Vicino Oriente antico. L'analisi linguistica
L'analisi linguistica
di Gábor Zólyomi
A partire dal III millennio, se non prima, in Mesopotamia vi furono due lingue dominanti: il sumerico, una lingua sostanzialmente agglutinante ed ergativa, e l'accadico, una lingua semitica orientale, sostanzialmente flessiva. Le situazioni linguistiche in cui è comunemente impiegata più di una lingua sono le più favorevoli allo sviluppo di tradizioni relative all'analisi comparativa delle lingue; ciò spiega il rinvenimento, in questa regione, di un gran numero di testi che si possono adeguatamente definire grammaticali.
I testi grammaticali mesopotamici costituiscono una sottoclasse delle liste, che erano testi scolastici organizzati prendendo come unità di base la riga (v. cap. VII, par. 1). Ogni riga fornisce, infatti, una serie di informazioni relative a un dato elemento, che può essere un segno o una parola. La disposizione delle righe in sequenze più lunghe può seguire principî diversi. I testi grammaticali differiscono dagli altri testi lessicali per il fatto che la sequenza e la disposizione delle righe, invece di essere basate sulla forma dei caratteri cuneiformi elencati, per esempio, o sul significato dei termini elencati, sono determinate da categorie grammaticali, come i tempi delle forme verbali. Sono i principî che stanno alla base della loro organizzazione che conferiscono un carattere grammaticale a questi testi, che, dunque, non possono essere considerati come 'grammatiche' nel senso moderno del termine, ossia come testi che si propongono di fornire una descrizione sistematica ed esplicita di una determinata parte di una lingua. Inoltre, i principî secondo i quali sono organizzati sono tutt'altro che ovvi, e questo ha dato origine, in epoca moderna, a diverse interpretazioni.
Come gli altri tipi di liste lessicali, anche i testi grammaticali videro la luce nel contesto dell'educazione degli scribi e, almeno nel periodo paleobabilonese, dovevano essere impiegati nelle fasi più avanzate del corso di studi. Una composizione letteraria, che ci è giunta attraverso alcuni manoscritti non anteriori al 1000 ma che si ritiene originaria del periodo paleobabilonese, descrive un esame nel corso del quale è posta una domanda in cui si fa riferimento ai termini grammaticali che ritroviamo nei testi grammaticali di tipo analitico (Sjöberg 1975). L'uso scolastico dei testi grammaticali è suggerito anche dalla loro stessa forma: la maggior parte di essi è composta, infatti, da paradigmi, ossia da serie di forme verbali, pronominali o avverbiali ordinate in base a categorie grammaticali. L'uso dei paradigmi nell'insegnamento delle lingue è un metodo antico e ben collaudato.
È possibile distinguere due tipi fondamentali di testi grammaticali: i paradigmi e i testi analitici. All'interno dei paradigmi, è possibile operare un'ulteriore distinzione tra i paradigmi verbali e i cosiddetti 'vocabolari grammaticali', elenchi di forme pronominali e avverbiali ordinate in gruppi paradigmatici.
Paradigmi verbali
I primi esempi di testi che possono essere interpretati come paradigmi verbali provengono dagli archivi di Fara (l'antica Shuruppak, 2500 ca.), Al-Hiba (l'antica Lagash, 2450 ca.) e Tell Mardikh (l'antica Ebla, 2400 ca.). Questi paradigmi sono tutti monolingui e consistono di brevi elenchi di forme verbali sumeriche, inserite in liste lessicali di altro genere; è difficile tuttavia stabilire se le righe siano ordinate effettivamente sulla base di categorie grammaticali. Diamo di seguito un paradigma verbale da Ebla (le forme sumeriche sono rese nella traslitterazione sillabica e gli accenti distinguono i segni omofoni): in-na-šúm, ì-na-šúm, nu-ì-na-šúm, ḫé-na-šúm (Pettinato 1981, n. 53, V 12-19).
Queste forme del verbo sumerico šúm, 'dare', differiscono apparentemente tra loro per il primo elemento della catena di prefissi, il che potrebbe indicare che sono disposte sulla base di qualche caratteristica grammaticale. Tuttavia, forme verbali analoghe ricorrono anche nei testi amministrativi scritti in lingua eblaita (probabilmente un antico dialetto accadico occidentale), dove sono utilizzate come termini tecnici stranieri per definire certi tipi molto diffusi di transazioni. Non è improbabile, quindi, che il principio ordinatore di questi paradigmi fosse, in primo luogo, il significato delle diverse forme verbali in quanto termini tecnici e non le loro caratteristiche grammaticali, come il tempo, il modo o la persona. La situazione potrebbe essere diversa nel caso delle liste di Shuruppak o di Lagash, dove il sumerico era la lingua vernacolare. Nel caso di Lagash, almeno alcune delle forme verbali appaiono ordinate in base alla persona e al numero, ma l'ortografia ancora imperfetta di questo periodo remoto rende molto difficile interpretare con certezza le forme verbali elencate.
I primi paradigmi verbali sicuramente ordinati secondo categorie grammaticali compaiono tra il XVIII e il XVII secolo. Questi testi grammaticali paleobabilonesi, provenienti da Ur e forse Nippur, sono elenchi a due colonne, con i termini sumerici nella colonna di sinistra e gli accadici in quella di destra. Dato che nel periodo paleobabilonese il sumerico era già una lingua morta, questi testi furono compilati da e per individui che parlavano l'accadico; la colonna in accadico aveva lo scopo di illustrare il significato delle forme verbali sumeriche. Diamo nella tab. 1 alcuni estratti dal più lungo di questi paradigmi verbali, il testo VII, composto da 318 righe in cui sono elencate le diverse forme, sia sumeriche che accadiche, del verbo intransitivo sumerico gen, 'andare', tradotto con l'accadico alākum (Landsberger 1956, pp. 88-90).
Il testo è diviso in sezioni (separate da linee tracciate sulle tavolette), al cui interno varia solo la persona del soggetto. I testi grammaticali paleobabilonesi considerano l'imperativo e la prima e la terza persona delle forme volitive (d'ora in poi indicate come 'forme non indicative') come tre persone della stessa categoria grammaticale. Le sezioni sono ordinate in base alle loro specifiche caratteristiche grammaticali: per esempio, le forme verbali nel testo VII (tab. 1), alle linee 22-24, differiscono da quelle delle linee 19-21 per la presenza di una terza persona singolare supplementare che svolge la funzione di oggetto indiretto, mentre le forme delle linee 37-39 differiscono da quelle delle linee 71-73 per il tempo; ciascuna sezione può essere messa a confronto con molte altre sezioni, dalle quali differisce per una specifica caratteristica grammaticale.
Sulla base di questo intricato sistema di contrasti è possibile ricostruire la versione accadica di quella che, nella tradizione linguistica latina, è chiamata la morfologia dei verbi: la distribuzione di questi elementi consente, infatti, di stabilire quali forme grammaticali si riteneva costituissero categorie morfosintattiche separate e quali, invece, fossero considerate come valori diversi di un'unica categoria morfosintattica. Se due elementi grammaticali si escludono a vicenda e si accompagnano grosso modo alle stesse serie di elementi grammaticali nel paradigma verbale, allora è probabile che fossero interpretati come casi diversi di un'unica categoria morfosintattica. L'applicazione di tali principî al testo VII della tab. 1 dà come risultato le seguenti categorie (i possibili valori di ogni categoria sono indicati tra parentesi):
Persona (prima, seconda e terza) e Numero (singolare o plurale) del soggetto;
Tempo (non indicativo, presente e passato);
Tema (B [= di base], Bt [= di base con l'infisso t];
Moto (Ventivo);
Persona (prima, seconda o terza) e Numero (singolare o plurale) dell'oggetto indiretto.
Questo elenco delle categorie morfosintattiche verbali non differisce molto da quello delle moderne grammatiche dell'accadico; una delle principali differenze è che le forme non indicative dell'accadico attualmente sono considerate un modo del verbo, mentre nel testo VII il presente, il passato e il non indicativo sono chiaramente visti come valori appartenenti a un'unica categoria. Sta di fatto, tuttavia, che le forme non indicative sono forme temporalmente neutre, il che ci permette forse di comprendere la logica seguita dagli antichi compilatori. La categoria di moto (ventivo) si riferisce alla presenza di un morfema che, per esempio, indica un movimento in direzione di chi parla nei verbi di moto. La categoria del tema si riferisce, invece, alle diverse varianti tematiche del verbo indicanti causalità o passività.
Le stesse categorie morfosintattiche si ritrovano anche negli altri paradigmi verbali pervenutici, con qualche lieve variante: il testo VI, di 227 righe (il secondo per lunghezza tra quelli pervenutici), elenca le varie forme del verbo transitivo sumerico gar, 'mettere', che è tradotto con l'accadico šakānum. L'analisi della sua struttura dà come risultato le seguenti categorie:
Persona (prima, seconda o terza) e Numero (singolare) del soggetto;
Tempo (non indicativo, stativo, presente e passato);
Tema (B, Š [= causativo], N [= passivo]);
Infisso T;
Moto (Ventivo);
Persona (terza) e Numero (singolare) dell'oggetto diretto;
Persona (prima, seconda o terza) e Numero (singolare) dell'oggetto indiretto.
La disposizione delle forme verbali nel testo VII sembra indicare che il tema B e il tema B con infisso t (= tema Bt) fossero considerati come appartenenti a un'unica categoria, mentre quella del testo VI suggerisce, al contrario, che le forme contenenti l'infisso t costituissero una categoria a parte. Gli altri paradigmi verbali che ci sono pervenuti sono più brevi e organizzati in modo meno chiaro, ma una loro analisi ci costringerebbe ad apportare ulteriori modifiche alla serie di categorie e dei relativi valori finora stabilite. L'esame dei due paradigmi più lunghi, tuttavia, dovrebbe essere sufficiente a dare un'idea della sottile analisi su cui sono fondati i paradigmi verbali.
In genere, in questi paradigmi, le forme della colonna in accadico appaiono molto corrette, benché a volte un po' artificiali, mentre quelle della colonna in sumerico molto spesso non seguono le norme della grammatica sumerica così come la si può dedurre da altri corpora testuali. Si pone così il problema di come valutare questi paradigmi, dal momento che la descrizione delle forme sumeriche in essi contenuta appare inadeguata.
Per rispondere a questa domanda, può essere utile analizzare il modo in cui è trattata la causalità. In accadico la causalità è espressa da uno dei temi, o varianti tematiche, del verbo: il tema Š. In sumerico non esiste una regola formale altrettanto precisa per indicare la causalità: una forma verbale causativa differisce dalla corrispondente forma non causativa solo per l'accresciuto numero dei partecipanti e il partecipante supplementare, l'oggetto dell'azione, è costruito con diversi affissi verbali, a seconda che il verbo abbia uno, due o tre partecipanti.
La tab. 2 contiene un riassunto delle forme verbali poste a confronto nel testo IX, linee 1-54, che elenca le diverse forme non indicative del verbo sumerico sá-dug4, 'raggiungere', tradotto con l'accadico kašādum. Il verbo sá-dug4 fa parte dei verbi composti; con questo termine si indica una costruzione verbo + sostantivo, in cui quest'ultimo ha un ruolo non referenziale e, di conseguenza, forma un'unità semantica con il verbo. L'elemento nominale sá di sá-dug4 funziona dal punto di vista grammaticale come un complemento oggetto, di conseguenza 'ciò che viene raggiunto' è espresso da un caso obliquo, costruito con una serie di infissi identica a quella inserita nella catena verbale per costruire la forma causativa. Questa coincidenza poneva l'antico compilatore di fronte a un problema e il modo in cui questo viene risolto è illuminante. Le categorie grammaticali poste a confronto sono le seguenti: tema B (G), tema Š (Š), suffisso dell'oggetto diretto per la terza persona singolare (A3), suffisso dell'oggetto indiretto per la terza persona singolare (D3), moto (V) e infisso (T). La parte sinistra della tabella mostra le forme non causative, la parte destra le corrispondenti forme causative. Le colonne dispari mostrano le forme verbali accadiche, con i simboli delle categorie grammaticali, quelle pari gli elementi sumerici corrispondenti a queste categorie, nella sequenza in cui essi appaiono nella catena di prefissi verbale.
Nella prima e nella quarta riga della tabella si può osservare come al passaggio dal tema B a quello Š in accadico corrisponda in sumerico la comparsa dell'elemento /bi/. Nelle altre righe, tuttavia, allo stesso passaggio corrisponde la comparsa dell'elemento /ni/. Nel sumerico reale l'uso di /bi/ o di /ni/ dipende dal genere dell'oggetto del verbo; nel testo IX, l'uso di /ni/ al posto di /bi/ dipende invece dalla presenza di /na/ o /ba/, il che non è del tutto sbagliato, dato che in effetti anche nel sumerico reale /bi/ non si trova mai accanto a /na/ o /ba/. È interessante notare come alcune forme (tra parentesi quadre nella tab. 2) manchino del tutto nel paradigma; non si tratta, tuttavia, di omissioni casuali. Per analogia con il confronto tra le forme B e B+A3 e tra quelle B e Š, la forma sumerica corrispondente a Š+A3 dovrebbe contenere sia l'elemento /bi/ che quello /ni/, ma poiché in sumerico questi due elementi si escludono a vicenda, il compilatore ha omesso Š+A3. Così, in analogia con il confronto tra le forme B e quelle B+A3 e B+V rispettivamente, la forma sumerica corrispondente a B+V+A3 dovrebbe contenere sia /m/ sia /ni/. Ma gli stessi elementi compaiono anche nella forma Š+V+A3, cosicché le due forme sarebbero apparse perfettamente identiche. Il compilatore ha scelto dunque di omettere una delle due, presumibilmente per mantenere il principio secondo cui a ogni forma accadica doveva corrispondere un'unica forma sumerica. Tutti gli altri vuoti rilevabili nel paradigma possono essere spiegati in modo analogo.
Ciò che l'analisi del testo IX dimostra è che i paradigmi verbali tendono a stabilire una corrispondenza univoca tra gli elementi sumerici e le categorie morfosintattiche dell'accadico. Ma una corretta descrizione del sumerico avrebbe dovuto basarsi su una serie molto diversa di categorie morfosintattiche e le notevoli differenze esistenti tra le due lingue, l'una agglutinante, l'altra flessiva, rendevano quasi inevitabili gli errori di analisi da parte dei compilatori. La tab. 1 dimostra anche, da parte del compilatore, il possesso di una conoscenza di base della distribuzione degli elementi all'interno della catena di prefissi verbali, dato che, nei casi in cui l'analisi avrebbe richiesto una combinazione scorretta di tali elementi, si è scelto di omettere del tutto la forma verbale.
Si devono dunque valutare le due colonne dei paradigmi verbali in modo differente: la colonna in accadico fornisce un'elaborata descrizione della lingua madre dei compilatori, benché contenuta nei limiti di un elenco; al contrario, la colonna in sumerico fornisce un'analisi meno completa della lingua sumerica, analizzata secondo le categorie grammaticali dell'accadico. Le forme verbali sono costruite sulla base delle corrispondenze osservabili tra le caratteristiche grammaticali dell'accadico e gli elementi del sumerico, ma il compilatore generalizza eccessivamente le regole stabilite induttivamente e, spesso, crea forme verbali scorrette o che non corrispondono alla reale traduzione in sumerico dei termini accadici. La colonna in accadico è dunque descrittiva, mentre quella in sumerico si potrebbe definire teorica. Nonostante la scarsa correttezza delle forme verbali sumeriche in esse elencate, queste liste possono essere considerate come i primi tentativi documentati di effettuare generalizzazioni riguardo alla struttura di una lingua sulla base di espressioni concrete, e debbono, di conseguenza, essere tenute nel dovuto rispetto.
Vocabolari grammaticali
Questa categoria di testi grammaticali si differenzia dai paradigmi verbali per il tipo di termini elencati: sostantivi, avverbi, pronomi ed espressioni avverbiali, al posto delle forme verbali. La tab. 3 mostra un estratto dal testo I, che doveva essere composto in origine da circa 1200 righe (Landsberger 1956, p. 49).
Qui la stessa locuzione prepositiva in accadico è messa in rapporto con una forma pronominale sumerica con l'aggiunta di tre suffissi indicanti il caso (-ra ed -er nelle linee 317 e 318 sono, infatti, modi diversi di scrivere lo stesso elemento). Mentre nei paradigmi verbali è raro trovare diverse forme sumeriche a fronte di una stessa forma accadica, questo è molto frequente nei vocabolari grammaticali: le forme accadiche rappresentano traduzioni possibili, ma non esaustive, delle corrispondenti forme sumeriche. Ciononostante, anche nei vocabolari ritroviamo il fenomeno della costruzione di forme sumeriche non corrette, sulla base delle corrispondenze osservabili tra le due lingue.
Testi analitici
Nel confronto tra le forme accadiche e sumeriche nei paradigmi era già implicita la corrispondenza di una certa forma sumerica con una specifica categoria grammaticale accadica. Già nel periodo paleobabilonese, tuttavia, furono compiuti tentativi isolati di presentare queste corrispondenze in una forma diversa da quella paradigmatica. La seguente riga proviene da un elenco di segni databile a questo periodo (Civil 1979, p. 100):
462: 2. DA itti.
L'interpretazione di questa riga è: il grafema DA, che si legge /da/, può essere tradotto con la preposizione accadica itti, 'con', ossia da è l'elemento che le moderne grammatiche della lingua sumerica definirebbero come l'indicatore del caso comitativo. La principale differenza tra i paradigmi e questo modo analitico di presentare le corrispondenze è che quest'ultimo descrive la funzione di un elemento grammaticale al di fuori del contesto di una parola completa.
I primi testi che contengono sequenze più lunghe di righe simili a quella che abbiamo appena citato sono databili alla seconda metà del II millennio. I testi analitici non rappresentano un approccio interamente nuovo al sumerico: proprio come i paradigmi, infatti, questi testi si servono dell'accadico come punto di partenza per descrivere il sumerico. È proprio questo fatto e le notevoli differenze tra la struttura delle due lingue, ad aver condotto allo sviluppo dei testi analitici: alcune parole accadiche corrispondevano infatti in sumerico a elementi più piccoli di una parola.
Diamo qui di seguito un passaggio di un testo grammaticale proveniente da Ugarit, che può essere datato intorno al 1200 (testo grammaticale mediobabilonese II, ibidem, p. 79):
61. šè ina
62. šè ana.
Lo scopo del testo è dimostrare che l'elemento sumerico šè, classificato come indicatore del caso terminativo nelle moderne grammatiche, può essere tradotto in accadico sia con la preposizione ina, 'in', sia con ana, 'a', a seconda del contesto. Non esiste nessuna sostanziale differenza tra il testo grammaticale paleobabilonese I linea 320, citato prima e il testo mediobabilonese II linea 62. Quella che potrebbe sembrare "una coraggiosa e radicale decisione" di scomporre la lingua "in elementi privi di un'esistenza indipendente" (Jacobsen 1974, p. 54) è, in effetti, la naturale conseguenza delle differenze strutturali tra le due lingue: le sequenze analitiche di questo periodo non sono altro che vocabolari grammaticali in cui l'elemento sumerico corrispondente alla parola accadica è un elemento più piccolo di una parola. Questa interpretazione è avvalorata anche dal fatto che la prima parte del testo II è costituita da una mescolanza di vocabolari grammaticali e di sequenze analitiche, e che non vi sono esempi di sequenze analitiche separate dai vocabolari grammaticali.
I primi testi formati quasi esclusivamente da sequenze analitiche che ci sono pervenuti risalgono al V-IV secolo. Questi testi analitici sono non solo più lunghi e più sistematici di quelli del II millennio, ma si differenziano da questi ultimi anche per l'uso di un certo numero di termini grammaticali. I termini usati erano di tre specie. Alcuni termini descrivevano la posizione relativa di un elemento: elû, 'sopra', designava un elemento o una parola posti all'inizio di una parola o di una proposizione; qablû, 'nel mezzo', designava un elemento infisso nella catena verbale; šaplû, 'sotto', invece un elemento o una parola posti al termine di una parola o di una proposizione.
Altri termini si riferivano invece alle categorie grammaticali: ḫamṭu, 'veloce', designava le forme verbali corrispondenti al passato dei verbi accadici; marû, 'lento', le forme verbali corrispondenti al presente dei verbi accadici; šusḫurtu, 'condotto intorno', probabilmente le forme verbali non indicative; ša ištēn, 'di uno', le forme verbali corrispondenti al singolare nei verbi accadici; ša mādūti, 'di molti', le forme verbali corrispondenti al plurale nei verbi accadici; gamartu, 'completato', un elemento corrispondente all'infisso T nei verbi accadici; riātum, '?', un elemento corrispondente alle forme verbali di moto in accadico.
Infine, vi era una coppia di termini che si riferiva al modo in cui era possibile scrivere alcuni elementi verbali pronominali: il termine malû, 'pieno', designava i casi in cui un elemento era scritto servendosi di un segno vocalico-consonantico (per es. -un-) e il termine rīqu, 'vuoto', designava, al contrario, i casi in cui era impiegato un segno puramente vocalico (per es., -ù-).
Sembra improbabile che l'ampia corrispondenza tra le categorie grammaticali descritte da questi termini e quelle codificate dai paradigmi verbali sia frutto del caso. Sommandosi ad altre indicazioni, come, per esempio, l'ortografia apparentemente paleobabilonese del termine riātum, essa sembrerebbe piuttosto dimostrare che questa terminologia si sia sviluppata in un'epoca precedente a quella in cui furono compilati i testi in cui questi termini compaiono per la prima volta; essi potrebbero aver fatto parte della tradizione orale contemporanea alla stesura dei paradigmi paleobabilonesi.
di Gábor Zólyomi
La scrittura della Mesopotamia antica era caratterizzata dall'utilizzazione di due lingue, il sumerico e l'accadico, e in conseguenza di ciò fu prodotta una notevole quantità di testi redatti in entrambe le lingue. I più antichi testi bilingui risalgono alla metà del III millennio e continuarono a essere composti fino al I sec. a.C. Le due versioni del testo erano scritte, il più delle volte, sulla stessa tavoletta o sullo stesso oggetto, utilizzando un formato di scrittura interlineare per cui a ciascuna riga in sumerico seguiva la sua traduzione in accadico. A volte, tuttavia, la traduzione in accadico era inserita tra le due metà della riga in sumerico e le due versioni erano separate da un segno simile ai due punti. Vi erano inoltre testi bilingui in cui, come nel caso delle liste lessicali (v. cap. VII, par. 1), le due versioni erano scritte su due colonne adiacenti. Infine, le due versioni potevano essere scritte su due tavolette differenti. Di alcuni testi letterari sumerici, che furono tradotti in accadico dopo il periodo paleobabilonese (XIX-XVI sec.), possediamo sia la versione in sumerico, sia quella interlineare bilingue.
La seconda parte della composizione letteraria sumerica Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi, di periodo paleobabilonese, fu tradotta in accadico e aggiunta, come tavoletta conclusiva, alla saga di Gilgamesh della biblioteca di Ninive: in questo caso i manoscritti delle due versioni non solo erano stati scritti su tavolette diverse, ma erano anche distanti nel tempo di quasi un millennio. Quando le due versioni non esistono separatamente, a volte non è facile stabilire quale delle due debba essere considerata quella originale. Tuttavia, nel caso dei testi bilingui composti verso la fine del II o durante il I millennio, la presenza di numerosi errori nella versione in sumerico e il fatto che la sintassi sumerica appaia pesantemente influenzata da quella accadica, dimostrano che la versione originale è quella in accadico.
Data l'assenza di fonti esplicative scritte, non possediamo nessuna informazione diretta riguardo al contesto intellettuale nel quale si svolgeva l'opera di traduzione: non sempre, per esempio, si comprende la ragione dell'esistenza delle due versioni di un testo. Nel caso delle iscrizioni reali di Sargon (2335-2279) e Rimush (2278-2270), la scelta di utilizzare tutt'e due le lingue può essere stata dettata dal desiderio di farsi comprendere da entrambe le popolazioni. Ma all'epoca di Hammurabi e dei suoi successori (XVIII-XVI sec.) il sumerico era già divenuto da tempo una lingua morta, cosicché la presenza di una versione in sumerico nelle loro iscrizioni non era certamente dovuta alla volontà di trasmettere un messaggio alla popolazione di questa lingua, ma doveva servire piuttosto a conferire una maggiore autorevolezza alle iscrizioni stesse. A partire dalla prima metà del II millennio, si cominciò a tradurre in accadico i testi letterari sumerici, verosimilmente per renderli accessibili a quanti parlavano la prima lingua.
Nel caso dei testi bilingui composti successivamente al periodo paleobabilonese, invece, l'esistenza di una versione in sumerico si spiega più probabilmente per la funzione cultuale e il prestigio che questa lingua aveva acquisito. I testi più recenti contengono a volte delle parti scritte in una specie di sumerico artificiale e contraffatto, che non servono a tradurre il testo in accadico, ma hanno una funzione puramente ornamentale.
Gli antichi traduttori si servivano di una notevole varietà di metodi: oltre alle traduzioni più o meno letterali, troviamo spesso anche versioni che cercano di trasmettere il senso della frase originale, senza fornire la traduzione esatta di ciascuna parola. L'esempio seguente è tratto da una lamentazione bilingue, i cui manoscritti pervenutici risalgono al I millennio (i termini in sumerico sono resi in traslitterazione sillabica, i numeri sottoscritti distinguono i segni omofoni e i termini in accadico sono resi in trascrizione continua e con caratteri corsivi):
gu4-ud nim kur-ra mu-lu ta-zu mu-un-zu
("toro eccelso del paese, cosa possiamo conoscere di te?")
qarrādu šaqû ša mātu gattuk mannu ilammad
("guerriero eccelso del paese, chi conosce la tua forma?").
(Cohen 1988, p. 441, l. 1)
Gu4-ud, 'toro', e qarrādu, 'guerriero', non sono perfettamente equivalenti sul piano lessicale, ma il traduttore si serve di questi termini per trasmettere lo stesso significato in entrambe le lingue. Le due versioni di un testo bilingue possono differire tra loro anche per la sintassi; i periodi lunghi, utilizzati nel sumerico, composti da numerose proposizioni subordinate, sono frequentemente spezzati in frasi più brevi e più semplici nella versione in accadico. Alcuni documenti bilingui di epoca tarda sono particolarmente interessanti poiché a vere traduzioni in accadico sono mescolate spiegazioni esegetiche che, incuranti del significato delle parole, interpretano il testo sumerico con l'aiuto di etimologie, spesso fantasiose. L'esistenza di tali testi sembra indicare che la differenza tra traduzione e spiegazione esegetica non fosse considerata fondamentale dai mesopotamici.
La spiegazione esegetica e la traduzione sono probabilmente le due attività a cui si fa riferimento come parte indispensabile dell'educazione dello scriba in una composizione letteraria, anch'essa bilingue, che ci è giunta da alcuni manoscritti del I millennio ma che si ritiene possa fornire un quadro attendibile, anche se forse un po' idealizzato, del corso di studi seguito in una scuola scribale paleobabilonese. In essa si descrive l'esame di un allievo al quale, tra l'altro, sono poste queste domande:
"Sei anche a conoscenza dei modi in cui si deve procedere per palesare ciò che non è chiaro nei testi sumerici da te studiati?/ Sai come tradurre e spiegare [le parole] dall'accadico al sumerico e dal sumerico all'accadico?" (Sjöberg 1975, pp. 140-141, ll. 13-14).
Il vasto corpus di liste lessicali sumero-accadiche e accadico-sumeriche (v. cap. VII, par. 1) assunse certamente un ruolo molto importante nella stesura delle traduzioni, almeno dopo che il sumerico cessò di essere una lingua parlata. Il modo in cui tali liste erano utilizzate come opere di riferimento dai traduttori può essere ricostruito sulla base dei commentari. Si tratta di testi scolastici, che appaiono a partire dal I millennio e mirano a chiarire o a interpretare alcuni aspetti di opere di carattere divinatorio, letterario, lessicale, grammaticale o medico. In base al loro contenuto, si possono distinguere due tipi principali di commentari: i commentari filologici, che spiegano il significato di termini rari o obsoleti, e i commentari esegetici, che forniscono interpretazioni non implicite nella lettera del testo commentato, prendendo generalmente le mosse da precisazioni di natura semantica.
È inoltre possibile distinguere i commentari in due categorie sulla base delle loro caratteristiche fisiche. Il primo tipo è sostanzialmente simile nella forma alle liste lessicali: è organizzato in due colonne, di cui quella posta a sinistra contiene il termine o l'espressione commentata in quella di destra. Un esempio di questo tipo è il commentario alla serie di presagi Šumma izbu, riguardante i presagi formulati sulla base delle nascite inusuali. Il testo è in accadico, ma è scritto in gran parte utilizzando sumerogrammi (termini sumerici che erano letti in accadico) e il commentario ne fornisce la spiegazione. Per esempio: kar mašā'u "[la parola sumerica] kar [significa] mašā'u ['rubare']" (Leichty 1970, p. 39, e p. 213, l. 45).
Dato che questa particolare equivalenza ricorre in un certo numero di liste lessicali, lo scriba deve aver fatto riferimento a una di esse e sono documentati casi, anche se piuttosto rari, in cui il commentario cita persino il nome della lista lessicale da cui è stata tratta una particolare equivalenza.
Nei commentari del secondo tipo, le parole commentate e le loro spiegazioni erano riportate di seguito sulla stessa riga e separate da un carattere simile ai due punti. Per esempio, in un testo della seconda metà del I millennio, contenente alcuni commenti su una raccolta di incantesimi e di pratiche magiche per agevolare i parti difficili, si scrive:
gi èn-bar bàn-da šu u-me-ti : gi : sinništim : bar : aṣû : bàn-da / šerri : ṣaḫri 'Prendi una piccola canna dalla stuoia' : [in sumerico] gi : [può significare] donna : [in sumerico] bar : [può significare] venir fuori : [in sumerico] bàn-da / [può significare] bambino : [oppure] piccolo. (Maul 1997, pp. 264-265)
La prima proposizione riporta una delle istruzioni contenute nei testi commentati; la parte rimanente elenca le parole accadiche equivalenti ai termini e (nel caso di èn-bar) alle sillabe contenuti nelle istruzioni. Anche se in tutti e tre i casi le equivalenze fornite trovano riscontro nelle liste lessicali bilingui, il commentatore, volendo scovare un'interpretazione del testo diversa dal significato letterale delle parole che lo compongono, preferisce ignorare il fatto che i significati secondari, piuttosto insoliti, attribuiti ai termini gi e bar sono validi solo in contesti particolari. In tal modo la spiegazione che ne risulta è che "la donna farà uscire fuori il bambino", cioè, "farà nascere il bambino". È degno di nota il fatto che l'interpretazione letterale e quella esegetica risultassero dall'utilizzazione di uno stesso materiale lessicale, la polivalenza dei segni cuneiformi, che costituì sin dall'inizio una delle caratteristiche essenziali del sistema di scrittura mesopotamico: essa, infatti, moltiplicava enormemente le possibilità d'interpretazione di uno stesso testo.
di Giovanni Garbini
Le diverse forme di scrittura alfabetica attualmente usate in Europa (latina, cirillica e greca; le prime due derivate dalla terza) hanno rappresentato, al loro inizio, la meno imperfetta applicazione del principio per cui ogni suono è rappresentato da un segno. Il fatto che tale principio non abbia trovato una piena applicazione nemmeno oggi, tuttavia, dimostra come la scrittura costituisca un fenomeno assai complesso nel quale l'aderenza alla realtà fonetica riveste un'importanza piuttosto secondaria. La lunga storia dell'alfabeto, che soltanto nella Roma repubblicana e imperiale si avvicinò alla corrispondenza perfetta tra segno e suono, conferma tale secondarietà.
Il primo vero alfabeto è quello greco, documentato dall'VIII sec., nel quale i fonemi vocalici, anche se non tutti, sono resi con segni autonomi allo stesso modo di quelli consonantici. È questa l'innovazione sostanziale che i Greci introdussero nella scrittura fenicia da loro adottata: una scrittura comunemente definita alfabetica, ma poiché essa registra esclusivamente le consonanti, sarebbe più appropriato definirla consonantica. L'analisi approfondita della scrittura fenicia ha fatto tuttavia ipotizzare che questa sia nata non tanto come notazione di fonemi consonantici, secondo l'interpretazione che i grammatici arabi hanno dato della loro scrittura (derivata anch'essa da quella fenicia), quanto piuttosto come una forma compendiaria di scrittura sillabica; il segno B, per esempio, non esprimeva il fonema /b/ ma riassumeva sinteticamente quattro possibilità di lettura: [ba], [bi], [bu], [b]. Una conferma di quest'analisi viene dalla scrittura etiopica; quando nel IV sec. d.C. questa si trasformò da consonantica in sillabica e modificò ogni singolo segno in sette forme diverse a seconda delle varie vocali e della mancanza di vocale, l'originario segno consonantico non fu usato per esprimere la consonante priva di vocale ma la sillaba 'consonante + a'; per la sola consonante, invece, si utilizzò il segno originario modificato.
Si afferma spesso che la scrittura consonantica sia particolarmente idonea alle lingue semitiche perché queste, a differenza di quelle indoeuropee, possiedono una radice esclusivamente consonantica; tale affermazione è priva di qualsiasi fondamento, perché non tiene conto del fatto che una parte non indifferente della morfologia semitica si basa sull'apofonia vocalica. La natura consonantica della radice semitica contribuisce soltanto a rendere meno negative di quanto sarebbero in una lingua indoeuropea le conseguenze di una scrittura sostanzialmente inadeguata per qualsiasi lingua.
L'alfabeto fenicio risale, a sua volta, in ultima istanza, a quello egizio; bisogna dunque partire dall'analisi di quest'ultimo per comprendere che tipo di analisi fonetica è stata effettuata. La maggior parte delle varie centinaia di segni che costituiscono la scrittura egizia ha un valore fonetico corrispondente alle consonanti della radice espressa dal segno stesso, che di solito è un pittogramma: il disegno di un leone accovacciato esprime le consonanti rw, che compongono il nome 'leone' in egizio (cfr. ebraico ᾽aryē). Poiché l'egizio è costituito da radici prevalentemente bi- e triconsonantiche, i valori fonetici dei segni corrispondono a due o a tre consonanti; l'esistenza di radici monoconsonantiche ha dato luogo a segni che esprimono una sola consonante. L'utilità di questi ultimi come complementi fonetici, largamente usati per precisare l'aspetto fonetico di radici non di rado omofone, portò gli Egizi a creare, fin dagli inizi della scrittura, una serie di 24 segni monoconsonantici, tanti quante erano le consonanti della loro lingua, che precisano ulteriormente quelli biconsonantici, generalmente utilizzati come complementi fonetici. Il fatto che diversi segni monoconsonantici siano derivati da radici in realtà biconsonantiche ma con una consonante debole, che tende a cadere (come il segno D rappresentato da una mano, in semitico yad), rivela la totale consapevolezza egizia di possedere un 'alfabeto' tutt'altro che 'inconsapevole' come talvolta è stato ipotizzato: il nome del fiume Giordano si trova scritto yrdwn', con sei segni monoconsonantici, un millennio prima che quello di Alessandro il Macedone fosse scritto ᾽rwksndrs con sette segni monoconsonantici e uno biconsonantico, rw. Il fatto che poi gli Egizi scrivessero la parola 'tazza' ḥn.t (-t è il suffisso del femminile) con tre segni monoconsonantici, ḥnw.t 'signora' con due monoconsonantici e il biconsonantico nw e diversi termini omofoni della stessa radice ḥnw con cinque segni (qui separati da un punto) ḥ.ḥn.n.nw.w, mostra quanto i criteri grafici egizi fossero lontani dai nostri.
Il modo in cui gli Egizi hanno elaborato la loro scrittura fonetica, con la messa in evidenza della struttura consonantica della radice, rivela una sensibilità linguistica tipicamente semitica, come del resto è semitica buona parte della fonologia e della morfologia dell'egizio. Tale circostanza spiega la totale inadeguatezza della scrittura egizia a esprimere le forme verbali, le quali, come mostra il copto, erano costituite sostanzialmente da forme nominali con forti alternanze vocaliche di tipo non semitico. L'inafferrabilità del sistema verbale dell'egizio diventa comprensibile se si pensa che in alcune lingue sudanesi moderne taluni tempi verbali si differenziano tra loro soltanto per il tono, la lunghezza vocalica o l'accento; questo accostamento apparirà meno arbitrario quando si dirà che le stesse lingue offrono qualche parallelo alla fusione delle consonanti r e l (quest'ultima mancante nella scrittura egizia), cosa che non avviene in semitico. Se la scrittura egizia fosse stata elaborata dall'elemento etnico che ha introdotto nell'egizio la gran parte del lessico, ricco di omografi a livello consonantico, avremmo avuto un sistema notevolmente diverso; resta comunque il fatto che la mancata registrazione delle vocali costituisce una grave mancanza a livello morfologico e lessicale ‒ mancanza che gli Egizi non avvertirono e a cui pertanto non posero rimedio: l'ipotesi di diversi studiosi secondo cui nel II millennio fu elaborata una scrittura sillabica per la resa dei nomi stranieri non trova riscontro nella documentazione.
Intorno alla metà del II millennio fu inventato in Palestina, che si trovava sotto il controllo egizio, un sistema di scrittura ispirato ai segni monoconsonantici egizi, interpretati in senso semitico e utilizzati da soli. Questo 'alfabeto consonantico' costituì un enorme progresso sul piano ideologico e pratico ma non ebbe alcuna conseguenza a livello di analisi fonetica. È interessante rilevare come la riduzione del numero dei segni da alcune centinaia a una trentina non abbia portato i Cananei a compiere il passo decisivo verso un vero alfabeto con la creazione di pochissimi segni vocalici; è chiaro che forti condizionamenti ideologici impedirono l'abbandono della scrittura consonantica, ancora oggi usata nell'arabo e nell'ebraico.
Nel XIV sec., nella città siriana di Ugarit fu creata una nuova scrittura che trasponeva in forme cuneiformi un alfabeto consonantico fenicio, che non è stato ancora documentato direttamente, ma la cui esistenza è resa sicura dalla presenza del segno samek, appunto, nella scrittura ugaritica (non siamo ancora in grado di precisare quale rapporto vi sia tra questo alfabeto fenicio e quello inventato in Palestina). Esaminando la scrittura di Ugarit, costituita da 30 segni cuneiformi estremamente semplici, completamente indipendenti da quelli mesopotamici, si può rilevare un fenomeno interessante: i segni dalla forma più elementare (uno o più tratti verticali od orizzontali) rendono le consonanti che possiamo definire basilari: p b t d ṣ [ts] k g h ḫ s z m n l r y w più la laringale alef con le vocali a i u. Le consonanti tipicamente semitiche (faringali ḥ e ῾ayn, enfatiche ṭ e q) sono scritte con il cuneo ingrossato (in tedesco Winkelhaken) da solo (per ῾ayn, imitando il segno fenicio) oppure posto all'estremità di un tratto verticale od orizzontale per le altre; le consonanti amorree, estranee all'alfabeto fenicio, sono costituite dal cuneo ingrossato accompagnato da tratti posti accanto a esso. Tale distribuzione dei segni non può essere casuale: essa presuppone un'analisi fonetica che isola tre gruppi di consonanti, quelle comuni al semitico e ad altre lingue, quelle semitiche cananaiche e quelle semitiche amorree; questi gruppi corrispondono alle tre etnie esistenti nella città: la classe dominante amorrea, l'antica popolazione locale e una presenza hurrita.
Non sappiamo ancora in quale modo l'alfabeto fenicio fu trasmesso ai Greci, certo prima dell'VIII secolo. Scoperte epigrafiche relativamente recenti fatte nella Palestina meridionale, nella zona abitata dai Filistei, suggeriscono che questi ebbero un ruolo nella trasmissione dell'alfabeto ai Greci. Un óstrakon proveniente da Qubur el-Walaydah, databile intorno al 1000 e redatto in scrittura e lingua fenicia, presenta una scrittura destrorsa, anziché sinistrorsa, con i segni alef e š che appaiono identici all'alfa e al sigma greci. Un altro óstrakon da Izbet Sartah, databile all'XI sec., contiene una serie alfabetica fenicia e alcune frasi in una lingua sconosciuta, presumibilmente in filisteo; la presenza, in queste frasi, di numerosi segni corrispondenti alle faringali fenicie, estranee alla lingua filistea, rende possibile l'ipotesi che si tratti di segni consonantici usati come vocali: ῾ayn per o, ḥ per e; se tale ipotesi si rivelasse esatta, sarebbero stati i Filistei gli inventori dell'alfabeto, da loro trasmesso ai Greci già munito di vocali: essi furono comunque i primi a usare la scrittura fenicia per una lingua non semitica.
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