Vespri siciliani
siciliani. La rivolta dei V., nella quale prima la popolazione di Palermo, poi tutti i Siciliani sfogarono violentemente contro i Francesi un odio a lungo compresso, portò alla lotta tra Angioini e Aragonesi per il possesso dell'isola: la conclusione di tale lotta segnò la separazione della Sicilia dal regno continentale, motivo non ultimo della futura decadenza di ambedue, e la nascita della potenza mediterranea della Spagna.
Il 30 marzo 1282, per l'oltraggio di un soldato francese a una giovane sposa, tutta Palermo si scatenò nella caccia ai Francesi: nella sollevazione, che ben presto si estese all'intera Sicilia, esplose il malcontento accumulato per una serie di motivi (insaziabile fiscalismo di Carlo d'Angiò, prepotenze dei feudatari francesi, trasferimento della capitale del regno da Palermo a Napoli) che formavano il quadro di un malgoverno non solo oppressivo, ma offensivo, specie in confronto con la passata grandezza sotto gli Svevi. La vita della " communitas Siciliae " posta sotto la protezione del papa Martino IV, che nacque dalla rivolta, fu breve: i Siciliani chiamarono dopo quattro mesi in loro aiuto Pietro III d'Aragona che, avendo sposato Costanza figlia di Manfredi (cfr. Pg III 115-116), poteva rivendicare i diritti degli Svevi, e aveva accolto presso di sé gli esuli fuggiti dal regno in odio a Carlo. La guerra tra gli Aragonesi e gli Angioini appoggiati da tutte le forze guelfe si protrasse per venti anni attraverso vari episodi, tra i quali la battaglia del golfo di Napoli (5 giugno 1284) nella quale Carlo lo Zoppo, sconfitto da Ruggero di Lauria, uscì preso di nave (Pg XX 79), e si concluse con la pace di Caltabellotta (1302) che riconobbe a Federico d'Aragona il titolo - vitalizio, poi passato agli eredi - di " re di Trinacria ".
Un avvenimento di tale portata nella storia dell'Italia a lui contemporanea non poteva non richiamare l'attenzione di D., e non ricevere da lui la definizione più famosa (Pd VIII 73-75 se mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggelli, non avesse / mosso Palermo a gridar: " Mora, mora! "). La considerazione dei V. risulta da un esplicito giudizio negativo sul malgoverno angioino, più volte condannato severamente da D. in Carlo e nei suoi successori (cfr. Pg VII 124 ss., XX 61 ss.; Pd VI 106 ss., VIII 49 ss., IX 1 ss., XIX 127 ss., XX 63; Cv IV VI 20; VE I XII 5); si è voluto anche scorgere nell'atteggiamento di D. una certa forma di distacco dal carattere popolare e cruento della sollevazione, che avrebbe dovuto ripugnare a un temperamento come quello di Dante.
Certo nell'ambito del severo discorso di Carlo Martello e, più in generale, della costante polemica antiangioina, è la mala segnoria ad essere sottolineata; e nell'accentuazione polemica della cupidigia di Carlo la sommossa palermitana trova una qualche giustificazione, sul piano di un'umana comprensione più che di una legittimazione teorica, anche se la definizione del cattivo governo che sempre accora / li popoli suggelli dà al passo un tono di considerazione universale.
D'altronde il grido " Mora, mora! ", che troviamo in tutte le cronache dei V. (cfr. anche l'espressione dantesca in Vn XV 5 8 le pietre par che gridin: Moia, moia), anche in forza di questa sua costante ripetizione assurge quasi a simbolo della violenza popolare, conservando un'intatta carica drammatica.
A D. non sfugge infine il significato più profondo dei V., che nel discorso di Carlo Martello sono indicati come la causa dello smembramento del regno meridionale: con la tirannide di Carlo d'Angiò, con la rivolta palermitana e la guerra che ne seguì è cancellato definitivamente quel legame sostanziale della Sicilia al continente che, misteriosamente spezzata l'originaria unità geografica tra il Peloro e gli Appennini (Pg XIV 32), si era mantenuto almeno nell'unità della corona angioina.
La terzina dantesca è ricordata dall'Amari (II 223) come riflettente " la tradizione genuina del fatto ", a sostegno della sua interpretazione ‛ popolare ' e ‛ siciliana ' dei Vespri. Ma va ricordato che D. non si distacca dalle narrazioni a lui contemporanee, nelle quali coesistono senza difficoltà le complicate trattative di Giovanni da Procida e l'esplosione cruenta della rabbia palermitana, se in If XIX 98-99 egli sembra accettare l'ipotesi, o leggenda, della congiura baronale quando accusa Nicolò III di aver ricevuto da Giovanni da Procida oro bizantino, perché appoggiasse le sue manovre antiangioine. Sembra certo che così debba intendersi l'accenno alla mal tolta moneta / ch'esser ti fece contra Carlo ardito (vv. 98-99), incomprensibile se le parole di D. si riferissero all'indebita appropriazione delle decime e delle entrate ecclesiastiche. Basta dunque ammettere, senza tentare di attribuire a D. una coerenza di ricostruzione politico-storica che non gli compete, che egli prestò orecchio a una voce corrente al suo tempo che gli serviva per condannare quel papa. Tali incongruenze, se d'incongruenze si deve parlare (anche la storiografia moderna ammette la correlazione tra il carattere spontaneo dei V. e l'esistenza di larghe trame), evidenziano soltanto la pronta attitudine di D. a raccogliere tutte le informazioni che potevano risultargli utili, anche le più disparate.
Bibl. - Tutte le cronache nel cui ambito cronologico rientra l'anno 1282 espongono gli avvenimenti del V.; per l'ambiente fiorentino si ricordano: R. Malispini, Historia Fiorentina, Firenze 1816, 223; G. Villani, Cronica, Trieste 1857, l. VII, capp. 57-75; B. Latini, Il Tesoro, volgarizzato da Bono Giamboni, a c. di L. Gaiter, Bologna 1878-1833, 105-158; inoltre: Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula, a c. di G. Paladino, in Rer. Ital. Script.², XIII 3, Bologna 1921-22, 12; Due cronache del V. in volgare siciliano del sec. XIII, a c. di E. Sicardi, in Rer. Ital. Script.², XXXIV 1, Bologna 1935. Per la storiografia sull'argomento, delle moltissime opere dedicate ai V., si veda: M. Amari, La guerra del V. S., a c. di F. Giunta, Palermo 1969; O. Cartellieri, Peter von Aragon und die S. V., Heidelberg 1904; S. Runciman, The Sicilian Vespers. A history of the mediterranean world in the later thirteenth century, Cambridge 1958; G. Pistorio, Nuovi documenti sul V., Palermo 1969. Rassegne storiografiche sono in E. Dupré Theseider, Alcuni aspetti della questione del " V. ", in Annuario dell'Università di Messina, Messina 1954; I. Peri, Studi e problemi di storia siciliana, Firenze 1959, 23-33; S. TraMontana, Di alcune recenti pubblicazioni sulla storia di Sicilia dal V. ai Martini, in " Nuova Riv. Stor. " XLVIII (1964) 369-384; F. Giunta, La questione del V. dopo Amari, in appendice all'ediz. cit. dell'Amari, II 543-560.
Considerazioni su D. e i V. S. si leggono in tutti gli studi sulla Sicilia, gli Angioini, ecc. nella Commedia; in particolare: F. Torraca, Il Regno di Sicilia nelle opere di D., in Studi danteschi, Napoli 1912, 372; A. Pézard, Il canto VIII del Paradiso, in Lett. dant. 1493; A. Tanzarella, D. e gli Angioini, in " Arch. Stor. Pugliese " XVI (1963) 153; D. Di Sacco, Storia e miti della Sicilia nella Commedia di D., in " Nuovi Quaderni del Meridione " III 9 (1965) 33-34; P. Brezzi, D. e gli Angioini, in D. e l'Italia meridionale. Atti del Convegno Nazionale di Studi danteschi, Firenze 1966, 152; F. Giunta, D. e i sovrani di Sicilia, in " Boll. Centro Studi Filol. e Ling. Siciliani " X (1969) 41.