SANDI, Vettore Felice
– Nacque a Venezia, da Tommaso di Vettore e da Chiara di Santo Nosadini, il 31 agosto 1703.
La famiglia, originaria di Feltre, era entrata a far parte della nobiltà veneta ed era stata ascritta al Maggior Consiglio nel 1685, dietro il versamento di 100.000 ducati nelle casse della Serenissima, oramai svuotate dalla guerra di Candia e da quella di Morea. La famiglia vantava una buona tradizione forense e una condizione economica agiata, anche se non comparabile con quella dei grandi lignaggi del patriziato. Avvocato di vaglia l’omonimo nonno Vettore e così anche il padre Tommaso, che aveva intrapreso una lunga carriera politica divenendo appunto dapprima avvocato per le Corti di S. Marco, quindi avvocato fiscale e infine, nel 1732, avogadore di Comun, carica che ricoprì quasi ininterrottamente fino al 1743, anno della morte.
Sandi, che per tutta la vita non si sarebbe mai mosso da Venezia se non per qualche soggiorno di villeggiatura, in giovinezza compì studi umanistici e giuridici tra le mura della ricchissima biblioteca paterna di palazzo Sandi a S. Angelo, edificato su progetto di Domenico Rossi e parzialmente affrescato da un giovane Giambattista Tiepolo; ma, in un ambiente ideale allo scopo, cominciò anche a mettere in pratica la passione di erudito e di storico. Il più grande di quattro fratelli, fu in ogni caso l’unico continuatore della tradizione forense familiare.
Il 22 dicembre 1726 divenne anch’egli avvocato alle Corti di S. Marco e in tale ufficio rimase consecutivamente fino al 1769. Nel 1734 a S. Giorgio Maggiore si unì in matrimonio con Elisabetta Donà (di Giustino), che fece appena in tempo a dargli un figlio maschio, Tommaso, il 29 aprile 1735, prima di morire l’anno successivo. Dopo una lunga e intensa fase della vita divisa tra attività nei tribunali e studio, il 19 gennaio 1755 Sandi venne eletto una prima volta alla carica di podestà e capitano di Crema, riuscendo però a esserne dispensato, adducendo, tra le altre, motivazioni personali e familiari legate all’età matura, alla sua necessaria presenza a Venezia per accudire l’anziana madre e soprattutto alle imminenti nozze del figlio, che infatti quell’anno si sposò con Elena Flangini (di Marco).
Nello stesso periodo giunse a conclusione una vicenda connessa al mantenimento dapprima di un figlio naturale del padre, battezzato all’Ospedale della Pietà con il nome di Francesco Melchiori, e quindi della vedova e del bambino di quest’ultimo (scomparso prematuramente), residenti a Parma e assistiti da un avvocato imparentato proprio con l’amante del genitore. Tale vicenda si trascinava dal 1743 e aveva creato non poche preoccupazioni economiche e di reputazione a Sandi, costretto a rivolgersi addirittura, nella primavera del 1756, alla magistratura degli Inquistori di Stato, i quali posero appunto fine alla controversia, favorevolmente per lui, allontanando donna e fanciullo da Venezia, dove nel frattempo si erano stabiliti. Ma egli visse comunque con estremo disagio l’intera situazione che, sommata all’arresto in Dalmazia e a una condanna per truffa al Magistrato alle biave del cognato, Giustin II, detto Polo, Donà, condizionò la serenità degli anni a seguire della sua esistenza.
Nell’aprile 1760, nuovamente eletto alla carica di podestà e capitano di Crema, Sandi ottenne per la seconda volta di esserne dispensato, riutilizzando nella supplica le argomentazioni già sollevate cinque anni prima, ma non tacendo nemmeno tali ultimi spiacevoli avvenimenti che lo avevano visto, suo malgrado, protagonista. Neppure la felice carriera politica del figlio – prima podestà a Bergamo, poi a Brescia, quindi membro del Senato, che avrebbe finito successivamente addirittura con il far parte del Consiglio dei dieci – riuscì a rimarginare quelle che Sandi stesso continuava a ritenere gravi ferite inferte alla sua reputazione. A dispetto di tutto, però, il 28 novembre fu eletto avvocato fiscale della Serenissima Signoria (complessivamente erano due, con il compito di difendere gli interessi economico-finanziari dello Stato davanti a qualsiasi magistratura veneziana), mandato che esercitò con zelo e abnegazione sino alla morte.
Si spense per una patologia polmonare il 16 giugno 1784.
Per circa sessant’anni, dunque, rifuggendo sostanzialmente ogni occasione mondana offerta dalla vita pubblica, Sandi aveva diviso la propria esistenza tra il foro (le Corti di S. Marco e la Cancelleria ducale), le biblioteche e gli archivi, dove si era cimentato con l’analisi delle leggi e delle magistrature della Serenissima. Da un lato, famoso avvocato civile immerso nel dibattito giuridico del suo tempo, dall’altro giurista, erudito, storico.
In questo clima, preannunciata dal Prospetto di storia civile della Repubblica di Venezia, agile volumetto stampato in duplice edizione da Andrea Poletti in città nel 1752, va inquadrata l’opera principale di cui Sandi fu autore, i Principj di storia civile della Repubblica di Venezia dalla fondazione sino all’anno del N.S. 1700, editi sempre in laguna da Sebastian Coleti nel 1755-1756, in sei volumi, ripartiti in dodici libri, a loro volta suddivisi in capi e articoli.
Opera nuova, per quanto concerne l’impianto istituzionale, ma, proprio sotto il profilo storiografico, opera di retroguardia. A proposito dello stato del diritto e degli aspetti della sua possibile riforma, Sandi vi sostenne che aver sostanzialmente respinto la cultura giuridica che si fondava sul diritto romano, dal quale, pur con le sue peculiarità, il diritto veneto derivava, aveva nuociuto non solo al sistema giuridico in sé, ma a tutta la pubblica amministrazione della Serenissima. Dimostrava così di non saper cogliere uno degli aspetti centrali del diritto veneto stesso, e cioè il suo carattere consuetudinario e pragmatico, che rendeva quindi superflua, se non addirittura pretestuosa, tale riflessione. L’opera medesima era rivolta a una difesa dell’apparato costituzionale veneziano, la cui perfezione sarebbe derivata dalla giustezza del governo aristocratico. Quindi, se da un lato Sandi descrisse per centinaia di pagine le diverse magistrature, fornendo un quadro particolareggiato indispensabile per chiunque si avvicinasse allo studio del governo della Repubblica, dall’altro per lui l’esistente si configurava come il risultato di una millenaria saggezza e lungimiranza politica.
Probabilmente per la sentita necessità di portare a compimento quella che si configurava essenzialmente come la fatica di un’intera esistenza, Sandi pubblicò tre ulteriori volumi, per i tipi di Sebastian Coleti, tra il 1769 e il 1772, con il titolo Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dall’anno del N.S. 1700 sino all’anno 1767.
Questi volumi si caratterizzano per una consapevole indeterminatezza rispetto ai dibattiti culturali della seconda metà del secolo e, pur conformandosi allo schema di storia istituzionale dell’intera opera, hanno un taglio riassuntivo generale e più prettamente teorico. Da un certo punto di vista sembrano quasi lasciar trasparire quel malessere diffuso che, se ancora non faceva presagire la fine oramai prossima della Repubblica, certo indicava che le cose stavano rapidamente mutando. Eppure il modello istituzionale che Sandi presentava era per lui un modello completo, perché frutto di ciò che nei secoli la classe dirigente veneziana aveva prodotto di positivo e ammirevole: solo il recupero dei valori della tradizione politica di cui lo Stato marciano era il più fulgido degli esempi avrebbe assicurato la ripresa e il rafforzamento dello stesso; e tutto ciò doveva tradursi non in sterili esaltazioni del passato, ma in una rivitalizzazione culturale e istituzionale che avrebbe a sua volta interessato singoli aspetti dell’apparato veneziano, come appunto il sistema giuridico e normativo, senza stravolgerne l’impianto complessivo.
Due anni prima, nel 1767, era comparsa in laguna la traduzione della celebre storia della Repubblica dell’abate Marc-Antoine Laugier, in cui, pur utilizzandola (ma non citandola) per descrivere le magistrature veneziane, venivano messi in discussione i principi dell’opera sandiana relativi alla libertà, all’indipendenza e alla virtù del patriziato. La risposta di Sandi aveva trovato forma dapprima in un libello anonimo uscito dalla stamperia di Antonio Zatta nel 1769, Estratti della storia veneziana del sig. abb. Laugier ed osservazioni sopra gli stessi. Lo scritto era però stato subito fatto ritirare dagli Inquisitori di Stato perché costruito sullo scherno e sull’invettiva. La di poco successiva pubblicazione della continuazione della Storia civile rappresentò la migliore risposta alle posizioni di Laugier, proprio tramite la definitiva sistemazione, anche teorica, della storia veneziana, che Sandi aveva concepito ed elaborato.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea Codici, I, Storia veneta, 22: M. Barbaro, Arbori de’ Patritii Veneti, VI, c. 537; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni: studii storici, Venezia 1855, p. 191; G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani, Torino 1982, pp. 354 s.; F. Venturi, Settecento riformatore, V, 2, Torino 1990, pp. 3-12; F. Dalla Colletta, I Principi di Storia civile di Vettor Sandi. Diritto, istituzioni e storia nella Venezia del secondo Settecento, Venezia 1995, pp. 12, 18-21, 25-31, 46, 99, 109, 125, 263 s., 268 s., 272-274, 276 s.; C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano: Venezia e il suo stato territoriale (secoli XV-XVIII), in Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), a cura di I. Birocchi - A. Mattone, Roma 2006, p. 303; L. Rossetto, S. Vettor, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, a cura di I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, p. 1783.