verita
Carattere di ciò che è vero, conformità o coerenza a principi dati o a una realtà obiettiva, e, in partic., ciò che è vero in senso assoluto. Nella storia della filosofia il concetto di v. è stato concepito in almeno due diverse prospettive, l’una ontologica, l’altra strettamente connessa al discorso umano. Nella prospettiva ontologica la v. è considerata come una proprietà intrinseca dell’essere; nell’altra prospettiva il concetto di v. è stato variamente elaborato e le analisi vertenti su esso devono essere suddivise in due categorie, a seconda che intendano fornire una definizione o un criterio di verità. La ricerca di un criterio di v. è parte integrante del problema gnoseologico, cioè di quale tipo di evidenza (sensibile, intellettiva, induttiva, deduttiva) possa costituire la garanzia di un’autentica conoscenza. Di là dal più generale problema gnoseologico, comunque, la questione della v. riguarda specificamente il chiarimento di che cosa significhi essere vero, indipendentemente dai modi (o criteri) di conseguire la verità.
Nella cultura greca il concetto filosofico di v. (αλήϑεια) inizia a delinearsi nel corso del sec. 6° a.C., negli scritti dei naturalisti e, specialmente, nel poema di Parmenide (➔), il quale per primo svolge la contrapposizione αλήϑεια/δόξα (➔ opinione), ponendo il pensiero di fronte al famoso bivio tra la «via della persuasione», di chi afferma unicamente l’«essere» e l’«è» (senz’altra determinazione), e la «via dell’errore», di coloro che sostengono che «il non essere è» (contraddicendosi), o che affermano contemporaneamente l’essere e il non-essere. Caratterizzata dall’indistinzione tra realtà, pensiero e parola, tra sfera ontologica e sfera logico-verbale, propria della mentalità arcaica, la concezione parmenidea segna l’inizio di quel paradigma ontologico della v. che tanto influsso eserciterà nella speculazione successiva, fino all’età moderna, attraversando diversi orientamenti filosofici. Con Zenone di Elea e, soprattutto, con Melisso di Samo, il vero-essere di Parmenide assume i tratti dell’eternità e dell’immobilità, che fungeranno, più o meno esplicitamente, da criteri nelle varie riformulazioni e complicazioni del paradigma ontologico, introducendo il grande motivo del contrasto con l’eraclitismo, affermante la v. come unione di essere e non-essere (divenire). Così, Platone, sulla scia della dottrina socratica del concetto, identifica la v. con l’idea (esemplarmente con l’idea del bene), dotata di esistenza oggettiva ed esente da mutamento; così Plotino, con la sua dottrina dell’Uno, risolve la v. nel puro sapersi dell’intelletto divino, ponendosi come importante punto di riferimento per le prime teorizzazioni cristiane. A Platone risale peraltro la prima formulazione della v. quale caratteristica del discorso che «dice gli enti come sono», cui corrisponde quella del falso come proprietà del discorso «che dice come non sono» (Cratilo, 385 b). Definizione, questa, che sarà codificata da Aristotele, nel celebre luogo della Metafisica (IV, 7, 1011 b) secondo cui «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero». Se tale definizione – che si collega strettamente al principio di (non) contraddizione – assurgerà a paradigma delle concezioni ‘corrispondentistiche’ della v., negli scritti aristotelici è presente anche un’altra, più fondamentale idea del vero, quale perfetta adeguazione del pensiero (noetico) al proprio oggetto, da cui scaturiscono i termini che la dianoia collega o separa nel giudizio e nel sillogismo. Tuttavia, già nelle rielaborazioni delle grandi scuole postaristoteliche, e in partic. dello stoicismo, sarà soprattutto la prima concezione aristotelica ad affermarsi, mentre inizia a porsi esplicitamente il problema del criterio della v., che Epicuro individua nella sensazione, gli stoici nell’atto catalettico; con la critica scettica a entrambi questi criteri emerge, per la prima volta in forma compiuta, la posizione filosofica di chi nega la possibilità stessa di raggiungere il vero.
Nelle discussioni medievali intorno al tema della v. un ruolo determinante è assunto dalla fede cristiana in un Dio creatore, causa di tutto l’essere. In tale prospettiva si colloca per es. la figura di Agostino di Ippona, il quale considera la v. come eterna e immutabile, e la identifica nella sua pienezza con Dio stesso. All’uomo, che dispiega invece la propria esistenza nel mondo mutevole del divenire e del contingente, è dato secondo Agostino di avvicinarsi gradualmente alla v. per mezzo della propria anima. Ogni qualvolta infatti l’uomo distoglie il proprio sguardo dalla caducità del mondo sensibile, e rivolge invece l’attenzione verso la sua anima, quest’ultima viene illuminata dalla luce del Verbo interiore (Cristo) che è il fondamento ultimo di ogni verità. Fortemente legato alla tradizione agostiniana è il De veritate di Anselmo d’Aosta, primo testo medievale a occuparsi specificatamente di questo tema. In esso Anselmo definisce la v. come rectitudo (rettitudine), ossia come conformità in relazione a un modello che altro non è che l’idea stessa della cosa in Dio. Tale modello costituisce per l’uomo il fondamento non solo del pensiero, ma anche della volontà e dell’azione, che possono dirsi veri e retti solo se rispettano tale conformità. Come Agostino, Anselmo ritiene quindi che la somma v., che include tutte le altre, sia Dio stesso. Quest’ultimo aspetto è ripreso nel 13° sec. da Tommaso d’Aquino il quale, nelle sue Quaestiones disputatae de veritate, fa propria la celebre definizione di matrice avicenniana della v. come adaequatio rei et intellectus. A differenza di Agostino e Anselmo però, i quali sostengono che la misura della v. è data dall’intelletto, e quindi dal soggetto conoscente, Tommaso ritiene invece, forte della tradizione aristotelica a cui fa riferimento, che tale misura sia fornita dall’oggetto conosciuto. Se la riformulazione del paradigma classico consente a Tommaso di affermare anche una relativa autonomia della ragione dalla fede, l’esigenza di discutere liberamente intorno a problemi delicatissimi, senza attirarsi l’accusa di eresia, porterà i seguaci dell’averroismo latino a insistere sulla diversità fra gli ambiti della ragione e della fede – pur essendo l’una subordinata all’altra – ossia sulla posizione che la storiografia ha riassunto nella formula, in certa misura fuorviante, di ‘teoria della doppia verità’ (➔).
La filosofia moderna appare interessata meno al problema della definizione che a quello dei criteri di verità. Così, sebbene la definizione di Tommaso sia generalmente accolta – per es., da Descartes, Leibniz, Wolff e dallo stesso Kant, il quale, dandola per scontata, la considerava secondaria rispetto al problema delle condizioni di validità della conoscenza –, al paradigma classico si sostituisce gradualmente un modello gnoseologico della v., in cui assurge a motivo centrale il tema della certezza, in quanto criterio che consente di riconoscere la v. indipendentemente da qualsivoglia pregiudizio o autorità esterna al soggetto, sulla base della sola ragione. Grande influsso eserciterà, in questa prospettiva, la posizione di Descartes, il quale individua nel cogito il criterio fondamentale della certezza, sul quale poggiano le v. matematiche e quelle metafisiche, nonché le conoscenze attinenti alla res extensa. Tuttavia in Descartes tra il criterio di certezza e la v. vi è un’articolazione, a livello metafisico, in quanto l’evidenza attuale delle v. matematiche o logiche (le v. eterne della tradizione) non è autosufficiente, ma deve essere garantita dalla veracità divina, ossia dalla necessaria condizione che Dio non sia ‘ingannatore’ rispetto al contenuto evidente del pensiero; diversamente la certezza del cogito attesterebbe unicamente l’esistenza del soggetto pensante e non la v. di ciò che appare evidente alla mente. Alla concezione cartesiana si riallaccia Spinoza, che fa però discendere la certezza dalla conoscenza di Dio in quanto sostanza unica; e una declinazione notevolmente diversa del motivo della certezza si ha nella filosofia inglese, per la quale la v. si trova negli enunciati e non riguarda né le cose («veritas enim in dicto, non in re consistit», afferma Hobbes), né le idee in quanto non sono oggetto di un giudizio (come sostiene Locke). Particolare rilievo assumerà, nella declinazione gnoseologica del paradigma classico, la distinzione, operata da Leibiniz, tra v. di ragione, la cui v. è basata sui principi logici della ragione (principio di non contraddizione) ed è quindi necessaria, e v. di fatto, ossia giudizi la cui v. dipende dai fatti dell’esperienza (principio di ragion sufficiente) ed è quindi contingente. La distinzione leibniziana si ritrova in Hume (nella contrapposizione di relazione di idee e materie di fatto), nonché in Kant (che parla di giudizi analitici, basati sulla ragione, e giudizi sintetici, basati sull’esperienza), e verrà ripresa (nella versione humeana) nel Novecento dal neopositivismo. Distaccandosi invece dal modello cartesiano, incentrato sulla certezza soggettiva del cogito, Vico giunge a teorizzare la «conversione» del vero con il fatto, come criterio della sua «scienza nuova». Nell’ambito dell’idealismo postkantiano sarà Hegel a ripensare l’intera problematica, innestando la definizione classica in una teoria processuale e dinamica del sapere, secondo la quale il vero si compie solo nell’intero, ossia nel sistema filosofico, attraverso il superamento dialettico di tutte le opposizioni concettuali, e consiste propriamente «nel fatto che l’oggettività corrisponde al concetto, non nel fatto che cose esterne corrispondano alle mie rappresentazioni». Se la teorizzazione hegeliana ispirerà il neoidealismo angloamericano (Bradley, B. Blanshard), maggiore risonanza riscuoterà la teoria pragmatistica della v., pure essa di matrice angloamericana, che stabilisce uno stretto rapporto tra la v. di un enunciato o una credenza e le sue conseguenze pratiche; secondo James, che generalizzava idee espresse originariamente da Peirce nell’ambito metodologico della verifica sperimentale di ipotesi, la v. di un enunciato consiste nella sua utilità pratica, sia sul piano dell’organizzazione delle conoscenze sia su quello della convivenza sociale. E non meno influente risulterà, nel corso del Novecento, la posizione di Nietzsche, il quale, interpretando la «volontà di v.» come espressione di una tradizione metafisica improntata alla trascendenza, sosterrà la sua dissoluzione nella «volontà di potenza».
Agli inizi del 20° sec. la dottrina della v. come corrispondenza rimane comunque un punto di riferimento importante per la riflessione filosofica, specialmente nella veste logico-linguistica che essa assume negli scritti di Russell e di Wittgenstein. Nel suo Tractatus logico-philosophicus quest’ultimo elabora addirittura una teoria «raffigurativa» del linguaggio, per cui la v. diventa una relazione di corrispondenza isomorfica tra linguaggio e realtà, enunciati e fatti. Gran parte delle discussioni sul problema della v. saranno quindi volte a precisare, ma anche a problematizzare, la natura del rapporto di corrispondenza tra linguaggio e realtà. A Tarski si deve senz’altro il tentativo più autorevole di formulare in termini rigorosi l’intuizione aristotelica. Nel fornire una definizione semantica del concetto di v., Tarski mostra l’impossibilità di una definizione valida per il linguaggio naturale e, limitando il suo interesse a porzioni finite e formalizzate di linguaggio, mette in evidenza che, per essere «adeguata», una definizione di v. non può che basarsi su una distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio. Alla definizione di Tarski, che pure rivendica la propria neutralità filosofica, si riferirà buona parte della tradizione analitica e della riflessione epistemologica, di orientamento sia neopositivistico (Carnap) sia realistico (Popper). In partic., sullo sfondo della riflessione neoempirista sulla verificabilità (➔ verificazione, principio di), si colloca la proposta epistemologica di Popper di assumere la falsificabilità (ossia il non presentarsi di un dato contrario che infici l’assunto proposto) come criterio della verità. La concezione corrispondentistica della v. continua a costituire un punto di riferimento nella filosofia analitica del secondo dopoguerra, nonostante la crescente consapevolezza del problematico rapporto tra linguaggio e fatti extralinguistici. Così, Quine, pur sostenendo una posizione riconducibile al paradigma deflazionista – ossia alla linea interpretativa che, riallacciandosi alle tesi di Ramsey, propone di ‘sgonfiare’ il concetto di v. di tutte le interpretazioni filosofiche che lo hanno riempito di elementi superflui –, considera indispensabile l’uso del termine vero in quanto stabilisce una relazione tra il linguaggio e il mondo. Analogamente Putnam, contrapponendosi alle posizioni di Rorty – tendenti a ridurre la v. a una nozione intraculturale in base a un’interpretazione radicale del cosiddetto paradigma epistemico, che rimarca il nesso tra v., conoscenze e procedure di giustificazione – sottolinea l’esigenza di garantire il carattere og- gettivo del vero. Nel panorama della filosofia analitica ha anche dimostrato una notevole persistenza la tesi della v. come concetto primitivo; già sostenuta da Moore e Frege agli inizi del Novecento, essa è stata rielaborata, sul finire del secolo, da Davidson. Un più marcato distacco dal paradigma classico della v. come corrispondenza si è avuto invece nella cosiddetta filosofia continentale. Una posizione di rilievo ha assunto, in tale prospettiva, la linea interpretativa proposta da Heidegger, che, riprendendo criticamente l’impostazione di Nietzsche, si è sforzato di chiarire l’intima connessione di quel paradigma con la tradizione metafisica occidentale, nonché il significato originario della v. in quanto αλήϑεια (cioè «non- nascondimento»); in partic., dopo aver riportato (in Essere e tempo) il rapporto di adeguazione, quale si manifesta nel giudizio vero, all’«apertura originaria» dell’esserci (Erschlossenheit), interpretandolo come disvelamento che si attua nell’esistenza autentica (essere-per-la-morte), a seguito della Kehre Heidegger ha individuato nell’essere stesso il luogo in cui la v. si rivela, attraverso l’ascolto del linguaggio. Variamente ripresa nell’ambito del postmodernismo, del poststrutturalismo e del cosidetto pensiero debole, la posizione heideggeriana è stata svolta in chiave ermeneutica da Gadamer.