FRANCO, Veronica
Nacque a Venezia nel 1546 (data che si ricava dall'atto di morte), da Francesco, appartenente a una famiglia della classe dei cosiddetti cittadini originari, e da Paola Fracassa, cortigiana, che presto avviò la figlia alla sua stessa professione, come risulta dal Catalogo de tutte le principal et più honorate cortigiane di Venetia, stampato intorno al 1565, nel quale compare la mezzana, il luogo e la tariffa della F.: "Veronica Franca, a Santa Maria Formosa, pieza so mare, scudi 2".
Alcuni dubbi sulla veridicità dei contenuti del Catalogo ha avanzato A. Graf, dal momento che la tariffa indicata per la F. risulterebbe troppo bassa rispetto a quella delle altre cortigiane, considerate meno quotate di lei. In effetti potrebbe trattarsi di un errore oppure, circostanza non improbabile, potrebbe esserci proprio una volontà denigratoria nei confronti della cortigiana da parte dell'anonimo compilatore. D'altra parte in tutta la critica, fino anche alla più recente, continua a essere usata per definire lo status sociale della F. la categoria della "cortigiana onesta", stereotipo mutuato sembra dal diarista tedesco Burckard (che parla di "meretrices honeste, cortigiane nuncupate", a proposito di un banchetto del duca Valentino) e che doveva distinguere tra la "meretrice" e la cortigiana che, pur dedita alla prostituzione, tentava di elevarsi socialmente attraverso il potere derivato dal denaro e dai privilegi spesso acquisiti attraverso la scrittura. Autodefinendosi cortigiane, si arrogavano il diritto di distinguersi dalle altre (distinzione che spesso è passata anche nelle cronache e in atti notarili dell'epoca), servendosi nella maggior parte dei casi dell'aiuto di letterati e politici influenti (si vedano a questo proposito i Diarii di M. Sanuto e il materiale raccolto da Lorenzi).
La F. ebbe tre fratelli: Girolamo, morto durante la peste del 1575, Orazio e Serafino, "qual è in man de Turchi" come scrive lei stessa nel suo testamento. Si sposò giovanissima con Paolo Panizza, di professione medico, ma se ne separò poco dopo. Di sicuro sappiamo che nel 1582 egli era già morto. Tra i suoi protettori figurano Marcantonio Della Torre, preposto di Verona, proprietario del castello di Fumane, lodato dalla F. nel XXV capitolo in terza rima, il più lungo, un vero e proprio poemetto idillico-descrittivo di 565 versi; Lodovico Ramberti, di antica e illustre famiglia, messo al bando in tutti gli Stati veneti e poi graziato, per aver fornito il veleno al fratello in carcere, in modo da risparmiargli gli strazi del patibolo; Guido Antonio Pizzamano, impiegato presso la magistratura degli avogadori fiscali, divenuto famoso perché pur maritato si era tenuto in casa per amante una monaca, Camilla Rota, fuggita dal monastero di S. Spirito alle Zattere. Secondo quanto lei stessa dichiara, la F. ebbe due figli, Achilletto, forse da Giacomo di Baballi raguseo, e Enea, dal patrizio Andrea Tron, anche se durante il processo che nel 1580 la vide protagonista disse di aver partorito sei volte. Fece due volte testamento e i documenti che ci rimangono la mostrano scrupolosa nella gestione dei suoi beni, ma generosa nei confronti di parenti e amici.
Il primo testamento è del 10 ag. 1564, alla presenza di Pietro di Gozzi raguseo e Angelo Benedetti, quando la F. aveva 18 anni e stava per partorire: "Lasso a m. Jac.mo de Baballi el figliolo, over figliola che nasceranno de mi come a suo padre sia o non sia il signor Dio scia il tutto". Al Baballi lasciò anche il suo diamante "per segno de amorevoleza". Chiese di essere sepolta a S. Francesco della Vigna "col vestito del ordene de la madona, in cataletto nudo", richiesta che torna anche nel secondo testamento del 1° nov. 1570, nel quale sono nominati in qualità di esecutori testamentari uomini illustri come Lodovico Ramberti e Lorenzo Moresin. In questo documento dichiara che il rimanente del suo lascito, in caso di mancanza di eredi, "sii dato a due donzelle da bon per il suo maritar, che se si ritroverà due meretrice, che volessero lassar la cativa vita e maritarsi, o monacharsi, in questo caso sii abrazado dette due meretrice, et non le donzelle", dove, oltre dei figli, si ricorda di Andrea, "accetato per fiol de anima", nato da Ancilla, la sua cameriera, e dove parla del fratello Serafino in mano ai Turchi: "et occorrendo che venisse in luce mio fratello Serafin, qual è in man de Turchi, voglio chel sia riscatado con duc. dusento del mio cavedal". Un altro passo interessante, a testimonianza delle sue amicizie altolocate, è quello in cui si rivolge a Giovanni Battista Bernardo, destinato a diventare consigliere ducale e savio del Consiglio: "It. quando che il Cl.mo m. Zuan Battista Bernardo ritornerà di regimento, il prego, quanto so et posso, che sii contento per amorevoleza haver per raccomandati miei fioli".
Nel 1574 la sua fama di cortigiana di alto rango raggiunse il suo apice quando Enrico III di Valois, facendo una tappa a Venezia dal 18 al 28 luglio durante il viaggio che lo riportava dalla Polonia in Francia, la prescelse per trascorrere con lei una notte nella casa di S. Giovanni Grisostomo. Non sappiamo con precisione perché la scelta cadde proprio sulla F.: forse si può ipotizzare con alcuni biografi che il tramite possa essere stato Andrea Tron, chiamato a far parte della scorta dei quaranta gentiluomini che dovevano fare da corteggio al re, ma, comunque, è certo che l'episodio la elevò agli occhi dei suoi concittadini e le diede grande notorietà. A ricordo dell'incontro la F. donò all'illustre ospite un suo ritratto (forse un piccolo smalto colorato) con una lettera accompagnata da due sonetti: "Come talor dal ciel sotto umil tetto" e "Prendi, re per virtù sommo e perfetto".
La F. fu legata all'aristocrazia intellettuale veneziana: sembra avere stretto amicizia con celebri artisti e letterati e frequentato assiduamente la nobile famiglia bresciana dei Martinengo, quella degli Zacco, ma soprattutto il famoso circolo letterario "Ca' Venier" che ruotava intorno a Domenico Venier, poeta ingegnoso, animatore e illustre patrono di quel sodalizio, nonché protettore della F., fidato consigliere, e forse revisore dei suoi scritti. Di quell'accademia di virtuosi, come la chiama la F. stessa in una lettera, facevano parte tra gli altri G. Gradenigo, C. Magno, G. Molin, J. Zane, oltre ai Venier: Domenico, il fratello Lorenzo, Marco (che figura spesso come corrispondente delle sue rime amorose) e Maffìo, figlio di Lorenzo e nipote di Domenico che nella sua poesia antipetrarchista fece oggetto delle sue grevi invettive anche la Franco. Nel 1575 fu chiamata da Francesco Martinengo a curare la pubblicazione di una miscellanea commemorativa in onore del conte Estore Martinengo, capitano di fanti, morto in quell'anno: Rime di diversi eccellentissimi auttori nella morte dell'illustre sign. Estor Martinengo conte di Malpaga. Raccolte et mandate all'illustre et valoroso colonnello il s. Francesco Martinengo, suo fratello, conte di Malpaga dalla signora Veronica Franca (s.n.t.), nella quale compaiono nove sonetti della F. stessa e di D. V. (Domenico Venier), Marco Venier, O. Giustinian, B. Zacco, C. Magno, A. Menichini, M. Stecchini, O. Toscanella, G. Scrittore, V. Sali e A. Cavassico.
Con Bartolomeo Zacco, letterato e conte padovano, la F. ebbe una corrispondenza poetica in occasione della morte della giovane figlia dello Zacco, il quale l'aveva invitata in un sonetto a scrivere versi per onorare la memoria della figlia Daria. La F. rispose a sua volta con un sonetto e poi con un altro tornava a ringraziarlo delle lodi che le aveva tributato nel primo componimento poetico di richiesta. A questo proposito c'è da sottolineare che uno dei due sonetti, il XIV, "D'alzarmi al ciel da questo stato indegno", è stato letto erroneamente da più critici (compreso Salza) come il documento di un ripiegamento religioso che l'avrebbe portata a una conversione negli ultimi anni della sua vita. I sonetti della F. sono, alle cc. 77r e 82v, del canzoniere di Zacco (conservato nella Bibl. naz. Marciana, Mss. ital., cl. IX, 14 [=6988]) e per primo li pubblicò E.A. Cicogna (Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, p. 424). Ma i duetti poetici più celebri sono quelli contenuti nelle sue Terze rime, che raccoglievano diciotto capitoli della F. e sette dei suoi corrispondenti, a lei indirizzati come da "incerto autore", pubblicati sempre nel 1575 (o 1576 secondo la data di un ritratto della cortigiana che, con molta probabilità, come ha sostenuto B. Croce, doveva servire da antiporta all'edizione: cfr. Aneddoti di varia letteratura, Bari 1953, pp. 1-11) con una dedica sontuosa "al Serenissimo Signor Duca di Mantova et di Monferrato" Guglielmo Gonzaga e lettera dedicatoria datata 15 nov. 1575.
Sul nome dell'autore dei capitoli che la F., con sapiente consapevolezza letteraria e di mercato, inserisce tra le sue terze rime, sono state fatte molte congetture. Il Tassini, ad esempio, ipotizza che i componimenti possano essere tutti di mano della F., ma c'è anche chi ha sostenuto che tutti i capitoli siano stati scritti da qualcuno dei Venier, oppure, ipotesi più condivisibile, che non ci sia un unico misterioso autore ma che gli autori siano più d'uno. Infatti, in alcuni rarissimi esemplari della stampa, Marco Venier figura come autore del primo dei capitoli (si veda l'esemplare conservato nella Biblioteca nazionale di Firenze, segnato Rinasc. F 251), che è, tra l'altro, una appassionata dichiarazione d'amore, mentre in quello posseduto dalla Biblioteca Marciana di Venezia (Rari V 494 1) il nome non figura e anche il primo capitolo è dato come d'incerto autore. Sempre a questo periodo risalgono anche i feroci attacchi indirizzati contro di lei da Maffìo Venier e contenuti in due capitoli in terza rima e in un sonetto caudato dall'incipit emblematico: "Veronica, ver unica puttana" (che sembra parodiare chi aveva cantato Veronica come "vera, unica eccelsa dea"), scritti in dialetto veneziano e a cui la F. fu costretta a replicare con il capitolo XVI "D'ardito cavalier non è prodezza", in cui mostra un elegante distacco e uno spiccato senso dell'ironia. I tre testi, tratti dal manoscritto della Bibl. naz. Marciana di Venezia (Mss. ital., cl. IX, 217 [=7061]), insieme con un esame della vicenda, sono pubblicati da M. Dazzi. Resta difficile capire cosa abbia scatenato la feroce tenzone poetica, forse da parte del Venier esclusivamente un esercizio di poesia antipetrarchista, oppure il disappunto verso una cortigiana che attraverso una sapiente opera di autopromozione sociale e con la protezione di cui godeva, spesso sfuggiva alle norme che regolavano la prostituzione veneziana; mentre invece l'ipotesi di Dazzi che la F. non avesse risposto subito agli ingiuriosi capitoli temendo che dietro quei versi ci fosse la mano del suo amato Marco Venier pare poco credibile, tanto più che il primo verso del capitolo di attacco porta quasi una firma: "Franca, credéme, che per San Maffìo".
Nel 1580 la F. curò l'edizione delle sue cinquanta Lettere familiari a diversi dalla s. Veronica Franco all'illustriss. et reverendiss. monsignor Luigi d'Este, cardinale (s.n.t., ma Venezia) con una lettera dedicatoria a Luigi d'Este, cardinale di Ferrara, datata Venezia 2 ag. 1580 e che ebbero l'onore di essere ricordate da Michel de Montaigne nel suo Journal de voyage en Italie en 1580 et 1581 (in Oeuvres complètes, a cura di M. Rat, Paris 1962, p. 1183), che il 6 novembre di quell'anno, proprio a Venezia, ne aveva ricevuto una copia.
Le lettere (in realtà cinquantuno perché la quinta con alcune varianti viene ripetuta) non sfuggirono all'attenzione di B. Gamba, che nell'antologia Lettere di donne italiane del secolo XVI (Venezia 1832, pp. 195-214) ne ristampò sette; ma soltanto il Croce diede loro l'attenzione che meritano, traendole da una miscellanea di altri epistolari italiani e ristampandole (Lettere dall'unica edizione del MDLXXX, con proemio e nota iconografica, a cura di B. Croce, Napoli 1949; sull'edizione Croce e su quelle precedenti si veda O.S. Casale, Le scritture femminili tra strumenti di ricerca e edizioni, in Les femmesécrivains en Italie au Moyen Age et à la Renaissance, Actes du Colloque international Aix-en-Provence, 12-14 nov. 1992, Aix-en-Provence 1994, pp. 40-49). Due sole delle cinquanta lettere portano il nome del destinatario, quella a Enrico III di Valois, che apre la raccolta e a cui seguono i due sonetti già citati), e la XXI, al Tintoretto, importante non soltanto per le questioni teoriche sulla pittura che affronta, ma anche perché contiene un preciso riferimento al ritratto che il pittore le fece. Famosa è anche la lettera indirizzata a una madre per esortarla a non avviare la figlia alla vita di cortigiana. La raccolta rivela i suoi ampi interessi culturali, i rapporti con i letterati del tempo e il fatto che alle sue lettere, ancor più che alle rime, la F. sembra affidare la ricerca di un decoro letterario, della fama e della memoria di sé. Ma le lettere descrivono anche con vivacità, come era già stato per i testamenti, la sua esistenza quotidiana e la sua professione, mai dissimulata: quella delle "donne costrette a mangiare con l'altrui bocca, a dormire con gli occhi altrui, a muoversi secondo l'altrui desiderio", come scrive nella lettera XLV. La sincerità dell'epistolario ha attirato le simpatie di quei critici che, a partire dal Croce, l'hanno spesso paragonata a Tullia d'Aragona. Quest'ultima, infatti, al contrario della F. cercò sempre di nascondere il suo essere cortigiana. Insieme con la raccolta figura anche un Memoriale, un "secreto aricordo", che doveva essere consegnato al doge e alla Serenissima Signoria (ma che non venne mai presentato come risulta da una annotazione a margine del documento, ritenuto autografo, conservato nell'Archivio della Casa del soccorso, e che fu edito dal Cicogna (pp. 414-417), nel quale proponeva la fondazione di un ospizio che ospitasse prostitute pentite o anziane. In effetti nel 1580 venne istituita una Casa di soccorso presso la chiesa di S. Nicolò di Tolentino, ma non abbiamo testimonianze che comprovino la partecipazione della F. all'iniziativa.
Nel maggio 1580 la F. subì un furto nella propria casa; si rivolse allora all'autorità ecclesiastica per ottenere da parte del patriarca un'ingiunzione di consegna, come dimostra il documento conservato nell'Archivio patriarcale di Venezia, redatto in data venerdì, 22 maggio 1580, e quindi reso pubblico (Registri actorum et mandatorum 1579 et 1580, n. 16). Invece, nell'ottobre, in due sole sedute (dell'8 e del 13), finì davanti al tribunale del Sant'Uffizio "Veronica Franca publica meretrice", con l'accusa di immoralità dei costumi e sospetta stregoneria, a seguito della denuncia del precettore di Achilletto, Ridolfo Vannitelli, che testimoniò di averla vista ricorrere a sortilegi e a invocazioni diaboliche per ritrovare gli oggetti che le erano stati trafugati. In particolare si parlava di una pratica molto in voga al tempo, quella detta dell'"inghistara", che si faceva con una brocca piena di acqua santa. La F., da quello che leggiamo nel verbale del processo (rintracciato da Tassini che lo pubblicò solo in parte, edito invece integralmente, ma con molte inesattezze, da Schiavon, e poi ancora sia da Zorzi, pp. 145-153, sia, con le dovute correzioni, da Milani, pp. 258-263), si difese molto bene e si dichiarò innocente in quanto "la più timida dona del mondo de demonii et de morti". Il tribunale l'assolse, forse, anche per l'intervento di influenti uomini politici veneziani. Di un altro processo del maggio 1587 (rimasto finora inedito) nel quale la F. denuncia un certo Bortolo per comportamenti eretici (Archivio di Stato di Venezia, Sant'Uffizio, b. 59, n. 30), ha di recente parlato M. Milani, che pubblica anche la trascrizione del processo. Da questo momento in poi le notizie che riguardano la sua vita si fanno scarse. Sappiamo dalla "Notifica" dei beni presentata nel 1582 che durante la pestilenza del 1575-76 aveva perso gran parte dei suoi averi. Sembra, inoltre, che a 34 anni avesse deciso di abbandonare la professione di cortigiana per dedicarsi a opere benefiche, come attesterebbe il Memoriale, mentre invece le ipotesi avanzate da alcuni biografi di un suo pentimento con relativa conversione o addirittura ritiro in convento sono del tutto prive di fondamento storico.
Della sua produzione letteraria restano ancora due sonetti: uno "A la tua ceda ogni regale insegna", che si legge a c. 24v del Panegirico nel felice dottorato dell'illustre, et eccell.mo sig. Gioseppe Spinelli, digniss. rettor de legisti…, a cura di G. Fratta, Padova 1575, e l'altro "Ecco del tuo fallir degna mercede" in lode della tragedia di Muzio Manfredi, Semiramis, compreso nell'edizione dell'opera del 1593 a c. 91v. In una lettera da Nancy del 30 ott. 1591 Manfredi ringraziava la F.: "Il bellissimo sonetto, che Vostra Signoria mi ha mandato in laude della mia Semiramis tragedia, mostra con la sua rarità la divinità dell'ingegno vostro…" (Lettere brevissime, Venezia 1606, p. 249).
Ma la F. era già morta come risulta dai Necrologi del magistrato alla Sanità: "1591, 22 luglio. La Sig. Veronica Franca d'anni 45 da febre già giorni 20. S. Moisè".
Alcuni critici hanno parlato di un poema epico o di una tragedia che avrebbe occupato gli ultimi anni della sua vita, probabilmente sulla scia di quanto scritto da Manfredi nella citata lettera: "La ringratio hora con questa mia quanto più posso; ma fra poco le darò in altro stile tal segno di gratitudine, che in tutto non rimarrò vinto di cortesia, e le priego sanità e otio da dar l'ultima mano al suo Poema Epico", ma di quest'opera non è rimasta alcuna traccia. Del tutto erronea è invece l'attribuzione proposta nel Settecento e convalidata da vari studiosi (fino al Salza e ad alcune recenti antologie di lirica cinquecentesca) del sonetto "Ite pensier fallaci, e vana spene", tratto da un codice miscellaneo della Biblioteca di S. Maria dei padri serviti di Venezia, ma che è in realtà, come aveva già segnalato il Croce (Proemio all'edizione delle Lettere, p. XXX, n. 3) della poetessa Veronica Gambara.
I capitoli e i sonetti ebbero la prima ristampa, dopo l'edizione cinquecentesca, in questo secolo: Terze rime e sonetti, con prefazione e bibliografia a cura di G. Beccari, Lanciano 1912, l'anno seguente in una edizione filologicamente più corretta curata da A. Salza: G. Stampa - V. Franco, Rime, Bari 1913, pp. 231-361 e recentemente Rime, a cura di S. Bianchi, Milano 1995. Una scelta della produzione lirica della F. è stata più volte inserita in miscellanee di poesia femminile a partire dal Settecento e in alcune raccolte moderne di poesia del Cinquecento (per una bibliogr. completa si veda l'edizione a cura di Bianchi, p. 37). Per quanto riguarda la raccolta epistolare, abbiamo l'edizione completa del Croce, alcune lettere nell'antologia di Gamba già citata e in quella più recente Le Stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di A. Arslan - A. Chemello - G. Pizzamiglio, Venezia 1991 (pp. 54 s.). Il quadro piuttosto povero delle edizioni della F. sta a indicare quanto la storia letteraria si sia occupata più delle vicende biografiche che non delle sue opere, fino a tempi recenti lette più per il loro valore documentario che non per quello poetico. La storia della critica sulla F. è fatta di numerose polemiche, a cominciare da quella di G. Fontana contro G. Tassini che costrinse quest'ultimo a cambiare, nella seconda edizione, il titolo del suo saggio, sostituendo il termine meretrice con quello di cortigiana; e di fraintendimenti, come quello clamoroso di G. Toffanin che non volle riconoscere dignità letteraria alla F. escludendola dalla sua antologia delle poetesse del Cinquecento (Le più belle pagine di G. Stampa, V. Colonna, V. Gambara e I. Morra, Milano 1929). Solo dopo il saggio crociano sulla lirica cinquecentesca, uscito nel 1933, la F. ha ricevuto studi più adeguati che hanno collocato la sua opera all'interno della società letteraria veneziana e che hanno evidenziato l'originalità di alcune scelte poetiche (e metriche, come nel caso delle terzine) non sempre scontate, ma anzi portate verso una certa originalità. Negli ultimi decenni la F. è stata oggetto di particolare interesse da parte della critica americana. Nel 1992 Dacia Maraini ha scritto un testo teatrale in due atti a lei ispirato: Veronica, meretrice e scrittora, Milano 1992 (introduzione pp. 5-11).
Di due suoi ritratti abbiamo attestazioni della F. stessa: di uno parla nella lettera al Tintoretto, di un altro fa cenno nella lettera e nei sonetti a Enrico III. Un ritratto certo è quello inciso in rame e contornato dalla scritta "Agitata crescit", con lo stemma della famiglia nella parte inferiore, rintracciato da A. Tursi (mentre svolgeva una ricerca commissionatagli dal Croce), in un codice (Bibl. naz. Marciana, Mss. ital., cl. IX, 273 [=6646], c. 138r) contenente due sonetti contro la F. (riportati dal Croce nel saggio Sulla iconografia di V. F. in Aneddoti di varia letteratura, pp. 8 s.), che recavano il titolo "Sora 'l retratto de Veronica Franco e l'impresa" e che Croce presume dovesse servire da antiporta per l'edizione delle Terze rime. Mentre invece per il dipinto di Iacopo Tintoretto la questione è ancora irrisolta perché continua a essere alimentata dal mistero della sua scomparsa, e perché di un ritratto ritrovato di recente e ora al Worcester (MA) Art Museum, che porta il nome della F. sul rovescio della tela, è ancora incerta l'attribuzione tra Domenico e Iacopo Tintoretto.
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