versificazione
La versificazione è l’insieme di norme e consuetudini che presiedono alla produzione del verso, unità metrica fondamentale tanto nei sistemi quantitativi (tipicamente, quelli delle letterature classiche greca e latina) tanto nei sistemi accentuativi, come quello italiano (Beltrami 20024: 22-31, 40-66, 161-233; Menichetti 1993: 99-172).
Nella metrica italiana regolare (isosillabica; ➔ metrica e lingua), la composizione (e l’identificazione) dei versi obbedisce a regole relative al numero delle sillabe (e alle modalità del loro computo) e alla dislocazione degli accenti detti ritmici (➔ prosodia; ➔ ritmo; ➔ accento). La ➔ rima, nelle sue varie forme, pur non partecipando di per sé alla definizione del verso, è fenomeno prosodico essenziale nel determinare le modalità del correlarsi di più versi, della stessa o di diversa misura.
La poesia antica di tradizione non elevata, in particolare di ambito giullaresco o religioso, ammette deroghe alla regola, generalmente riconosciuta, dell’isosillabismo: in questo caso si è parlato perciò di versificazione anisosillabica. Nella metrica detta libera, tipica della tradizione novecentesca, non valgono regole di computo o ritmiche, né esiste regolarità di rima: è pertanto impossibile fornire una descrizione dei versi in essa utilizzati, riconoscibili, di norma, solo per via dell’artificio grafico dell’‘a capo’. La cultura metrica (regolare) del poeta novecentesco finisce peraltro con l’interagire di continuo, e secondo le modalità più varie, con la sua versificazione libera.
Il verso italiano regolare si definisce sulla scorta del numero di sillabe che lo compone. Nel calcolo devono applicarsi le regole che presiedono al computo sillabico, con riguardo ai fenomeni di dieresi e sineresi, dialefe e sinalefe. Per questo motivo, anziché di sillabe è preferibile parlare di posizioni metriche. È anche indispensabile verificare il sussistere di uno schema accentuativo (ritmico). L’ultima sillaba (posizione) tonica del verso ne determina la natura e la denominazione.
A differenza di quanto accade nella versificazione francese, a dominanza ossitona (per cui un verso recante l’ultima tonica in decima posizione è detto décasyllabe), nella versificazione italiana, in prevalenza parossitona (piana), la denominazione del verso dipende sempre dal numero dell’ultima tonica, ma aumentato di un’unità (per cui un verso recante l’ultima tonica in decima posizione è detto endecasillabo). L’identità del verso non varia in funzione del numero di eventuali sillabe atone successive all’ultima tonica. Un verso accentato sulla decima e terminante in parola tronca (ossitona) è un endecasillabo tronco, così come un verso accentato sulla decima e terminante in parola sdrucciola (proparossitona) è un endecasillabo sdrucciolo. La denominazione fa cioè riferimento alla forma piana (di gran lunga maggioritaria) del verso. All’interno del verso è in qualche caso possibile riconoscere entità minori, dette emistichi, definite dal ritmo e da una pausa (cesura); in alcuni casi, il primo emistichio di un verso può essere segnalato dalla rima al mezzo.
Il catalogo della versificazione italiana (Beltrami 20024: 181-205) comprende versi endecasillabi, decasillabi, novenari, ottonari (e doppi ottonari), settenari (e doppi settenari, o martelliani; a parte devono considerarsi gli alessandrini), senari (e doppi senari), quinari (e doppi quinari), quadrisillabi (o quaternari), trisillabi (o ternari). I versi doppi nascono dalla giustapposizione di due versi singoli (che vengono a formare gli emistichi del verso doppio), secondo regole specifiche (per es., sono in rima i versi veri e propri, e cioè i secondi e non i primi emistichi).
In base a quanto osservato circa il numero delle sillabe e gli accenti, si possono avere vari tipi di versi.
L’➔endecasillabo, verso principe della tradizione italiana, prevede l’ultima tonica in 10ª posizione. L’endecasillabo canonico comporta almeno un accento di 4ª (endecasillabo a minore) o di 6ª (endecasillabo a maiore); entrambe le sillabe possono essere toniche, ma non entrambe atone. Gli altri accenti sono liberi, e questo conferisce grande duttilità al verso. Lo schema prevalente dell’endecasillabo a minore è 4ª 8ª 10ª («in sul mio prímo gioveníle^erróre»: Petrarca, Canz. I, 3), preferito all’altro 4ª 7ª 10ª («Et se pur s’árma talór a dolérsi»: Canz., XXIX, 8), più tipico della poesia discorsiva. Negli endecasillabi a maiore possono darsi gli schemi 2ª 6ª 10ª («Questa^ánima gentíl che si dipárte»: Canz., XXXI, 1) o 3ª 6ª 10ª («anzi témpo chiamáta^a l’altra víta»: Canz., XXXI, 2). Stilisticamente rilevante, nella storia dell’endecasillabo, è l’incontro di accenti di 6ª e di 7ª e, nell’uso dantesco, di 9ª e 10ª («Io volsi Ulísse del suo cammín vágo»: Dante, Purg. XIX, 22). Alcuni esempi di endecasillabi non canonici si riscontrano nella poesia duecentesca, e più tardi nella versificazione canterina e cavalleresca (Boiardo), anche nella variante con accento di 5ª, rigorosamente evitato nella lirica.
Il decasillabo prevede l’ultima tonica in 9ª posizione. Soprattutto a partire dal Settecento ha schema 3ª 6ª 9ª (così nei romantici e in ➔ Alessandro Manzoni, che lo adotta nel coro del Conte di Carmagnola: «S’ode^a déstra^uno squíllo di trómba», e in Marzo 1821). Verso della più antica ➔ canzone italiana, Quando eu stava in le tu’ cathene (ed. Stussi, in Segre & Ossola 1999), è adottato rarissimamente nella lirica antica, e più spesso – in combinazioni anisosillabiche – nelle laude di Iacopone da Todi. L’accentuata ritmicità ne fa un verso idoneo alla poesia per musica (celebre è l’aria di Cherubino nelle Nozze di Figaro di Mozart: «Non so piú cosa són, cosa fáccio»). È presente nelle sperimentazioni metriche pascoliane, anche in varianti non canoniche, come in “Valentino”, nei Canti di Castelvecchio, ove alterna con l’endecasillabo («Oh! Valentíno vestíto di nuóvo, / come le brócche dei biancospíni!»).
Il novenario prevede l’ultima tonica in 8ª posizione. Poco diffuso, si afferma nell’Ottocento nello schema 2ª 5ª 8ª («Dal Líbano tréma^e rosséggia / sul máre la frésca mattína»: inizio della ballata “Jaufré Rudel”, in Rime e ritmi di ➔ Giosuè Carducci). Adottato una volta da Dante (nella ➔ ballata «I’ vídi^a voi, dónna portáre»: Rime X), è diffuso in combinazioni anisosillabiche con l’ottonario (tanto che si parla anche di otto-novenario) nella poesia giullaresca o religiosa (per es. in Iacopone da Todi): in questi casi il secondo accento è in prevalenza di 4ª, e viene a corrispondere all’accento di 3ª dell’ottonario (per cui, a proposito della sillaba iniziale di questo tipo di novenari, si parla di anacrusi). Sia nello schema canonico sia in altre varianti è verso frequentato da ➔ Giovanni Pascoli.
L’ottonario prevede l’ultima tonica in 7ª posizione. Lo schema 3ª 7ª è quello prevalente. È usato sporadicamente nella lirica antica, e dopo Dante e Petrarca solo nella poesia religiosa o nella poesia per musica, anche profana (in particolare, nella forma di ballata tre-quattrocentesca nota come barzelletta). Torna in auge nell’ode-canzonetta e nella ballata romantica dell’Ottocento. Raro è il doppio ottonario (sperimentato da Carducci).
Il ➔ settenario prevede l’ultima tonica in 6ª posizione. Con l’endecasillabo, e spesso in combinazione con questo (così nella canzone e nella ballata), è il verso più diffuso della tradizione lirica. Richiede di norma un altro accento, in posizione libera (ma eccezionale è l’accento di 5ª). Il doppio settenario (anche in varianti anisosillabiche) rende in antico l’alessandrino francese, ed è adottato prevalentemente in testi didattici. Dal Sei-Settecento torna in auge nella versificazione teatrale, come nuova importazione dell’alexandrin di tradizione ‘classica’; in questa forma, che comporta due emistichi piani con dialefe obbligatoria e schema a distici baciati, prende il nome di martelliano (dal tragediografo Pier Iacopo Martello). Lo riprende Carducci nella ballata romantica “Su i campi di Marengo”, in Rime nuove («Su i cámpi di Maréngo bátte la lúna; fósco / tra la Bórmida^e^il Tánaro s’ágita^e múgge^un bósco»).
Il senario prevede l’ultima tonica in 5ª posizione. Poco diffuso, nella versificazione pascoliana reca accenti di 2ª 5ª, e spesso si combina con il novenario. Il doppio senario, prediletto dalla poesia romantica per il suo andamento fortemente ritmico, è il metro del primo coro dell’Adelchi di Manzoni: «Dagli^átrii muscósi, dai Fóri cadénti».
Il quinario prevede l’ultima tonica in 4ª posizione. Liberi gli altri accenti. Adottato nella lirica antica (una volta anche da Dante), è usato nella tradizione dell’ode-canzonetta (per es., ne La melanconia di Ippolito Pindemonte: «Melanconía, / nínfa gentíle, / la víta mía / conségno^a té»). Il doppio quinario si distingue dal decasillabo per la regolarità dell’accento di 4ª e della distinzione dei due emistichi. È presente nella versificazione laudistica di Iacopone, con alterazioni anisosillabiche; è poi adottato nella poesia melodrammatica e per musica settecentesca, nella ballata romantica e spesso da Pascoli (“Le ciaramelle”, “Passeri a sera”, “L’ora di Barga”).
Il quadrisillabo prevede l’ultima tonica in 3ª posizione. È usato in combinazione con altri versi: per es. con l’ottonario nella tradizione dell’ode-canzonetta.
Il trisillabo prevede l’ultima tonica in 2ª posizione. Usato di rado (per Dante può essere parte di un endecasillabo, se individuato da rima interna), è applicato da Pascoli in combinazione con il senario e con il novenario.
Le forme metriche della versificazione regolare si adeguano a norme relative alla scelta dei versi e allo schema delle rime, dando vita, eventualmente, a strofe. Le principali modalità di combinazione dei versi secondo la ➔ rima sono le seguenti.
Si ha rima baciata (o accoppiata) nello schema AABB (tipico, per es., dei distici monorimi di alcune forme didattiche o narrative). In alcune forme strofiche la rima baciata (che può dirsi continuata) si prolunga per l’estensione della strofe: come nelle quartine monorime di doppi settenari, o alessandrini.
Si ha rima alternata (o alterna) nello schema ABAB che, ripetuto, dà vita alla cosiddetta ottava siciliana e a una delle forme dell’ottava del ➔ sonetto (tre distici a rima alterna più un distico a rima baciata generano invece la strofe dell’➔ottava rima).
Si ha rima incrociata (o abbracciata, o chiusa) nello schema ABBA che, ripetuto, dà vita alla forma più diffusa dell’ottava del sonetto.
Si ha rima incatenata nello schema ABA BCB CDC … della ➔ terza rima; rime replicate (per es. ABC ABC) ovvero invertite o retrogradate (per es. ABC CBA) si hanno in alcuni schemi dei piedi di canzone o nelle terzine del sonetto.
Combinazioni variamente elaborate di queste figure si riscontrano nelle strofi o stanze dei componimenti della tradizione lirica più alta, la canzone e la ballata.
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino (1a ed. 1991).
Menichetti, Aldo (1993), Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore.
Segre, Cesare & Ossola, Carlo (dir.) (1999), Antologia della poesia italiana. Torino, Einaudi, 1999-2003, 8 voll., vol. 1° (Duecento).