GRIMANI CALERGI, Vettor
Primogenito di Vincenzo Grimani (1588-1647) di Pietro e di Marina di Vettor Calergi, nacque a Venezia il 21 sett. 1610.
Dei Grimani di S. Maria Formosa il padre - che sarà podestà di Vicenza nel 1617-18 e, nel 1626, revisor e regolatore sopra i Dazi -, sposando, il 27 genn. 1609, l'unica erede di Vettor Calergi, si insedia nello splendido palazzo a S. Marcuola (palazzo Loredan - Vendramin - Calergi) da questo acquistato ancora nel 1598, e dà inizio al ramo dei Grimani Calergi. Numerosa la prole frutto dell'unione. Ben otto le sorelle del G., di cui cinque risultano destinate al velo, e tre saranno accasate: Maria, nel 1639, con Nicolò Vendramin; Canciana, nel 1648, con Leonardo Dolfin; Cornelia, nel 1654, con Alvise Zorzi. E tre i fratelli: Antonio (1626-47); Pietro (1628-86), che risulta bandito due volte; Giovanni (1629-64). Quest'ultimo, bandito anch'egli una volta, sarà giudice del Cattaver e, sposando, il 30 apr. 1650, Maria di Francesco Loredan, garantirà la discendenza.
Assegnato, invece, il G. alla carriera ecclesiastica che - non assumendo egli gli ordini maggiori - da un lato si traduce in una sorta di licenza allo scapolato più scapestrato, dall'altro si riduce a mera caccia beneficiaria. Vanificata, nel 1628, la rinuncia, a suo vantaggio, da parte del morente prozio paterno Antonio Grimani, della commenda del priorato di S. Michele di Corniolo, nel Bresciano, perché non convalidata dal riconoscimento romano; e ci metterà pronte le mani il neocardinale Antonio Barberini. Commendatario, in compenso, il G., subentrando al defunto Agostino Morosini, dell'abbazia di S. Gallo a Moggio in Friuli, il 22 sett. 1629 nonché, il 28 sett. 1630, di quella di S. Pietro a Ossero nel golfo del Quarnaro, di cui era titolare il patriarca d'Aquileia Agostino Gradenigo, morto il 25. Con il che il G. è abate dell'una e dell'altra. Si aggiunge - in virtù della rinuncia di Antonio Grimani di Vittore, un cugino di suo padre che, accasandosi, non può mantenere il beneficio - alla fine del 1637 o, al più tardi, all'inizio del 1638, una terza commenda, quella dell'abbazia di S. Maria di Rosazzo in Friuli. E, infine, questa volta per rinuncia di Pietro Contarini, sempre nel 1638, ancora commendatario il G. dell'abbazia veronese di S. Zeno, grazie all'accordo, stipulato il 25 settembre, con il quale accettò le pesanti condizioni volute dal cardinale Francesco Barberini. Fiducioso questi in un G. regolare pagatore delle proprie annue spettanze, a costo di deludere le aspettative di Pietro Ottoboni anch'egli aspirante alla medesima commenda, di questa sua scelta avrà presto di che pentirsi. Di per sé gravate da pensioni spettanti ai fratelli Barberini, i cardinali Francesco e Antonio, almeno tre delle commende finora accumulate dal Grimani. Al primo competono, per quella di S. Zenone, 4050 ducati l'anno; al secondo 1350 per quella di S. Zeno e altri 1500 per quelle di Moggio e di Ossero. Tenuto, dunque, il G. al versamento annuo ai due di 6900 ducati.
Solo che all'impegno si sottrae con sistematica impudenza, con imperturbabile arroganza, con sfrontata ostinazione. Tant'è spietato nello spremere - anche con "prepotenza" e "violenza" - dalle proprie abbazie l'"humanamente" ottenibile ed estorcibile, altrettanto è sordo alle richieste e proteste anche del "creditore" più potente. "Più duro d'un macigno" il G. le fronteggia impavido, inamovibile dall'insolvenza dalla quale i due Barberini, ancorché il "serenissimo principe" riconosca le loro ragioni, vanamente, lungo il corso degli anni, tentano di scalzarlo.
Riprovevole, certo, l'ostinato rifiuto del G. a corrispondere le pensioni ai Barberini, ma anche spiegabile nel quadro della crisi generale del sistema commendatizio giunto ormai al collasso per l'eccessivo carico pensionistico cui viene sottoposto. Pressoché azzerata la rendita del commendatario se questa è pignorata dal pensionario. E da valutare il cardinale Barberini - che ha voluto, previa sottoscrizione di un patto iugolatorio, il G. abate di S. Zeno - non tanto quale parte lesa, quanto, piuttosto, quale ingordo faccendiere che, puntando sul G., ha sbagliato, una volta tanto, il calcolo; e in certo qual modo si è messo in affari con un furfante, via via trapassato dalla ribalderia alla delinquenza e quindi pervenuto a ogni "eccesso di temerità e sprezzo della giustizia". Va da sé che se questa - la giustizia veneta - non riesce a domare e a punire un G. "avezzo alle tirannidi et alle violenze", ancor meno da Roma il cardinale Barberini può costringerlo alla regolare corresponsione delle pensioni che pretende. Sin colpa trascurabile il debito del G. con i Barberini rispetto al suo truculento spadroneggiare circondato da bravi e da bulli nei confronti del quale la Repubblica - ancorché deprecante e condannante - sembra quasi paralizzata, sin intimidita dal piccolo esercito di "malviventi et sicari d'ogni nacione" a capo del quale il G. protervo imperversa.
Ferito gravemente da archibugiate sparate dai suoi bravi, il 10 genn. 1646, Gian Maria Zoia, il capitano delle barche che aveva sequestrato farina di contrabbando a lui destinata. Severo, a tutta prima, con lui il Consiglio dei dieci condannandolo al bando perpetuo. Il G. ripara in terra gonzaghesca, forte della protezione dello stesso duca di Mantova Carlo II Gonzaga Nevers, dove gode di libertà di movimenti e donde può ordire mascalzonate. Momentaneamente presa stanza a Ostiglia, è qui che, nell'agosto del 1648, i suoi uomini conducono, dopo averlo prelevato a San Pietro in Valle nel Veronese, il latore di ducali disponenti un sequestro a istanza d'un suo creditore. E il G., fattesi consegnare le lettere, praticamente tiene prigioniero il poveretto. E, poiché questo scappa, lo denuncia come ladro sicché viene arrestato dagli sbirri del duca. E rimarrà un bel pezzo in prigione prima di poter dimostrare la propria innocenza. E, intanto, il G. torna a Venezia, liberato dal bando in virtù dell'offerta di versare l'equivalente per il mantenimento al campo, per un mese, di 200 fanti. L'offerta è accolta: è in corso la guerra di Candia e la Repubblica transige con il G. pur di mobilitare risorse. Vi passa, come proclamerà egli stesso rozzamente verseggiando, il tempo, a tal fine impiegando i suoi "bezzi", andando a donne.
Si incapriccia di Anna Maria Santelli, una commediante dai molti protettori, al punto da pretendere l'esclusiva delle sue grazie prezzolate. Ma a tanto la donna non è disposta. Sicché il G. si rode di gelosia e di smania vendicativa. Sparata, la notte del 30 maggio 1651, da una barca con dentro suoi bravi, un'"archibugiata" contro l'infedele mentre, a casa sua, presso palazzo Balbi, si intrattiene "al fresco" con un suo corteggiatore, in un "pergolo sul Canal Grande", che la coglie di striscio, sfregiandola. E bastonato, il 4 giugno, da un bravo del G. Alvise Morosini, un nobile ritardato di mente che l'abate si divertiva a schernire.
Severo, questa volta, con il G. il Consiglio dei dieci - al quale egli stesso si è presentato convinto di sortirne con una semplice ramanzina - allorché, con sua sorpresa e dispetto, lo condanna a cinque anni di carcere. Poco ci rimane, perché la sera stessa un manipolo di bravi capeggiati dai suoi fratelli Pietro e Giovanni, sbarcato al ponte della Paglia, muove all'assalto delle carceri, sbaraglia le guardie, colpendo con "ferite mortali" il loro capitano e libera il Grimani. Una clamorosa evasione la sua, una "premeditata e temeraria fuga con terrore di tutti", con "sprezzo" dei decreti del Consiglio dei dieci, con vilipendio della "maestà del principe", con "scandalo et pessimo esempio" per la città tutta. Di per sé meritevole del taglio della testa il G., inseguito da un bando che promette 4000 ducati a chi l'uccida in terra veneta e 2000 a chi l'elimini in terra aliena.
Lungi dal vivere tremando nascosto in qualche luogo remoto l'abate gode di un'impunità di fatto se, di lì a qualche mese, può tentare, a Venezia, di ridurre alle proprie voglie Elena Bassanello, una brava ragazza di buona famiglia, che di lui non vuol saperne. E pur di sfuggirgli si nasconde. Costretta con la tortura, il 30 giugno 1652, una sua serva a rivelare che è riparata presso il conte Demetrio Santi, la cui casa, ai Ss. Apostoli, viene subito assaltata dai bravi del G., respinti, però, con energico coraggio dal protettore della giovane.
Di nuovo indignato il Consiglio dei dieci fulmina contro il G., il 12 agosto, un altro bando capitale, tanto roboante quanto inefficiente se il destinatario nelle ribalderie prosegue. Suo uomo quel Silvestro Palazzi, mercante abitante a S. Felice, cui, all'inizio di febbraio del 1653, vengono sequestrate "robbe" di "contrabando"; e uomini del G. pure i due bravacci che, con la violenza, "alla riva del magistrato ove la robba era stata condotta", se la riprendono consegnandola al Grimani. Altro bando, il 7 marzo, dei Dieci, con implicita ammissione che gli antecedenti non sono valsi a nulla. Il G. si limita a sparire per un po', in attesa di tornar "in gratia" - è così che verseggia trivialmente protervo - dei "bechi fotui", i Dieci, che, ogni tanto, osano bandirlo. Mere grida senza volontà di esecuzione i decreti contro di lui dei Dieci. E basta l'impegno al mantenimento di 80 fanti per un mese perché, il 20 marzo 1654, egli ritorni tranquillamente a Venezia.
Sua abitudine frequentare il teatro - di cui è uno dei proprietari - dei Ss. Giovanni e Paolo dove litiga per il possesso di un palco con Francesco Querini Stampalia, al pari di lui prepotente, al pari di lui a capo di squadracce di bravi: preoccupante, per il Consiglio dei dieci, la contesa che si estende alle famiglie di entrambi. E costretti a rimanere in casa - sorta d'arresto domiciliare - sia il G., l'abate "bulo", sia il rivale. Ma subito infranto il domicilio coatto dal G. che, il 20 genn. 1656, presenzia, al solito accompagnato da armati, alla rappresentazione, nel teatro dei Ss. Giovanni e Paolo, della Statira, principessa di Persia, un testo di G.F. Busenello musicato dal Cavalli (P.F. Caletti). Sin pavidi i Dieci assolvendolo dell'infrazione minimizzata a scappatella. E però sempre più preoccupati gli stessi di un dissidio che non si compone nemmeno con il ricorso ad arbitri designati dalle due famiglie.
Nel frattempo il G., per qualche mese, si è trasferito nella zona di S. Polo: quel tanto che basta per atterrire, con l'"assoluta patronia" esercitata tramite i "tanti" suoi "infamissimi sicari", l'intera "contrada", come denuncia, il 15 genn. 1657, agli inquisitori di Stato un anonimo (evidentemente non a caso: l'anonimo non è dei "molti che si consolano dicendo che la cosa non durerà" perché il Consiglio dei dieci "la remedierà"; ed appare evidente che, così facendo, critica l'organo che non fa il suo dovere); e sbranato da un cane del G. un "povero cuoco" subito è "sepellito", sì da farne sparire il cadavere.
Non resta ormai che ingiungere a Francesco Querini Stampalia e a suo fratello Paolo la partenza per Zara e al G. e ai suoi fratelli quella per Corfù. Imbarcato, in effetti, l'8 marzo 1657 per l'isola, il G. con questi: ma da Corfù ben presto rientrato alla chetichella se, il 15 genn. 1659, assiste, nel teatro dei Ss. Giovanni e Paolo, alle prove della Costanza di Rosmonda, un melodramma (di Aurelio Aureli il libretto e la musica di Giovan Battista Rovettino) dedicato allo stesso Grimani.
A vuoto - quando rientra - un maldestro agguato contro di lui e i fratelli improvvisato da Francesco Querini Stampalia, sorpreso, mentre i suoi bravi fuggono, dagli uomini del G. e condotto da questi alla sua presenza. Viene trucidato, vien "con moltissime archibuggiate interfetto". E subito il G. e i fratelli riparano nel Mantovano, mentre, il 20 gennaio, il bando dei Dieci promette agli eventuali uccisori dell'abate 6000 ducati se in terra veneta e 4000 se in Stato altrui. Confiscati i beni, bollata con il s. Marco in pietra la porta del palazzo, spianata la dilatazione sulla sinistra ideata da V. Scamozzi, ossia la cosiddetta "casa bianca", che dà sul giardino, luogo del delitto ed eretta una colonna infame al suo posto. Lo Stato pare intenzionato a calare sui tre veramente la spada della giustizia. Ma non intimiditi il G. e i suoi fratelli se il 7 luglio sbarcano, in pompa magna a Guarda Veneta, nel Rodigino, si sistemano per un mese in una loro casa - evidentemente la confisca è rimasta sulla carta -, mentre i rettori tremebondi si limitano ad avvisare che sono comparsi. E solo quando ripartono, arriva, il giorno dopo, il 7 agosto, un avogador di Comun designato dal Consiglio dei dieci all'inchiesta.
Imprendibili il G. e i due fratelli e incriminati, in compenso, il loro massaro, il loro fattore, il loro gastaldo, un ebreo, il rettore della chiesa, un consigliere comunale, perché non si sono opposti, perché non hanno fatto suonare le campane a stormo, perché non hanno denunciato la clandestina (sino a un certo punto: tutto il Polesine sapeva dello sbarco da una sorta di fastoso bucintoro) comparsa.
La sensazione è quella di una giustizia impotente con la prepotenza criminale del G. e, in compenso, arcigna con dei poveracci. Colpiti costoro dal bando perpetuo, il 5 settembre, dal Consiglio dei dieci in seguito al rapporto dell'avogador; e per il G. rinnovata la sentenza di bando capitale. E, intanto, mobilitate, a Venezia, le aderenze e le influenze di cui gode a farla mitigare, a farla revocare. E non mancano, in seno al patriziato, non solo i propensi all'indulgenza, ma chi ritiene il G. vittima di eccessiva severità, quasi gli si sia fatto "torto". E sin calamitante simpatia il suo impegnarsi - se perdonato e riaccolto - al versamento di 7000 ducati a mantenere per un mese un contingente armato. A suo vantaggio pure la pressione intimidatoria: Leonardo Pasqualigo - nel Consiglio dei dieci "principal cagione" della "spiantazione" del luogo del delitto - "vive", così una relazione anonima sul patriziato del tempo, "con gran timore" di "qualche affronto" promosso dal Grimani.
Al G. non basta vivere indisturbato nel Mantovano. Per tutto il 1660 preme e fa premere per il rientro proprio e dei due fratelli. E questo viene concesso dal Maggior Consiglio il 7 giugno 1661. Ed espresso in versi l'"applauso […] di Venetia per la gloriosa liberatione" dei tre. Recuperati i beni temporaneamente confiscati. Tolto il marchiante s. Marco dalla porta del palazzo. Distrutta la colonna infamante. Aggiunta un'ala al palazzo a sostituzione di quella atterrata. E tornato a vivere nel suo "riguardevole palazzo", ricco di "ornamenti pretiosi", di quadri di pregio, tra cui - a detta della sansoviniana guida aggiornata - una tizianesca Fuga in Egitto, torna a delinquere, questa volta nel chiuso delle pareti domestiche. È troppo malandato di salute, infatti, per incattivire fuori. Sorpresa in flagrante adulterio la cognata Maria Loredan, nell'aprile del 1663, nella chiesa di S. Giobbe, dove è solita incontrarsi con un giovane nobile. Questi scappa. La donna viene rinchiusa nel palazzo e fatta morire - lentamente - di veleno. È così che decide il G. sì che la sventurata cessa di vivere - dopo che, per 20 giorni, il tossico le viene propinato - come per naturale consunzione, "dilaniata da febre continua et infiammation interna".
Quanto al G., malgrado a rimetterlo in salute si adoperino tre medici, finisce, il 25 ott. 1665, i suoi giorni a Venezia, consunto dal "mal marasmo freddo", ossia senza febbre.
Fonti e Bibl.: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare…, a cura di L. Moretti, Venezia 1968, s.v.; G. Tassini, Curiosità veneziane…, a cura di L. Moretti, Venezia 1970, s.v.; A. Livingston, Un'archibugiata del bulo V. G.C.…, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XIV (1914), pp. 416-424; P. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, pp. 374-376; A. Da Mosto, I bravi di Venezia, Milano 1950, pp. 95-121; G. Benzoni, Per un profilo dei Querini Stampalia…, in I Querini Stampalia…, a cura di G. Busetto - M. Gambier, Venezia 1987, p. 35; A. Zorzi, I palazzi veneziani, Udine 1989, s.v.; A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche…, Bologna 1993, s.v.; Id., Fortuna e sfortuna di una famiglia veneziana…, Venezia 1996, s.v.; A. Pizzati, Commende e politica ecclesiastica nella Repubblica di Venezia…, Venezia 1997, sub voce.