VERRUCA (fr. vérrue; sp. verruga; ted. Warze; ingl. wart)
Termine già usato per affezioni cutanee diverse, come v. teleangectasica per angiocheratoma, v. mollusciformis per fibroma mollusco, v. necrogenica per tubercolo anatomico. La denominazione oggi è rimasta per diverse forme di rilevatezze cutanee, circoscritte, autocontagiose, aventi in comune l'aspetto papillomatoso, quasi a cavolfiore della superficie. I tipi principali sono: a) v. volgare o v. porro, specie al dorso delle mani, o attorno alle unghie, alle regioni palmari o plantari, al capillizio, al viso, quasi sempre multiple; dure, aflegmasiche, indolenti, grosse come un grano di miglio, al più come un pisello; b) v. piana o v. giovanile, frequentissima alla faccia dei giovani, più di rado alle mani e in altre parti, in forma di piccole rilevatezze papuloidi, pianeggianti, di colorito roseo o gialliccio; c) v. senile o v. seborroica frequente al tronco, specie al dorso di persone anziane, in forma di placche di varia ampiezza, ampie fino a 1-2 cm. altre sino a 1-3 mm. di diametro, di colorito bruno o anche nero, untuosa al tatto. Al dorso delle mani di vecchi si hanno verruche di colorito gialliccio, a superficie granosa. Sono forme benigne, trattabili con varî mezzi, specie con caustici locali. Le verruche giovanili si giovano anche di cure generali.
La verruca peruviana. - Questa malattia si trova già segnalata nelle prime relazioni della conquista del Perù. La sua distribuzione geografica è limitata al versante occidentale delle Ande, dall'Ecuador al nord del Chile; endemica soprattutto nel dipartimento di Ancachs (Perù), è ivi circoscritta alle profonde e strette valli (quebradas), distanti 2860 km. dalla costa che ne è immune. Attrasse l'attenzione dei patologi nel 1870, quando apparve in forma di disastrosa epidemia fra i costruttori della ferrovia che da Lima conduce a Oroya sull'altipiano andino. Domina soltanto in estate lungo quei corsi d'acqua, allorché abbondano ogni sorta d'insetti, da qualcuno dei quali si ritiene trasmessa. Nel 1885 lo studente Carrion se la inoculò e ne morì. Infettiva è quindi certamente, ma non contagiosa; il naturalista italo-peruviano Raimondi l'attribuiva già a un virus analogo alla rabbia o alla sifilide; H. Noguchi scoprì e coltivò un bacillo che ritenne l'agente etiologico dell'affezione.
L'incubazione può variare da 8 a 40 giorni. Comincia con uno stadio febbrile (febbre dell'Oroya), caratterizzato da dolori reumatoidi, talora stitichezza, altre volte diarrea, febbre intermittente o remittente, ingrossamento del fegato e delle ghiandole linfatiche, anemia progressiva di apparenza perniciosa. Questo stadio può durare da 20 giorni a 8 mesi e, se non dà la morte, passa allo stadio eruttivo con piccole papule rosse pruriginose, che crescono poi in forme varie fino al volume di un pisello, di una mora, o anche di un uovo di piccione. Sono noduli violacei molto vascolarizzati, facili a sanguinare, data l'epidermide assottigliata che li ricopre, talora limitati alla faccia e alle estremità, ma che possono poi, con successive mandate, interessare tutta la superficie del corpo e (in forma miliare) anche le mucose visibili. Più raramente invadono i bronchi, i polmoni, le pleure, l'intestino, le meningi, con un corteo di sintomi locali gravi. Dopo 4-5 mesi l'eruzione si esaurisce, i noduli impallidiscono, si disseccano e scompaiono o lasciano una cicatrice se s'erano ulcerati. Per l'anemia e la debolezza la convalescenza è lunga. La mortalità raramente supera il 15-20% dei casi giacché abbondano pure le forme leggiere, con sintomatologia povera in confronto a quella tipica sopra descritta. Per la cura si possono provare l'atoxyl e i preparati arsenobenzolici nel primo stadio, poi i ricostituenti in genere.