Vedi VERNICE NERA, Vasi a dell'anno: 1966 - 1997
VERNICE NERA, Vasi a (v. vol. VII, p. 1137)
Negli ultimi anni sono stati realizzati considerevoli progressi nello studio delle ceramiche a v. n. del Mediterraneo. Tali progressi riguardano gli approcci di studio tradizionali, quali la definizione delle classi e dei tipi, la loro provenienza, cronologia e diffusione. Inoltre si registra una crescente attenzione da parte degli studiosi nei confronti del significato economico e culturale che la ceramica a v. n. aveva nelle società in cui questa veniva prodotta e utilizzata.
Tale evoluzione è più spiccata nell'ambito degli studi che riguardano la metà occidentale del bacino del Mediterraneo piuttosto che quella orientale, evidenziando così le grandi differenze metodologiche esistenti nella ricerca relativa alle due aree.
Si farà qui riferimento essenzialmente ai vasi del IV-I sec. a.C.: è la grande epoca della v. n., tra la scomparsa delle principali officine di vasi a figure rosse e la comparsa, prima in Oriente, in seguito e soprattutto in Occidente, dei vasi a vernice rossa che finiranno per diffondersi ovunque verso il 30 a.C. Non è esagerato affermare che la ceramica a v. n., ampiamente utilizzata nell'ambito del mondo classico durante questi quattro secoli, copre una superficie geografica e un periodo cronologico che non hanno eguali tra le altre produzioni ceramiche dell'antichità: naturalmente ciò comporta numerosi problemi di differenziazione e di evoluzione.
Sarebbe del resto sbagliato far risalire la storia della ceramica a v. n. al IV secolo. Durante i secoli VI e V, officine greche e in particolar modo attiche (ma anche officine italiche che spesso le imitavano) hanno prodotto in abbondanza ceramiche a v. n., la cui importanza è stata per molto tempo offuscata dalla preferenza estetica accordata alle ceramiche figurate e di cui la pubblicazione degli scavi dell'Agorà offre un buon esempio. In questa sede lasceremo da parte tali produzioni per considerare le ceramiche a v. n. a partire dal momento in cui esse hanno acquisito un primato nell'ambito del vasellame semifine. Nel corso di questi tre o quattro secoli, conviene distinguere, soprattutto per la parte occidentale del mondo mediterraneo, due grandi epoche divise dalla seconda guerra punica, caratterizzate da tendenze artigianali e artistiche e da condizioni di produzione e di diffusione radicalmente differenti: i secoli IV e III a.C., in cui la ceramica conserva ancora una certa «dignità» di produzione e in cui d'altra parte la produzione e la diffusione dipendono ancora da metodi artigianali, a eccezione della ceramica attica e, in misura inferiore, dell'officina delle «petites estampilles»·, e i secoli II-I, che vedono la ceramica tramutarsi in bene di consumo senza pretese artistiche, e nel corso dei quali, accanto a una miriade di piccole officine, altre molto più grandi impongono nuove norme di fabbricazione e di commercializzazione e conoscono una diffusione «universale», almeno nell'ambito del Mediterraneo occidentale e del suo entroterra.
Nel IV sec. prosegue la produzione su grande scala della ceramica attica a vernice nera. L'importanza di questa ceramica per lungo tempo trascurata si è pienamente manifestata, in modo solo apparentemente paradossale, più nell'Occidente mediterraneo che in Grecia: infatti ne sono state esportate quantità' considerevoli, soprattutto nella penisola iberica e in quelle regioni del Mediterraneo occidentale sottoposte all'influenza punica. Del resto sappiamo attraverso diversi indizi che dei commercianti «fenici» - più spesso cartaginesi - hanno contribuito alla diffusione della ceramica attica a v. n. in Occidente.
Nel IV sec. a.C. e nel primo venticinquennio del III sec., compare, si sviluppa e coesiste una gran quantità di produzioni sparse nell'ambito del Mediterraneo. Queste rivelano spesso una tecnica eccellente e originali qualità estetiche, tuttavia hanno conosciuto una ristretta diffusione, limitata essenzialmente a un raggio di qualche decina di chilometri. Si deve quindi reagire all'ipotesi, per molto tempo prevalsa, che attribuiva i più importanti esemplari di ceramica a v. n. di questo periodo alla produzione o all'influenza di alcuni centri prestigiosi, tra i quali vengono più spesso citati Atene e Taranto. Queste due città sicuramente manifestarono allora produttività e inventiva, e per molto tempo (prima di essere raggiunte da Roma, come si vedrà in seguito) furono le uniche capaci di assicurare una diffusione che non fosse puramente regionale. Atene, con tutte le sue ceramiche a v. n. precedentemente ricordate; Taranto, con la ceramica detta «di Gnathia», diffusa essenzialmente in Apulia (ove suscitò delle imitazioni, talvolta gustose, nel mondo indigeno, in particolar modo nel Salento), e molto marginalmente nel resto d'Italia o oltremare (p.es. verso la penisola iberica e l'Africa), ma sempre in modo estremamente limitato, con la sola eccezione di Alessandria, dove i vasi tarantini sono pervenuti in quantità non trascurabile, stabilendo una sorta di «ponte» tra le due grandi metropoli ellenistiche d'Oriente e d'Occidente.
Non si possono qui citare che alcuni gruppi particolarmente tipici di queste produzioni locali ellenistiche. Nel Mediterraneo orientale, la ceramica detta della Kynouria, in Argolide, presenta decorazioni impresse complesse, la cui somiglianza con quelle di Teano o di Roma non può non incuriosire. I «Plakettenvasen», le cui decorazioni sono caratterizzate da motivi in rilievo modellati a parte e applicati in seguito sulla parete dei vasi, talvolta hanno fama di provenire da Creta, tuttavia dovevano esistere parallelamente altre produzioni, come forse ad Alessandria. Questa città rappresenta l'esempio di un importante centro ove la produzione a v. n., caratterizzata fra l'altro da profili e particolarità sui generis, ha conosciuto una diffusione limitata. La Beozia e, soprattutto, la Macedonia, sono altre regioni la cui produzione di ceramiche a v. n., abbondante, interessante e spesso originale, ebbe diffusione solo in ambiti ristretti. In Occidente occorre soprattutto ricordare, accanto alla ceramica di Gnathia, i vasi a v. n. di Capua (che N. Lamboglia ha definito «ceramica protocampana»), caratterizzati da decorazioni impresse molto complesse composte principalmente da palmette, meandri quadrati e archi di cerchio puntinati. Inoltre quelli di Teano, le cui decorazioni ugualmente complesse, combinano stampigliature impresse (palmette, «occhi da dado» e bolli tipici a forma di viso umano stilizzato), con incisioni, zone di striature «a rotella» (ottenute in realtà attraverso una lama fatta vibrare) e motivi sopradipinti. La differenza, a qualche chilometro di distanza, tra le facies ceramiche di Capua e di Teano, così come una certa impermeabilità reciproca dei loro mercati, è emblematica del frazionamento ceramico dell'Italia nei decenni attorno al 300 a.C. In Etruria, la ceramica «di Malacena», di origine volterrana, combina i migliori elementi della tradizione etrusca delle ceramiche av. n.: l'eccellenza tecnica degli impasti e delle vernici, uno sforzo, riuscito, di imitare i procedimenti e le forme del vasellame metallico in ciò che esso ha di più complesso, oltre alle decorazioni a rilievo prese in prestito anche dalla tradizione metallica e consistenti soprattutto in rilievi applicati. Inoltre, malgrado la sua limitata diffusione al di fuori della regione d'origine, la ceramica di Malacena riveste una grande importanza come antenata della stirpe delle ceramiche etrusche a impasto calcareo e a tendenza metallica, dalla ceramica con anse a orecchia fino alla campana B. In generale, l'Etruria rappresenta il centro principale di una tradizione «toreutica» che spinge i ceramisti a ispirarsi il più possibile a modelli metallici, anche a costo di far violenza alle tendenze proprie dell'argilla, a differenza della tradizione «ceramica» così ben rappresentata, p.es., dalla produzione attica d'epoca classica. Ed è questa tradizione toreutica che porterà, nel corso dei decenni successivi, alla ceramica «calena». Anche Taranto conosce (allo stesso modo di altre regioni dell'Apulia come la Daunia) la tentazione di imitare più o meno fedelmente i vasi metallici, ma in misura minore e con minor costanza dell'Etruria settentrionale.
Nell'ambito delle produzioni italiche, un'altra classe ceramica occupa un posto a parte nei decenni iniziali del III sec. (305-265 a.C. circa). Si tratta dell'officina delle «petites estampilles», una produzione che diverse argomentazioni attribuiscono a Roma, anche se è stata avanzata l'ipotesi di Caere. Questa fabbrica privilegia forme semplici (soprattutto la ciotola), presenta in generale un'eccellente qualità tecnica ed è caratterizzata, nei casi in cui è decorata, da stampi di piccola grandezza (generalmente quattro) dai motivi estremamente varí, impressi molto spesso secondo assi paralleli. La produzione dell'officina delle «petites estampilles» si è diffusa assai ampiamente in Italia centrale e centro-settentrionale, ma anche oltremare, soprattutto in direzione delle regioni commercialmente legate all’Etruria (Aleria), a Marsiglia (Liguria, Gallia meridionale, regione di Ampurias) e a Cartagine (soprattutto Tunisia, Tripolitania e Sicilia occidentale, ma anche Sardegna e Spagna sud-orientale). Questa rappresenta, qualche secolo dopo il bucchero etrusco e un secolo prima della campana A (ma a un livello ben inferiore rispetto a quest'ultima), una delle rare ceramiche ampiamente diffuse dall'Italia durante l'epoca pre-imperiale: a questo titolo essa simbolizza la crescita di potere dell'artigianato e del commercio di Roma nella prima fase del periodo ellenistico. Sul piano della storia dell'arte (ma anche della storia religiosa), si noterà che molti dei vasi dalle decorazioni figurate e dalle iscrizioni dipinte detti pocola, e in particolare il «gruppo Volcani» di Beazley, provengono dall'officina delle «petites estampilles». Nelle loro decorazioni è nettamente percepibile un'influenza tarantina, che tuttavia si è esercitata su un'officina che manteneva tradizioni laziali per quanto concerne le forme dei vasi, la lingua e la natura delle iscrizioni nonché l'identità delle divinità venerate (è per questo che l'ipotesi che attribuisce a Vulci la maggior parte dei pocola difficilmente può reggere di fronte a quella di un'origine laziale). In un certo senso, i pocola sono un simbolo del passaggio delle consegne percepibile in quest'epoca, tra una Magna Grecia che vive i suoi ultimi decenni di splendore, e una Roma che incomincia appena a imporre la sua preminenza sulla richiesta in campo artistico e sull'economia.
Nel Lazio e nell'Etruria meridionale, i vasi dell'officina delle «petites estampilles» sono accompagnati, in particolare negli arredi delle tombe, da altre produzioni tipiche di queste regioni le cui forme più frequenti sono piccole ciotole profonde («gruppo 96»), oinochòai «a cartoccio», skỳphoi, askòi, ecc., senza contare i «piatti di Genucilia», un gran numero dei quali proviene verosimilmente da officine romane. In generale in questo periodo, in Italia come altrove, sono molto numerose le produzioni che prolungano tradizioni locali, come in Italia settentrionale il gruppo delle ceramiche a v. n. della bassa pianura del Po (Adria, Spina, Este) oppure, nella Sicilia greca dell'epoca di Timoleonte e Agatocle, un gruppo di forme molto particolari, con o senza decorazione sovradipinta: lekànai, lèbetes gamikòi, stàmnoi, bombyliòi, pissidi, ecc.
La prima guerra punica provoca un importante mutamento. I due ultimi terzi del III sec. sono infatti caratterizzati da un'accentuata dispersione delle facies ceramiche nel Mediterraneo occidentale. Già in precedenza, a eccezione della ceramica attica e dell'officina delle «petites estampilles», nessuna produzione era riuscita a imporsi a grande distanza, tuttavia le produzioni a medio raggio d'azione erano numerose e spesso di grande qualità. Invece a partire dal 265 c.a si assiste a un regresso del livello artistico della ceramica a v. n., mentre si conferma e forse si accentua il frazionamento del mercato in aree molto ristrette. La diversità delle tradizioni ben risalta attraverso il confronto tra la facies ceramica di una città come Ancona, rimasta ellenistica, e quella, a poca distanza, della colonia latina di Ariminum, centro di produzione artigianale gravitante intorno a Roma, in cui la tradizione laziale appare nelle forme e negli stampi dei vasi e perfino nell'esistenza di una serie di pocola deorum locali che avevano, se non proprio decorazioni come quelli laziali, per lo meno iscrizioni in onore di alcune divinità. In genere molte delle colonie di Roma, in special modo Ariminum, ma anche Alba Fucens, Minturnae o Cales, mostrano quindi nelle loro ceramiche a v. n. l'impronta della loro madrepatria - ma non tutte: Brundisium, p.es., fa eccezione. Un gruppo di produzioni particolarmente interessante è fornito, nel corso di questo periodo, dal Lazio e dalla Campania settentrionale in cui, nell'impeto della colonizzazione romana, compaiono produzioni a v. n. provviste di stampi nominali molto dettagliati - una rarità nell'ambito dei quattro secoli qui considerati. Sui vasi a v. n. vengono aggiunte forme di omaggio a Ercole, protettore degli artigiani ma anche, in qualche misura, della colonizzazione (lettere «H» sovradipinte o impresse; stampigliature a forma di clava e/o di arco e di freccia; serie di «Heraklesschalen» di Roma e dintorni, coppe e soprattutto patere ornate da stampi raffiguranti il dio; trionfo di Ercole sulla ceramica «calena»). E precisamente durante questo periodo che nasce la vera ceramica «caleña» (v. caleni, vasi). Per la qualità delle sue decorazioni in rilievo, molto curate, quest'ultima risulta isolata in tale fase di decadenza artistica della ceramica. Ma d'altra parte essa si colloca nell'ambito della ceramica di Malacena: e sebbene una parte di questi vasi, e in particolar modo molte patere ombelicate, provengano innegabilmente da officine di Cales, questa classe appartiene a una tradizione etrusca, ed è a botteghe etrusche che può essere attribuito un gruppo di questi vasi. D'altro canto, nell'Apulia meridionale e nella Lucania sud-orientale, si osserva l'introduzione di ceramiche a impasto grigio la cui vernice oscilla tra il grigio e il nero, per un fenomeno che è tipico delle zone «periferiche» (ciò si ritrova particolarmente in Africa).
La tecnica della v. n. conosce interessanti sviluppi al di fuori dell'Italia: p.es. nel mondo punico, dove proliferano produzioni di qualità spesso mediocre, in cui la vernice è tra il nero, il rosso e il grigio e che talvolta si ispirano a modelli attici, come la produzione dell'officina di Kouass in Marocco, vicino a Tangeri. Ma a Cartagine, e nella sua area di influenza culturale ed economica (p.es. a Lilibeo), appaiono nel corso nel III sec. (e si perpetueranno in parte del II sec.) numerose e diverse produzioni, di qualità a volte eccellente, e in particolare vasi plastici a v. n., differenti dalle produzioni ellenistiche di Atene 0 Alessandria. Questi oggetti conoscono una certa circolazione all'interno dell'area punicizzata, ma provengono innanzi tutto da officine a diffusione locale: in opposizione pertanto con ciò che non tarderà a verificarsi nel mondo romano, in cui i fenomeni di commercializzazione a distanza svolgono, a partire dall'officina delle «petites estampilles», e svolgeranno ancor più nel II sec., un ruolo considerevole. Un'altra area in cui le produzioni dei due ultimi terzi del III sec. proliferano, diverse fra loro ma con una certa somiglianza, è il litorale del Golfo del Leone, con una serie di officine localizzate a Emporion, a Rhode, e forse anche altrove (gruppo NikiaIon, gruppo delle patere a tre palmette radiali, gruppo delle rosette nominali, ecc.); le loro forme sono semplici - soprattutto ciotole - la qualità tecnica è buona, la diffusione è soprattutto regionale. Occorre insistere sull'esistenza di questo genere di officine, da una parte perché testimoniano la vitalità e la diversità delle produzioni a v. n. nel Mediterraneo del primo periodo ellenistico, dall'altra perché troppo spesso i loro prodotti, mal identificati, sono stati a torto attribuiti a officine più illustri, soprattutto a quelle attiche ò alla campana A ο Β.
Ancor più della prima guerra punica, la seconda si accompagna a sconvolgimenti nel campo delle ceramiche a vernice nera. Si assiste infatti alla straordinaria espansione di una produzione ceramica che sino ad allora vegetava, come molte altre produzioni della seconda metà del III sec., nelle officine d'origine, a Napoli e forse a Ischia (da cui sembra provenire l'argilla): la campana A. Dopo la campana A «primitiva» (IV sec. e inizio III sec.) e la campana A «arcaica» (verso il 280-220), è poco prima del 200 che nasce la campana A «classica», la quale perdurerà nei suoi aspetti successivi (A «antica», «media», «tarda») per lo meno sino alla metà del I sec. a.C.
Non si insisterà qui sulle molteplici informazioni da trarre da questa ceramica, non solo in merito all'evoluzione degli usi, dei gusti e dell'estetica, ma anche in merito all'economia del mondo romano tardo-repubblicano (sviluppo della produzione di massa nel quadro del c.d. sistema di produzione schiavistica, notevole diffusione nell'ambito del Mediterraneo occidentale come riflesso dell'attività dei negotiatores sia nelle regioni da poco sottomesse a Roma sia nei paesi ancora indipendenti). La campana A si inserisce con straordinario successo nelle nuove tendenze dell'economia romana, ma è in sé una ceramica di tradizione ellenistica, piuttosto attardata, la quale perpetua in pieno II sec. a.C. profili e decorazioni già passati di moda (decorazioni del resto molto semplici e stereotipate: stampi impressi monotoni nella loro natura e disposizione, zone di striature e, raramente, rudimentali ornamenti incisi ed eventualmente sovradipinti): caratteristica che ben si accorda con la sua fabbricazione in una città, Napoli, tenace conservatrice, sul suolo italico, dei gusti ellenici.
Infine, nell'evoluzione del suo repertorio di forme, la campana A ben traduce in quest'epoca il rapido abbandono di ogni pretesa estetica e «sociale» della ceramica. Ne è rivelatrice a tale proposito la rapida scomparsa delle forme chiuse ( gutti, lèkythoi) o speciali (piatti da pesce), e l'ulteriore scomparsa, poco dopo la metà del II sec. a.C., delle forme semichiuse (coppe), ereditate le une e le altre da un'epoca in cui il vasellame a v. n. aveva ancora un ruolo di un certo prestigio e copiava, alle volte a suo modo, le forme del vasellame ricco, argenteria e vasi di bronzo.
La campana Β si trova rispetto alla campana A nello stesso rapporto del gruppo di Malacena con le ceramiche a v. n. della Magna Grecia. In altri termini questa ceramica è una tipica rappresentante della tendenza «toreutica» che non ha cessato di essere propria delle produzioni etrusche a v. n. come il bucchero e, più tardi, il gruppo di Malacena. Come la ceramica calena, la campana B, indubbiamente nata in Etruria (proviene dalle produzioni volterrane per tramite della produzione delle anse a orecchia, caratterizzata da coppe piatte dalle anse orizzontali fortemente ripiegate su se stesse), suscita fedeli imitazioni, se non addirittura contraffazioni in Campania e soprattutto a Cales, con la campana «B-oide». D'altra parte, come la campana A, questa ceramica che compare in Etruria durante la prima metà del II sec. viene esportata copiosamente e lontano, conoscendo nel suo repertorio di forme un impoverimento che andrà a lasciare il campo libero, per quanto riguarda specifici vasi per bere, tanto ai vasi di metallo quanto ai vasi a parete sottile. Si può dire altrettanto, mutatis mutandis, della campana C, definita, come le precedenti, da N. Lamboglia, una ceramica dall'impasto grigio d'origine siracusana, esportata in tutte le regioni del Mediterraneo occidentale, ma in quantità assai inferiori rispetto alla A e alla B.
Nell'Oriente mediterraneo, a Pergamo e quindi in Siria, a partire dal II sec. a.C. compaiono ceramiche a vernice rossa che molto rapidamente sostituiscono nel favore dei consumatori la ceramica a vernice nera. Un fenomeno analogo avviene in Occidente all'inizio della seconda metà del I sec. a.C. con la nascita della sigillata aretina, la quale del resto si pone nella continuità di una classe particolare della «cerchia della campana B», la ceramica aretina a v. n. (una delle numerose e interessanti produzioni a v. n. dell'Italia settentrionale durante i secoli II-I a.C., di cui alcune sono ornate da impronte di gemme). Non si tratta solamente di un cambiamento di gusto, già di per sé considerevole dopo secoli di regno assoluto della ceramica a v. n. per il vasellame di media qualità. Il mutamento è anche tecnico (uso del forno con tubature che permette una cottura ossidante dal principio alla fine, uso di matrici), socio-economico (ricomparsa delle firme degli artigiani sui vasi, diffusione a grande distanza attraverso la fondazione di succursali piuttosto che l'esportazione dei manufatti) e artistico (ritorno, nella sigillata decorata, a modelli greci arcaizzanti o ellenistici). La fine della ceramica a v. n. - che non sopravviverà oltre il I sec. della nostra èra, se non in certe regioni dell'Italia settentrionale o delle Marche - corrisponde alla comparsa di nuove condizioni di lavoro e di commercializzazione oltreché ai nuovi gusti estetici del periodo augusteo e, a conti fatti, è il simbolo, in questo ambito particolare, del passaggio dalla repubblica all'impero.
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Faciès dei secoli II-I: In generale: J.-P. Morel, Céramiques d'Italie et céramiques hellénistiques, in P. Zanker (ed.), Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium Göttingen 1974, Gottinga 1976, II, pp. 471-501. - Campana A: J.-P. Morel, La ceramica campana A nell'economia della Campania, in Napoli antica (cat.), Napoli 1985, pp. 372-378; F. Accorona e altri, La fornace di Corso Umberto, ibid., pp. 378-385; J.-P. Morel, Remarques sur l'art et l'artisanat de Naples antique, in Neapolis. Atti del XXV Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto Taranto 1988, pp. 335-351; E. Laforgia, Ceramica a vernice nera dello scarico di fornace di Corso Umberto, ibid., pp. 362-366; L. Long, L'épave Riou 3 à Marseille. Un chargement d'amphores Dressel 1 e stampillées en grec et de céramique campanienne A tardive, in Cahiers d'Archéologie Subaquatique, VII, 1988, pp. 159-183. - Campana C: P. Pelagatti, Stato e prospettive degli studi di ceramica romana in Sicilia, in ReiCretRomFautActa, XI-XII, 1969-1970, pp. 76-89. - Gruppo delle «anse a orecchia»: A. Ballanti, Céramique étrusco-campanienne à vernis noir, Parigi 1969 (Bolsena); G. Riccioni, Deux kylikes "à anses en oreille» à vernis noir de Rimini, in ReiCretRomaFautActa, XXV-XXVI, 1987, pp. 241- 254. - Cerchia della campana B e B-oide: P. Arcelin, A propos des céramiques italiques tardives à vernis noir du groupe B. Notes de mission à Cosa et à Calés (Italie), in Travaux du LAPMO, Aix-en-Provence 1981, pp. 11-15. - Ceramica aretina a ν. n. e altre ceramiche a v. n. tarde dall'Italia settentrionale: M. Schindler, Die «schwarze Sigillata» des Magdalensberges, Klagenfurt 1967; P. Piana, La ceramica campana della necropoli di S. Bernardo di Omavasso, in RivStLig, XXXV, 1969, pp. 122-142; V. Righini, Il piatto del «Pegaso» di Faenza, in Faenza, LV, 1969, 3-6, pp. 22-24; L. Bertacchi, Due patere di ceramica di vernice nera con impressioni di gemme, in Atti del Convegno internazionale di studi sui problemi della ceramica romana di Ravenna, Bologna 1972, pp. 133-138; M. Schindler, Die «schwarze Sigillata» des Magdalensberges, 2 ( Magdalensberg-Grabungsberichte, XV), Klagenfurt 1986, pp. 345-390. - Produzioni tarde di Cales: L. Pedroni, Due bolli in «pianta pedis» da Cales e la ceramica a vernice nera terminale, in Samnium, LXIII, 1990, pp. 169-181; V. Escrivá Torres, C. Marín Jordá, Α. Ribera i Lacomba, Unas producciones minoritarias de barniz negro en Valentía durante el s. II a. J. C., in Estudios de arqueología ibérica y romana. Homenaje a E. Pía Ballester, Valenza 1992, pp. 443-468. - Altre produzioni tarde: P. Arcelin, Céramiques campaniennes et dérivées régionales tardives de Glanum ( Saint- Rémy-de-Provence), in DocAMerid, XIV, 1991, pp. 205-238. - Alcune ceramiche grigie in margine alla ceramica campana: L. Giardino, Sulla ceramica a pasta grigia di Metaponto e sulla presenza in essa di alcuni bolli iscritti, in Studi di Antichità, I, 1980, pp. 247-287; M. Gamba, A. Ruta Serafini, La ceramica grigia dallo scavo dell'area ex-Pilsen a Padova, in Archeologia Veneta, VII, 1984, pp. 7-80; S. Patitucci Uggeri, Classificazione preliminare della ceramica grigia di Spina, in P. Delbianco (ed.), Culture figurative e materiali tra Emilia e Marche. Studi in memoria di M. Zuffa, Rimini 1984, pp. 139-169; J. J. Ventura Martínez, La cerámica campaniense «C» y pseudocampaniense de pasta gris en la provìncia de Sevilla, in Lucentum, IV, 1985, pp. 125-132. - Transizione tra v.n. e vernice rossa: Ch. Goudineau, La céramique arétine lisse ( Bolsena), Parigi 1968; A. Tchernia, Les fouilles sous-marines de Planier ( Bouches-du-Rhône), in CRAI, 1969, pp. 291-309; R. Lequément, B. Liou, Céramique étrusco-campanienne et céramique arétine, à propos d'une nouvelle épave de Marseille, in Mélanges offerts à Jacques Heurgon, II, Roma 1976, pp. 587-603.
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Grecia: I. R. Metzger, Die hellenistische Keramik in Eretria, Berna 1969; G. R. Edwards, Corinthian Hellenistic Pottery, Princeton 1975; J.-P. Morel, Céramiques à vernis noir d'Italie trouvées à Délos, in BCH, CX, 1986, 1, pp. 461-493. - Oriente, Egitto: J. Schäfer, Hellenistische Keramik aus Pergamon, Berlino 1968; J.-P. Morel, Observations sur les céramiques à vernis noir d'Alexandrie, in N. Bonacasa e altri (ed.), Alessandria e il mondo ellenistico-romano, Roma 1995, pp. 368-376.
Italia e isole (Sicilia, Sardegna e Corsica): M. Vegas, Estudio de la cerámica del sondeo ante el tempio de Gabii, in CuadRom, XII, 1969, p. 93-140; P. A. Gianfrotta, Scavo nell'area del Teatro Argentina ( 1968-1969): ceramica a vernice nera e altri materiali, in BullCom, LXXXI, 1968-1969, pp. 37-72; E. Fabbricotti, Ritrovamenti archeologici sotto la chiesa della Visitazione di Santa Maria «in Camuccia», Todi 1969; A. M. Bisi, Lilibeo ( Marsala). Nuovi scavi nella necropoli punica ( 1969-1970), in NSc, 1971, pp. 662-762; J. Mertens (ed.), Ordona III, Bruxelles-Roma 1971, passim; G. Riccioni, Classificazione preliminare di un gruppo di ceramiche a vernice nera di Ariminum, in Atti del Convegno internazionale di studi sui problemi della ceramica romana di Ravenna..., cit., pp. 229- 244; J. e L. Jehasse, La nécropole préromaim d'Aléria, Parigi 1973; G. Cavalieri Manasse, Ceramica a vernice nera, in A. Frova (ed.), Scavi di Lunì. Campagne di scavo 1970-1971, Roma 1973, coli. 247-277; ead., Ceramica a vernice nera, in A. Frova (ed.), Scavi di Luni. Campagne di scavo 1972-1973-1974, Roma 1977, pp. 78-113; L. Mercando, Portorecanati ( Macerata). La,necropoli romana di Portorecanati, in NSc, 1974, pp. 142-430; M. Michelucci, A. Romualdi, Per una tipologia della ceramica a vernice nera di Roselle, in StEtr, XLII, 1974, pp. 99-110; M. Cristofani, Volterra ( NSc, 1973, Suppl.), Roma 1976; A. Nicosia, Ceramica a vernice nera della stipe di Mèfete ( Aquinum nel territorio di Castrocielo, Frosinone), Pontecorvo 1976; L. Cavagnaro Vanoni, Tarquinia ( Viterbo). Sei tombe intatte nella necropoli dei Monterozzi in località Calvario, in NSc, 1977, pp. 157-210; J.-P. Morel, La Sicile dans les courants commerciaux de la Méditerranée sud-occidentale, d'après la céramique à vernis noir, in Φίλιας χάριν, Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, Roma 1980, V, pp. 1561-1582; A. Nicosia, Ceramica repubblicana nella media valle del Liri, in Museo Civico Pontecorvo. Quaderni, 1, Pontecorvo 1979, pp. 23-41; F. Schippa, Officine ceramiche falische. Ceramica a vernice nera nel Museo di Civita Castellana, Bari 1980; J.-P. Morel, La ceramica e le altre merci d'accompagno nel commercio da e per Roma in età repubblicana, in Misurare la terra: materiali da Roma e dal suburbio (cat.), Modena 1985, pp. 172-179; P. Bernardini, La ceramica a vernice nera dal Tevere, Roma 1986; P. Frontini, La ceramica a vernice nera nei contesti tombali della Lombardia, Roma 1986; L. Pedroni, Ceramica a vernice nera da Cales, 2 voll., Napoli 1986; AA.VV., Celti ed Etruschi nell'Italia centro-settentrionale dal V sec. a.C. alla romanizzazione, Bologna 1987, passim·, C. Tronchetti, Bi- thia II: la ceramica a vernice nera a pasta grigia, in QuadACagl, V, 1988 (1989), pp. 141-152; M. Barra Bagnasco (ed.), Locri Epizefiri, II, Firenze 1989, passim·, G. De Benedittis, Monte Vairano: la ceramica a vernice nera della fornace di Porta Vittoria, in Conoscenze, 6, 1990, p. 29-70; L. Pedroni, Ceramica a vernice nera da Cales, 2, Napoli 1990; R. B. Caflisch, Die Fimiskeramik von Monte Iato. Funde 1971-1982, Zurigo 1991; C. Tronchetti, La ceramica a vernice nera di Cagliari nel IV e III sec. a.C.: importazioni e produzioni locali, in Atti del Il Congresso di studi fenici e punici, Roma 1987, Roma 1991, III, pp. 1271-1278; F. Maselli Scotti, Introduzione alla ceramica a vernice nera di Aquileia, in Rei- CretRomFautActa, XXXI-XXXII, 1992, pp. 31-39; C. Michelini, La ceramica ellenistica di Entello. Notizie preliminari, in Giornate intemazionali di studi sull'area elima, Pisa-Gibellina 1992, pp. 463-481; A. Romualdi (ed.), Populonia in età ellenistica. I materiali dalle necropoli, Firenze 1992; F. Berti, P. G. Guzzo (ed.), Spina. Storia di una città tra Greci ed Etruschi (cat.), Ferrara 1993, passim·, C. A. Di Stefano, Lilibeo punica, Marsala 1993; V. Valentini, Gravisca, scavi nel santuario greco. Le ceramiche a vernice nera, Bari 1993.
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