VERITA PROCESSUALE
VERITÀ PROCESSUALE. – Una nozione dubbia. Una verità possibile. Quale verità. Verità e realtà. Verità e prova. Verità e probabilità. Bibliografia
Una nozione dubbia. – Nel linguaggio corrente l’espressione v. p. viene normalmente usata in due significati che è opportuno tenere distinti. In un primo significato, diffuso soprattutto tra i processualisti, l’espressione viene usata per affermare che nel processo non sarebbe possibile stabilire una vera e propria verità, come invece accade – si suppone – al di fuori di esso, e in particolare nell’ambito dell’indagine scientifica. Si parla allora di una verità formale, o addirittura soltanto di una fissazione formale dei fatti, che non corrisponderebbe a una verità effettiva in quanto nel processo esistono regole che escludono prove rilevanti, a volte determinano a priori l’efficacia di determinate prove, ne regolano le modalità di assunzione, e inoltre – con il passaggio in giudicato della sentenza – pongono un limite invalicabile alla ricerca della verità sui fatti della causa (Tuzet 2013, p. 94).
Pare tuttavia che questa distinzione non sia attendibile (Taruffo 2009, p. 83). Da un lato, fuori del processo non si conseguono verità ‘assolute’ o ‘effettivamente vere’: gli epistemologi dicono che la scienza è fallibile, variabile in funzione del progresso delle ricerche, e che quindi la verità scientifica non è mai assoluta. D’altronde, l’esperienza quotidiana insegna che molto spesso si prendono decisioni anche importanti sulla base di conoscenze fattuali incerte, non più che relativamente attendibili, e quindi ben lontane – a maggior ragione – da qualsiasi verità che si pretenda assoluta. Dall’altro lato, bisogna osservare che non tutti i processi hanno la medesima disciplina (con una varietà che aumenta considerevolmente se si considerano vari ordinamenti), con la conseguenza che alcuni di essi sono conformati davvero in modo da limitare o addirittura impedire la scoperta della verità sui fatti, mentre in altri casi la disciplina processuale delle prove è configurata in modo da agevolare la scoperta della verità dei fatti. Vale al riguardo la sempre fondamentale indicazione di Jeremy Bentham, secondo il quale la disciplina ideale delle prove dovrebbe consistere di una sola regola fondamentale, secondo cui «tutte le prove rilevanti per l’accertamento della verità di fatti dovrebbero essere ammesse» (J. Bentham, Rationale of judicial evidence, 1827, 5° vol., p. 490). Vi sono dunque buone ragioni per ritenere che l’accezione limitativa dell’espressione verità processuale, sostanzialmente finalizzata ad asserire che nel processo non si accerta la verità, dovrebbe essere abbandonata (Tuzet 2013, p. 97).
Una verità possibile. – Nel secondo, e corretto, significato, l’espressione si riferisce al fatto che nel contesto del processo è possibile ricostruire la verità dei fatti. In proposito occorrono tuttavia alcuni chiarimenti. Anzitutto, vale la pena di considerare che la decisione giudiziaria, in base al principio generale di legalità – fondamentale in ogni Stato costituzionale di diritto – deve essere fondata su un’interpretazione e applicazione corretta della norma che regola il caso. In linea generale, e in base a un’indicazione corrente tra i filosofi del diritto, questa norma è composta da due elementi: una condizione e una conseguenza. Mentre quest’ultima è relativa alla qualificazione giuridica che deve essere riferita ai fatti del caso, la condizione consiste nell’enunciazione – in termini generali – di un tipo di fatto al quale si riferisce tale qualificazione. Si parla perciò di fattispecie astratta per sottolineare sia che il fatto in questione viene individuato in termini generali, sia – soprattutto – per indicare che la condizione posta dalla norma è un enunciato fattuale. Da questa schematica indicazione deriva che la conseguenza giuridica prevista dalla norma può essere applicata nel caso di specie se e solo se si è verificata la condizione, ossia se e solo se si è accertato che si è verificato un evento (fattispecie concreta) corrispondente alla descrizione astratta che indica la premessa dalla cui esistenza dipende tale conseguenza. Dunque, tale accertamento costituisce una condizione necessaria per la corretta applicazione della norma nel caso concreto. In sostanza: la determinazione di ciò che è accaduto – ossia la scoperta della verità dei fatti – costituisce un elemento fondamentale e necessario della struttura della decisione giudiziaria (Taruffo 2009, p. 114).
Da queste considerazioni discende che il processo può essere concepito anche (ovviamente, non soltanto) come un’attività di carattere epistemico, essendo esso orientato anche all’accertamento della verità dei fatti rilevanti del caso (Taruffo 2009, p. 135). Come già si è accennato, ogni specifico tipo di processo può essere più o meno efficiente come metodo per conseguire questo fine. Tuttavia non pare dubbio che la decisione finale sia giusta solo quando la funzione epistemica del processo si realizza a un livello adeguato, e si giunge ad accertare se i fatti in questione sono realmente accaduti.
Quale verità. – Una volta detto che l’accertamento della verità dei fatti costituisce una condizione necessaria per la correttezza (si può dire: la giustizia) della decisione, alcune precisazioni sono necessarie in ordine al concetto di verità che ha senso nel contesto del processo.
Anzitutto, va specificato che, mentre nel linguaggio corrente si parla di ‘verità dei fatti’, in realtà (salvo limitatissime eccezioni) i fatti non entrano direttamente nel processo, essendosi di regola verificati prima e al di fuori di esso. Si tratta invece della verità (o falsità) di enunciati che parlano dei fatti rilevanti. Dunque, non entra in gioco alcuna idea della verità come essenza o come entità, bensì soltanto l’idea della verità come predicato di una proposizione descrittiva (D’Agostini 2011, p. 33) o di una narrazione, ossia di un contesto di proposizioni descrittive.
Come si è già accennato, non si tratta di una verità puramente formale. Non si tratta neppure, tuttavia, di una verità assoluta: tale verità non è conseguibile al di fuori del processo (neppure nell’ambito della conoscenza scientifica), e certamente non può essere conseguita all’interno del processo, dato che l’attività epistemica che in esso si svolge è soggetta a tutti i limiti che caratterizzano in concreto la conoscenza umana. Tuttavia va sottolineato che questa idea aletica della verità svolge una funzione importante nell’ambito del processo: si potrebbe dire che essa rappresenta il Nord, ossia un essenziale punto di riferimento (si potrebbe parlare di un ideale regolativo) che non può essere raggiunto nella pratica, ma che è indispensabile per orientare l’attività di tutti i soggetti che partecipano all’attività epistemica che si svolge nel processo. Tale attività, allora, può giungere a un’approssimazione che, a seconda dei casi, può essere più o meno vicina alla verità aletica delle proposizioni in questione.
Non essendo assoluta, dunque, occorre dire che la verità fattuale che si può conseguire nel processo è inevitabilmente relativa. Anche a questo proposito, tuttavia, occorre una precisazione importante. Non si tratta di relatività nel senso puramente soggettivo del termine, ossia nel senso che ogni soggetto (o ogni gruppo di soggetti) possiede una sua propria verità (con la conseguenza non trascurabile che, esistendo innumerevoli verità individuali, non esisterebbe l’errore; cfr. Marconi 2007, p. 49). Si tratta, invece, di relatività oggettiva, tipica di ogni forma di conoscenza razionale (Taruffo 2009, p. 82), ossia del fatto che il grado di approssimazione alla verità di un enunciato dipende essenzialmente dalla quantità e dalla qualità delle informazioni che sono utili per valutare l’attendibilità dell’enunciato (Haack 2014, p. 218), nonché dalla validità del metodo che si impiega per valutare e utilizzare tali informazioni.
Un’ulteriore necessaria considerazione deriva dal fatto che nel processo emergono varie narrazioni fattuali compiute da diversi soggetti: l’attore e il convenuto nel processo civile, l’organo dell’accusa e la difesa dell’imputato nel processo penale, i testimoni, i consulenti tecnici e – alla fine – anche il giudice (Taruffo 2009, p. 33; Tuzet 2013, p. 27). Sotto questo aspetto il processo può essere interpretato anche come un contesto di narrazioni – in tutto o in parte diverse – relative ai fatti del caso. Su questo aspetto della dinamica processuale si fondano alcune concezioni di stampo narrativistico, secondo le quali proprio sulle narrazioni deve fondarsi il giudice per giungere alla sua narrazione, ossia alla versione dei fatti che pone a fondamento della decisione. In questo senso si dice che il giudice deve preferire la narrazione più coerente, e si parla di un criterio di plausibilità relativa per la scelta tra le varie narrazioni possibili, o anche della inferenza alla migliore spiegazione tra le diverse descrizioni dei fatti (Tuzet 2013, p. 137). Non è possibile analizzare qui nel dettaglio queste concezioni, ma si può sottolineare che esse hanno in comune un aspetto fondamentale, consistente nel fare perno sulla qualità narrativa delle descrizioni dei fatti, e soprattutto sulla loro coerenza o verosimiglianza, senza fare, però, alcun riferimento alla veridicità dell’una o dell’altra narrazione. Talvolta sembra che si presupponga una sorta di equivalenza tra coerenza narrativa e verità di una narrazione, il che pare palesemente assurdo: vi possono essere – come accade nei romanzi – narrazioni perfettamente coerenti che tuttavia non sono (e neppure pretendono di essere) veritiere, e anzi sono manifestamente false. D’altra parte, è difficile intendere il processo come una sorta di competizione letteraria alla fine della quale il giudice premia, facendola propria, la narrazione migliore. In ogni caso, adottare qualche versione del criterio della coerenza narrativa come standard che il giudice dovrebbe seguire nella sua ricostruzione dei fatti, significa escludere che questa ricostruzione debba essere veritiera.
Verità e realtà. – Secondo un’opinione largamente diffusa tra filosofi ed epistemologi, è la realtà che determina la verità o la falsità delle proposizioni che la descrivono (D’Agostini 2011, p. 86). Così si definisce la verità aletica di cui si è già fatto cenno: essa non si consegue nel processo, né in altri contesti, ma costituisce tuttavia il punto di riferimento dell’attività epistemica che si svolge nel processo. In sostanza, allora, il significato dell’espressione verità processuale si può definire come l’approssimazione alla verità che deriva dal grado di corrispondenza alla realtà delle narrazioni che trovano spazio nel processo. Pare evidente che questo modo di intendere la v. p. implica l’assunzione di specifiche premesse filosofiche di carattere realistico (ossia relative all’esistenza di una realtà esterna al soggetto che conosce) e di carattere epistemico (relativa alla possibilità che questa realtà venga conosciuta con metodi razionali), oltre che l’adozione, criticamente consapevole, di una teoria corrispondentista della verità (D’Agostini 2011, pp. 48, 86). Si può d’altronde osservare che queste premesse e questa teoria appaiono non solo appropriate, ma anzi necessarie quando il problema della verità si colloca nel contesto del processo. Il processo, infatti, non verte su parole, favole o fantasie più o meno coerenti, ma verte su fatti che si assumono come verificati nella realtà empirica, ossia nella vita effettiva dei soggetti ai quali si applicano le norme giuridiche che vengono usate come criteri di decisione nei singoli casi concreti. Per così dire, nel processo le norme non si applicano in vacuo, senza riferimenti a ciò che avviene nella vita reale delle persone, e si applicano, invece, proprio agli eventi che si realizzano nella realtà.
Per queste ragioni non può essere accettata una concezione puramente coerentista della verità processuale. Il criterio della coerenza narrativa può avere, nel processo, solo un rilievo residuale, per quanto non privo di rilevanza. Tale rilievo può essere così definito: in presenza di più proposizioni di cui si è stabilita la veridicità (nel senso della loro corrispondenza agli eventi che descrivono) è possibile che esse vengano ‘combinate’ – come i pezzi di un puzzle o le tessere di un mosaico – secondo schemi (o disegni) diversi, ossia che possano dar luogo a narrazioni in tutto o in parte differenti. In questa situazione, ma solo in questa situazione, un criterio razionale di scelta può essere quello della ‘migliore’ coerenza di una narrazione rispetto alle altre narrazioni possibili. Si tratterà, in ogni caso, di una narrazione che corrisponde al criterio della verità epistemica nel contesto del processo (Taruffo 2009, p. 226).
Verità e prova. – Come si è più volte accennato, la v. p. può solo approssimarsi in varia misura alla verità aletica. Nel contesto del processo il grado di approssimazione alla verità che può realizzarsi dipende dalla quantità e qualità delle prove di cui caso per caso si dispone. Va sottolineato, infatti, che in base a un principio generale da tempo esistente in tutti gli ordinamenti processuali (ed enunciato, per es., nell’art. 115 c.p.c.) la decisione del giudice intorno ai fatti della causa può fondarsi esclusivamente sulle prove che sono state acquisite al giudizio (e non può far riferimento alla sua eventuale scienza privata di quei fatti). Sotto questo profilo è evidente che le prove costituiscono gli strumenti epistemici esclusivi a disposizione del giudice: sono cioè le fonti delle informazioni sulle quali il giudice deve fondare la propria decisione. Per così dire, le prove costituiscono un aspetto fondamentale, e necessario, dell’attività epistemica che si realizza nel processo per la ricerca della verità (Taruffo 2009, pp. 139, 160).
Ciò induce a considerare criticamente una diversa concezione della funzione della prova, che pure risulta abbastanza diffusa nella cultura processualistica. Secondo questa concezione la prova non avrebbe una funzione epistemica, e avrebbe invece una funzione retorico-persuasiva. In sostanza, essa servirebbe soltanto a creare nella mente del giudice una credenza intorno alla verità o alla falsità dei fatti: questa credenza non sarebbe però fondata su conoscenze razionali giustificate, ma semplicemente sulla persuasione in base alla quale il giudice finirebbe col convincersi di tale verità o falsità. Questa concezione non ha nulla a che vedere con la funzione epistemica della prova, ma non è del tutto infondata: essa corrisponde, infatti, al modo in cui prevalentemente gli avvocati si servono delle prove di cui dispongono. L’avvocato, invero, non ha alcun obbligo di attivarsi per la scoperta della verità dei fatti (soprattutto quando la conosce e sa che essa sarebbe in contrasto con la sua strategia difensiva): la sua obbligazione fondamentale, infatti, è diversa, e consiste nel cercare di far prevalere con tutti i mezzi legittimi la posizione del suo cliente. L’avvocato non si serve dunque delle prove per far sì che si scopra la verità, ma per persuadere il giudice a credere che il suo cliente meriti di essere dichiarato vincitore nella contesa processuale. Pare evidente, tuttavia, che questo uso delle prove, se ha senso per l’avvocato, non ha alcun senso per il giudice: costui non deve persuadere nessuno, e – come si è accennato in precedenza – il suo dovere fondamentale è di accertare la verità dei fatti come condizione necessaria per la corretta interpretazione e la corretta applicazione della norma su cui fonda la sua decisione.
Verità e probabilità. – Poiché, come si è visto, la verità conseguibile nel processo non può essere che un’approssimazione relativa alla verità aletica, il ragionamento che fonda la decisione del giudice intorno ai fatti viene spesso interpretato in termini di probabilità. In proposito occorre tuttavia fare chiarezza, poiché il concetto di probabilità non è affatto univoco, e anzi il termine viene normalmente usato per indicare due nozioni completamente diverse, che tuttavia emergono entrambe nei discorsi intorno alla ricostruzione giudiziale dei fatti. La prima nozione fa riferimento alla probabilità quantitativa (o anche: frequentista, statistica o pascaliana), ossia alla probabilità che si calcola essenzialmente per determinare la frequenza di un certo evento entro una popolazione data (Taruffo 2009, p. 91). La seconda nozione fa invece riferimento alla probabilità logica (detta anche baconiana), ossia alla logica proposizionale e alle inferenze che si formulano per derivare conclusioni da premesse in modo logicamente coerente e giustificato (Taruffo 2009, p. 207).
Secondo un’opinione abbastanza diffusa da alcuni anni, che trova origine negli Stati Uniti, ma viene proposta anche altrove, e in particolare in Italia (Garbolino 2014), la valutazione che il giudice formula (o dovrebbe formulare) intorno alle prove si articola secondo il calcolo delle probabilità, e in particolare secondo il teorema di Bayes, che permetterebbe di stabilire la variazione della probabilità di un enunciato (di cui si conosce la probabilità iniziale, o a priori) dovuta all’introduzione di un’informazione (di una prova) nel contesto. In tal modo si giungerebbe a individuare un risultato numerico (percentuale) che rappresenterebbe il grado di probabilità finale, a posteriori, dell’enunciato in questione. In sostanza, questo risultato numerico rappresenterebbe il ‘grado di verità’ dell’enunciato in questione. Si tratta di una concezione assai complessa e per molti versi interessante, che tuttavia non pare idonea a fornire un’analisi attendibile del ragionamento probatorio che il giudice pone (o dovrebbe porre) in essere. Le ragioni di questa valutazione negativa sono varie, ma qui si può fare riferimento a due di esse. La prima ragione è che per effettuare il calcolo di cui parla la teoria bayesiana occorrerebbe – come in qualunque calcolo matematico – disporre di quantificazioni numeriche sulle quali il calcolo dovrebbe essere svolto. Tuttavia, nel processo accade rarissimamente che si disponga di tali quantificazioni, poiché normalmente non esistono dati statisticamente controllati cui fare riferimento (che sarebbero però necessari per stabilire la probabilità a priori). Quindi il calcolo non sarebbe normalmente possibile in un contesto processuale (Taruffo 2009, p. 92). La seconda ragione è che questa teoria, almeno nella sua versione più recente (Garbolino 2014, p. 301), non riesce a dar conto di come andrebbe risolto un problema che ricorre normalmente nel processo, e che sorge tutte le volte in cui si tratta di valutare congiuntamente l’esito di diversi elementi di prova.
Di conseguenza, il concetto di probabilità che appare correttamente riferibile alla decisione giudiziaria sui fatti è quello di probabilità logica (Taruffo 2009, pp. 92, 208, 210). Si tratta cioè del ragionamento che si svolge attraverso un insieme di inferenze che collegano proposizioni fattuali di volta in volta configurate come premesse e come conclusioni, e tra loro connesse in vari modi a seconda della complessità della situazione di fatto e della qualità e quantità delle informazioni probatorie disponibili. In questa prospettiva la probabilità logica si riferisce al grado di giustificazione razionale che le prove sono in grado di attribuire agli enunciati che riguardano i fatti della causa. Tra i modi che possono essere seguiti per individuare la struttura logica del ragionamento del giudice, appare particolarmente utile – e infatti viene seguito in dottrina (Taruffo 2009, p. 207) – quello che si fonda sul modello di inferenza a suo tempo elaborato da Stephen Toulmin (The uses of argument, 1958, 2007, edizione aggiornata p. 9), e che si riferisce alla connessione logica tra informazioni (o prove) che si assumono come premesse, e una conclusione fattuale che da esse viene derivata, sulla base di una regola di inferenza che giustifica l’attendibilità della conclusione sulla base delle premesse.
Bibliografia: L. Laudan, Truth, error, and criminal law. An essay in legal epistemology, Cambridge 2006; J. Ferrer Beltrán, La valoración racional de la prueba, Madrid-Barcelona-Buenos Aires 2007; D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino 2007; M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari 2009; C. D’Agostini, Introduzione alla verità, Torino 2011; G. Tuzet, Filosofia della prova giuridica, Torino 2013; P. Garbolino, Probabilità e logica della prova, Milano 2014; S. Haack, Evidence matters. Science, proof and truth in the law, New York 2014; Derecho procesal: dilemas sobre la verdad en el proceso judicial, Medellin 2014; Prueba y razonamiento probatorio en el derecho. Debates sobre abducción, Granada 2014.