proprio: XI 21 li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile [" tengono in scarsa considerazione "; la stessa locuzione in I 3] questo prezioso volgare, lo quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; e così al § 14.
Naturalmente, per effetto della spiegazione che del significato di " nobile " si dà in Cv IV XVI 6 (già citato), il maggior numero delle occorrenze di v. cade nel IV trattato in connessione con l'esame del problema della nobiltà.
Poiché questa è posta in correlazione con il possesso della virtù, almeno sul piano semantico un'anticipazione della peculiare accezione acquistata da v. (" non nobile ") nel IV trattato si può vedere in III Amor che ne la mente 67 li 'nnati vizii che fanno altrui vile.
Un primo, e più numeroso, gruppo di esempi è offerto dal commento a IV Le dolci rime 61-62 Né voglion che vil uom gentil divegna, / né di vil padre scenda / nazion che per gentil già mai s'intenda (dove si osservi la replicata antitesi fra ‛ gentile ' e ‛ vile '). Per quanto solo il v. 61 sia replicato più volte (in X 2, XIV 1 e 3), il tema dei due versi viene unitariamente commentato in VII 5 (due volte, di cui una al superlativo vilissimo), 9 quelli che dal padre o d'alcuno suo maggiore [buono è disceso ed è malvagio], non solamente è vile, ma vilissimo, 10 (vilissimo) e 13 (vilissimo), XV 2, 3 (due volte) e 5 se... pur alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dir vile... conviene l'umana generazione da diversi principii esser discesa, cioè da uno nobile e da uno vile; XXIX 11. Queste affermazioni dottrinarie sono sostenute con l'esempio di Gherardo da Camino, del quale, anche se fosse disceso dal più vile villano (qui v. vale " rozzo "; v. oltre), nessuno avrebbe osato affermare che fosse vile uomo (XIV 12); in particolare, l'infondatezza della tesi enunciata in XV 5 (già citato) è dimostrata con la considerazione che tutti gli uomini discendono da Adamo e che quindi se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili (§ 4). Si veda anche Le dolci rime 38 (vilissimo; ripreso in VII 5), e XXI 2; in VII 8 l'aggettivo compare cinque volte (due al superlativo), riferito a uomo non valente (cioè " non nobile ").
La polemica condotta contro la definizione federiciana della nobiltà quale antica possession d'avere / con reggimenti belli (Le dolci rime 23-24) porta D. a esaminare la natura delle ricchezze; queste non posson gentilezza dar né torre, / però che vili son da lor natura (v. 52) e che siano vili appare ed imperfette (v. 56, ripreso in XI 2). In questi esempi, e in quelli analoghi del commento (X 7 [tre volte] e 10, XI 1 [due volte] e 3 [due volte, al superlativo], XII 11 [prima occorrenza]), v. è riferito, come attributo o come predicato, a ricchezze (e così, in XII 11 [seconda occorrenza] e 12, a scienza).
Quest'uso importa un'implicazione concettuale, e quindi una sfumatura semantica, nuova. La qualificazione delle ricchezze come " vili " è infatti resa possibile dal fatto che D. identifica la nobiltà con la perfezione (cfr. XVI 4); di qua l'erroneità della tesi secondo la quale (XIV 9) 'n nulla cosa, fuori de li uomini, questa distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile (altri tre esempi nello stesso paragrafo) e l'affermazione che tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile. E però se le divizie sono imperfette, manifesto è che siano vili (XI 2). Più in generale, e in contesti meno rigorosi, i beni mondani sono vili cose (Vn XIII 2), anzi cose vilissime (Cv IV VI 20).
Una tematica non molto dissimile suggerisce in Rime CVI l'esortazione alle donne dotate di bellezza a non innamorarsi, perché negli uomini contemporanei non c'è virtù. Di qua l'invito rivolto loro a considerare vil il loro disire d'amore (v. 6) e ad avere a vil ciascuno e a dispetto (v. 62), cioè a ritenere " non nobile " e meritevole di disprezzo ogni uomo (e si noti come sia vil sia dispetto potrebbero essere aggettivi, come crede il Contini, o potrebbero essere una forma neutra sostantivata il primo, e in questo caso abbiate a vil andrebbe spiegato " non tenete in nessun conto ", e un sostantivo vero e proprio il secondo).
Le altre accezioni sono di gran lunga meno significative.
Riferito a persona, v. può valere " oscuro ", " di bassa estrazione sociale ": Cv IV XI 8 lo più vile villano di tutta la contrada... uno staio di santalene d'argento... trovò; XIV 12, prima occorrenza (già citato), III VII 6 (v. CONDIZIONE; ma il passo potrebb'essere interpretato anche: " uomini così ‛ meschini ' e di volgari qualità spirituali " Pd VIII 132 vien Quirino / da sì vil padre, che si rende a Marte (è questa la spiegazione del Mattalia, ma altri commentatori vedono in vil una valutazione morale e non una qualificazione sociale; così, il Sapegno interpreta " ignobile ", il Porena " nullo ", il Chimenz " dappoco ").
Riferito a cose indica mancanza di valore economico o di pregio esteriore: Amore appare a D. leggeramente vestito e di vili drappi (Vn IX 3); nel Purgatorio gl'invidiosi sono coperti di vil ciliccio (Pg XIII 58).
Allude a meschinità meritevole di compassione nell'apostrofe a Ilio che, nel bassorilievo della cornice dei superbi, in implicita antitesi al " superbum / Ilium " (Aen. III 2-3) virgiliano, è rappresentato basso e vile (Pg XII 62), " nell'avvilimento " della devastazione subita. Analogamente, quando dal cielo delle Stelle fisse D. vede sotto di sé la Terra, sorride del suo vil sembiante (Pd XXII 135), della sua " meschina " apparenza, con un evidente atteggiamento di commiserazione, se non di derisione per quanti si lasciano attrarre dai beni mondani. E si noti la contrapposizione fra il buon principio della Chiesa e della dignità pontificia e il vil fine, " miserando e spregevole " nel medesimo tempo, in cui quelle istituzioni cadranno per colpa di Clemente V e di Giovanni XXII (XXVII 60).
Infine, rivolgendosi alle donne che tornano dall'aver visitato Beatrice dopo la morte del padre di lei, D. nota come esse vadano sanz'atto vile (Vn XXII 9 8): addolorate sì, ma con un atteggiamento composto.