VESPASIANO, Tito Flavio (T. Flavius Vespasianus), imperatore romano
Nacque nella Sabina presso Rieti il 17 novembre del 9 d. C. da Flavio Sabino e Vespasia Polla. Sposò Flavia Domitilla che gli diede Tito, Domiziano e Domitilla.
Era di origini modeste: il nonno paterno era stato centurione o evocato e poi esattore, il padre ricevitore dell'imposta doganale in Asia Minore e banchiere presso gli Elvezî; migliore la famiglia della madre che vantava un senatore. Della sua educazione si occupò a Cosa la nonna Tertulla. Fu tribuno militare nella Tracia; questore nella provincia di Creta e Cirene. Sotto Caligola fu edile e pretore e si schierò apertamente dalla parte dell'imperatore nel conflitto tra questo e il Senato. Sotto Claudio fu legato della legione II Augusta sul Reno nel 42 e dal 43 fino a circa il 47 nella Britannia, dove condusse la sua legione di vittoria in vittoria, sottomettendo due fortissime popolazioni e l'isola di Wight; per questo ricevette gli ornamenta triumphalia. Nel novembre e dicembre del 51 fu console suffetto. Il periodo fino al proconsolato lo trascorse nell'ozio e nel ritiro, perché, essendo stato protetto da Narcisso, temeva l'odio di Agrippina. Esercitò il proconsolato d'Africa con severità e grande integrità, tanto che dopo fu costretto a ipotecare al fratello tutti i suoi possessi e a fare il mercante di schiavi per mantenere il rango. Nel 66, mentre era in Grecia al seguito di Nerone, cadde in disgrazia, perché si era allontanato o addormentato mentre l'imperatore cantava (non è chiaro se questo fosse avvenuto già prima a Roma). Bandito dalla corte, si ritirò in una piccola città fuori di mano. Ma la situazione gravissima nella Giudea indusse Nerone ad affidare il compito di soffocare la ribellione giudaica a V. che aveva le qualità adatte e non destava preoccupazioni, dati i suoi umili natali. V., inviato avanti quale legato legionario il figlio Tito, si recò per via di terra ad Antiochia e poi a Tolemaide, dove si incontrò con Tito e operò il concentramento di tutto il suo esercito, che comprendeva le legioni V Macedonica, X Fretensis, XV Apollinaris e con le milizie ausiliarie e i contingenti dei re asiatici ammontava a una forza di circa 60.000 uomini. Ristabilita la disciplina, V., riuscito vano il suo tentativo di indurre i Giudei a rinunziare alla resistenza, iniziò la sottomissione della Galilea. Questa fu compiuta con la campagna del 67 che ebbe due fasi, i cui episodî culminanti furono nella prima l'espugnazione, dopo lungo assedio durante il quale V. fu ferito, di Jotapata (il condottiero nemico Giuseppe, il futuro storico, caduto prigioniero profetò a V. l'impero), nella seconda la conquista di Tarichea, di Giscala e soprattutto di Gamala. Nel 67 inoltre con l'occupazione della costa V. tagliava Gerusalemme dal mare. Trascorso l'inverno dal 67 al 68 nell'amministrazione del territorio e nell'addestramento dell'esercito, V. non ritenne opportuno muovere senz'altro all'attacco di Gerusalemme, come suggerivano i suoi ufficiali, ma volle lasciar produrre i suoi effetti alla guerra civile scoppiata nella città e sottomettere prima il resto del territorio attorno alla capitale nemica. Occupò quindi la Perea, la Samaria, l'Idumea, stringendo Gerusalemme in un cerchio d'armi. A Cesarea si preparava poi all'attacco finale contro Gerusalemme, quando la notizia del suicidio di Nerone lo indusse a sospendere le operazioni in attesa degli eventi. Solo nel giugno del 69 vi fu una ripresa di attività con una spedizione diretta a ristabilire l'ordine nei dintorni di Gerusalemme, ma la guerra in sostanza fu interrotta dalle complicazioni politiche. Durante la grande crisi che travagliò l'impero dopo la morte di Nerone l'atteggiamento di V., esteriormente sempre uguale, nell'intimo non dovette essere lo stesso. La fedeltà giurata a Galba si può ritenere sincera; egli avrebbe voluto dimostrargli il suo omaggio a fors'anche stringersi a lui con più forti legami mediante l'invio di Tito, il quale però non giunse a tempo. Anche ad Otone e poi a Vitellio egli fece prestare giuramento ai suoi soldati, ma è lecito pensare che allora fosse ormai in attuazione il piano che doveva portarlo al potere supremo. Uno degli autori principali della trama fu il governatore della Siria, C. Licinio Muciano, che, intermediario efficace Tito, abbandonata l'antica inimicizia, aveva stretto buoni rapporti con V. e rinunciato all'impero in favore di lui sperando di divenirne l'onnipotente collaboratore. Muciano soprattutto, secondo la tradizione, avrebbe vinto l'indecisione di V., ma quella di V. più che irresolutezza fu la condotta di un uomo che, in conformità al suo carattere, procedeva con cautela, ben misurando le difficoltà dell'impresa. Alla sua elevazione all'impero contribuirono anche le profezie e i presagi, che da una parte dovettero influire sull'animo stesso di V., dall'altra formarono parte della propaganda in favore dell'uomo presentato come il salvatore dell'impero voluto dagli dei. La proclamazione avvenne prima in Egitto, il cui prefetto Ti. Giulio Alessandro il 1° luglio 69 fece giurare fedeltà a V. alle sue legioni. Le seguirono quelle di Giudea il 3 e prima del 15 anche l'esercito di Siria. V. ebbe tosto assicurazioni dell'appoggio di tutte le provincie asiatiche e dei re vassalli d'Oriente. Egli tenne con Muciano a Berytus il consiglio di guerra, dove si stabilirono le misure militari e finanziarie per la guerra civile. Ambascerie furono inviate ai Parti e agli Armeni per garantire le spalle da pericoli. V. decise di recarsi in Egitto per tenere Roma sotto la minaccia della fame col controllo del suo principale granaio, Muciano si assunse il compito di abbattere Vitellio e partì alla volta dell'Occidente con la legione VI Ferrata e 13.000 uomini delle altre unità. Intanto alla notizia della proclamazione di V. si dichiararono per lui le 3 legioni di Mesia, seguite subito dalle 2 di Pannonia e poi da quella di Dalmazia. Nel consiglio di guerra tenuto a Pettau Antonio Primo, legato della VII Gemina, fece decidere l'offensiva senza che si aspettasse l'arrivo di Muciano. Il comandante dell'esercito vitelliano nell'Italia settentrionale, Cecina, cercò di far defezionare le sue truppe, come aveva fatto la flotta di Ravenna, ma fu imprigionato dai suoi soldati, che però furono sconfitti da Antonio Primo davanti a Cremona; la città fu saccheggiata e incendiata (fine ottobre 69). La disfatta di Cremona fu decisiva per Vitellio: le legioni della Spagna, una di Britannia e la flotta di Miseno passarono a V. L'ultima resistenza fu fatta a Roma dai pretoriani, che resero vano il tentativo del prefetto dell'Urbe Flavio Sabino, fratello di V., di far abdicare Vitellio e, infuriati, assalirono il Campidoglio, dove Sabino si era rifugiato con Domiziano, lo espugnarono e uccisero Sabino, mentre Domiziano si salvò a stento; durante la lotta il tempio di Giove andò in fiamme. Ma la sorte di Vitellio era ormai decisa: Antonio Primo, accorso a marcie forzate, occupò Roma, vincendo l'accanita resistenza dei pretoriani. Vitellio fu ucciso (20 dicembre). Il 22 dicembre il Senato riconobbe V. come imperatore.
Muciano, arrivato a Roma, assunta la direzione effettiva del governo, nominalmente tenuto dal Cesare Domiziano, procedette senza riguardi contro i vitelliani e mise a poco a poco in disparte quelli dei condottieri flaviani che potevano essere pericolosi per il nuovo regime, primo fra tutti Antonio Primo. Muciano provvide efficacemente a ristabilire la situazione divenuta grave sul Reno e nella Gallia in seguito alla ribellione dei Batavi provocata nel 69 da Giulio Civile e alla sua estensione nel 70 fra i popoli gallici che dette origine all'effimero impero delle Gallie di Giulio Classico, Giulio Tutore e Giulio Sabino. Furono inviati contro i ribelli Petilio Ceriale e Annio Gallo alla testa di 8 legioni. Ceriale, vittorioso in due battaglie, costrinse Civile a capitolare e ristabilì pienamente la signoria romana alla fine del 70. Nello stesso 70 Tito vibrava il colpo mortale alla rivolta giudaica con la conquista e la distruzione di Gerusalemme. V., che si era trattenuto in Egitto anche perché aveva dapprima l'intenzione di ritornare insieme a Tito dopo la caduta di Gerusalemme, rinunciato al proposito, giunse a Roma verso l'ottobre e si dette tutto alla ricostruzione dell'impero. La riedificazione del tempio di Giove Capitolino, che fu tra le sue prime cure, era anche simbolica e rientrava, come l'esaltazione sulle monete dell'eternità del popolo romano, nell'opera di rinnovamento della fiducia nella potenza di Roma, che fu tra i suoi compiti principali. V. era e voleva apparire il salvatore dell'impero romano, il campione della libertà cioè della genuina costituzione dell'impero, il restauratore della pace. E il ristabilimento della pace nel mondo romano fu solennizzato nel 71 con il trionfo che V. celebrò insieme a Tito, con la chiusura del tempio di Giano, con l'inizio della costruzione del tempio della Pace. Per ricostruire il mirabile edificio dell'impero, scosso dalle fondamenta dalla guerra civile, era necessario ridare forza e autorità al potere imperiale. Per questo V., che pur doveva il potere alle legioni e continuò a riconoscerlo datando il suo dies imperii dal 1° luglio 69, si propose anzitutto di ricondurre l'esercito alle sue naturali funzioni e riuscì a impedire che i soldati divenissero i padroni dello stato col dimostrarsi tutt'altro che incline a soddisfarne le richieste, col mantenere rigorosamente la disciplina, con la riduzione delle coorti pretoriane da 16 a 9, con la tendenza infine a reclutare le legioni fra i provinciali (non vi sono elementi sufficienti in favore della celebre teoria per cui avrebbe escluso gli Italici dalle legioni), utile espediente per ridurre il rischio che si ripetesse quanto era avvenuto nel 68 e nel 69. Nel risolvere il problema costituzionale V. seguì una politica di decisa reazione a quella di Nerone e si ispirò soprattutto ad Augusto: fra l'altro Imperator Caesar Vespasianus Augustus è evidentemente modellato su Imperator Caesar divi filius Augustus. Naturalmente però egli tenne conto delle mutate condizioni e dei nuovi bisogni dell'impero: quindi oltre al conferimento in blocco di tutte le funzioni precedentemente esercitate da Augusto, Tiberio e Claudio egli si fece dare nuove attribuzioni; la conseguenza fu che si trovò munito di poteri maggiori di quelli dei suoi predecessori e che la direzione del governo fu completamente nelle sue mani, tanto che si è parlato di assolutismo, definizione inesatta, come d'altra parte l'altra di monarchia costituzionale. V. volle non solo rafforzare il potere imperiale, ma assicurarne anche la continuità, per impedire che l'impero ricadesse in una crisi simile a quella che ne aveva minacciata l'esistenza; di qui la sua netta politica dinastica: ad eredi furono designati in primo luogo Tito, in secondo luogo Domiziano. Di Tito, che nel 71 ricevette la tribunicia potestas e l'imperium proconsulare, egli fece inoltre il suo collega nel governo, per quanto in posizione inferiore (Tito non fu Augusto, né ebbe ufficialmente il praenomen imperatoris); a lui affidò anche la prefettura del Pretorio. Per dare alla nuova dinastia quel prestigio di cui era priva, V. si valse del consolato, che rivestì quasi ininterrottamente (70-72, 74-77, 79), 7 volte insieme a Tito, mentre Domiziano fu console 6 volte. A consolidare il suo potere mirava anche la politica religiosa, in cui pure è evidente l'ispirazione al modello augusteo nel culto della Pace della Vittoria, nella personificazione delle altre qualità, come Providentia, Aeternitas, Salus, considerate quali attributi dell'imperatore. Verso il Senato V., seguendo Augusto, si mostrò pieno di riguardi, volle guadagnarsene il rispetto e la collaborazione, non già imporsi ad esso con la violenza. Ritenne però necessario per sé e per il bene dello stato sottoporre l'alta assemblea a un processo di rinnovamento: ne espulse gli indegni, vi introdusse membri a lui devoti e infuse sangue sano nel corpo esausto e degenerato dell'aristocrazia senatoria, mediante l'adlectio di uomini meritevoli, anche provinciali, ma quasi esclusivamente delle provincie occidentali. Per questo, seguendo il precedente di Claudio, assunse nel 73 insieme a Tito la censura, magistratura di cui si valse per rinnovare inoltre l'ordine equestre. Egli si proponeva la rigenerazione della classe politica e che non fallisse nel suo disegno sta a dimostrarlo il grande beneficio che ne ricavò il governo dello stato anche nell'avvenire. Non meno benefica fu la sua attività in favore della romanizzazione e dell'urbanizzazione dell'impero soprattutto nell'Occidente: continuatore in tal campo della politica di Claudio, V. dette impulso al processo di assimilazione tra Roma e le provincie, col conferimento individuale del diritto di cittadinanza, con la concessione del diritto latino all'intera Spagna, con la fondazione di colonie e l'istituzione di municipî.
Fra i problemi più difficili che V. risolse fu indubbiamente quello finanziario. Egli calcolò a 40 miliardi di sesterzî la somma necessaria per assicurare la stabilità finanziaria dello stato. Per raccoglierla, non essendo sufficiente il fare economie, ricorse senza esitare alla tassazione, aumentando e qualche volta raddoppiando le imposte, ristabilendone alcune abolite, imponendone delle nuove; si occupò inoltre con molta cura delle proprietà pubbliche, riguadagnando allo stato terre illegalmente occupate e affrontò il problema dei subsiciva. I provvedimenti finanziarî, fra i quali vi fu pure la creazione di tre nuove casse (fiscus Alexandrinus, fiscus Asiaticus, fiscus Judaicus), gli procurarono critiche, satire e la cattiva fama di cupidigia e di avarizia, ma per la storia contano i fatti: il fine fu pienamente raggiunto; d'altra parte se egli era economo in ciò che lo riguardava era invece generoso quando si trattava dell'interesse dello stato: lo provano le grandi somme spese per la difesa e l'abbellimento dell'impero, le elargizioni a beneficio della cultura e dell'arte.
Di grande importanza l'opera di V. nel campo dell'amministrazione delle provincie. Non solo egli si preoccupò di nominare governatori che avessero le qualità adatte, ma introdusse cambiamenti notevoli nell'organizzazione provinciale. Alcuni furono dovuti a scopo fiscale, come l'assegnazione a provincie di Rodi, Samo, Bisanzio private della libertà; lo stesso avvenne della Licia che con la Pamfilia costituì una nuova provincia; per l'identica ragione la Grecia, perduta la libertà, fu sottoposta al Senato, mentre il territorio ben più ricco di Sardegna e Corsica diveniva provincia imperiale. Ma le misure principali ebbero uno scopo militare: nel 72 il re di Commagene Antioco IV fu deposto e il suo stato annesso alla Siria, la quale però perdette la Cilicia Campestris che con la Cilicia Aspera formò una provincia separata. A nord della Siria con l'unione della Cappadocia alla Galazia fu creata una grande provincia consolare, che comprese poi anche l'Armenia Minore; a sud della Siria la Giudea costituì provincia a sé. Tali mutamenti nell'amministrazione provinciale furono accompagnati da quelli di ordine militare per cui all'unico esercito di Siria con 4 legioni ne furono sostituiti 3, di Cappadocia, di Siria e di Giudea, con 6 legioni complessivamente. L'opera di V. in Oriente, completata con la costruzione di campi legionarî e con grandi lavori stradali, creò quella base su cui si appoggiò Traiano per le sue guerre di conquista, e qualche moderno più che a scopi difensivi la considera diretta a fini offensivi. Essa rientra ad ogni modo in quel programma generale di riorganizzazione dell'esercito e del sistema di difesa dei confini che fu tra i meriti non minori di V. Un profondo rimaneggiamento subì l'esercito del Reno: delle 7 legioni che lo formavano 4 (o 5?) furono abolite: per questo però non diminuì il totale generale delle legioni, perché V. conservò quelle istituite durante la guerra civile e ne creò delle altre, e tanto meno il numero delle legioni di Germania, che anzi furono portate a 8 come al tempo di Tiberio. I campi legionarî furono ricostruiti e rafforzati, i forti delle milizie ausiliarie costruiti in pietra o spostati, a sud di Magonza, sulla riva destra del Reno. Su questa riva la linea di difesa fu portata avanti, fino all'alto Neckar, nell'angolo compreso fra l'alto Reno e l'alto Danubio, mediante una spedizione militare condotta negli anni 73 e 74; una seconda operazione militare ebbe luogo sul basso Reno e terminò nel 78 con la sconfitta dei Bructeri. Sul Danubio fu rafforzato il sistema difensivo della Rezia e soprattutto della Mesia, continuamente minacciata da Daci e Sarmati (questi nel 70 sconfissero e uccisero il governatore Fonteio Agrippa, ma furono battuti e respinti dalla provincia dal successore Rubrio Gallo); la guarnigione della Mesia fu forse accresciuta da 3 a 4 legioni. In Britannia l'esercito fu di nuovo portato alla forza di 4 legioni posseduta fino al 67 e la conquista dell'isola, iniziata da Claudio, fu ripresa e vigorosamente proseguita dai legati Petilio Ceriale, che sottomise i Briganti, Frontino, che completò l'occupazione del Galles, Agricola, che sconfisse gli Ordovici e s'impadronì dell'isola di Mona, dimora dei Druidi.
Secondo una felice espressione di Svetonio, V. volle non solo dare stabilità allo stato, ma anche abbellirlo. A quest'ultimo scopo corrispose pienamente il grandioso programma edilizio, attuato principalmente a Roma. Come dell'impero, così dell'Urbe V. fu veramente il ricostruttore. Ampliò la linea del pomerio, uniformandola a quella della nuova cinta daziaria, regolarizzò il corso del Tevere, riattò strade, riparò acquedotti, riedificò il tempio del Divo Claudio, oltre a quello di Giove Capitolino, restaurò fra gli altri il tempio dell'Onore e della Virtù, la scena del teatro di Marcello e ornò la capitale di edifici degni della grandezza di Roma: lo splendido tempio della Pace, inaugurato nel 75, che si innalzava in mezzo a quello spazio circondato da un portico, poi chiamato Foro della Pace, e l'Anfiteatro Flavio, che è per noi il simbolo migliore della maiestas imperii (del Colosseo sembra però che egli costruisse solo i due primi ordini di arcate).
Nello svolgimento della sua grande e benefica attività V., oltre a essere minacciato da congiure, fu fatto segno all'ostilità di uomini inguaribilmente attaccati ad un passato definitivamente tramontato, come Elvidio Prisco, e di filosofi, principalmente cinici, banditori di teorie anarchiche. Non è assolutamente possibile un confronto tra questi individui capaci solo di un'azione sterile o dannosa e il grande imperatore a cui Roma fu debitrice della pace, dell'ordine, della sicurezza, della riacquistata fiducia nei suoi destini e in misura non piccola dell'età aurea della sua storia.
V. morì nella sua dimora estiva di Cutilia nella Sabina il 24 giugno 79; fino all'ultimo attese agli affari dello stato e nell'istante supremo si sforzò di alzarsi, esclamando "un imperatore deve morire in piedi".
Bibl.: Weynand, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie, VI, 1909, coll. 2623-2695 (con la bibl. precedente); W. Weber, Josephus und Vespasian, Stoccarda 1921; B. W. Henderson, Five Roman Emperors, Cambridge 1927, pp. 1 segg.; 68 segg.; C. Barbagallo, Roma antica, II, Torino 1932, pp. 476-513; L. Homo, Le Haut-Empire (nella Histoire générale del Glotz), Parigi 1933, pp. 320-370; E. Kornemann, in Einleitung in die Altertumswissenschaft, III, ii, Lipsia-Berlino 1933, pp. 71-74; M. Rostovzev, Storia econ. e soc. dell'Impero Romano (ed. ital.), Firenze 1933; passim; A. Ferrabino, L'Italia romana, Milano 1935, pp. 389 segg.; G. H. Stevenson, A. Momigliano, in Cambridge Ancient History, X (1934), pp. 827 segg., 858 segg.; M. P. Charlesworth, R. Syme, H. Last, ibid., XI (1936), pp. 1 segg., 131 segg., 393 segg. Per gli studî particolari si rimanda soprattutto alla bibl. dell'articolo del Weynand, dell'opera del Rostovzev e della Cambr. Anc. Hist.; vi si aggiungano, per il pomerio, P. Romanelli, in Notizie degli Scavi di Antichità, 1933, pp. 240-244 e G. Lugli, I monumenti antichi di Roma e suburbio, II, Roma 1934, pp. 94-97; per la politica religiosa, K. Scott, The Imperial Cult under the Flavians, Stoccarda-Berlino 1936, pp. 1-39.