VERGERIO, Pier Paolo, il Giovane
VERGERIO, Pier Paolo, il Giovane. – Nacque a Capodistria nel 1498 dal notaio Giacomo, non si conosce il nome della madre; il fratello maggiore, Giovanni Battista (v. la voce in questo Dizionario) fu vescovo di Pola.
I Vergerio erano una famiglia del patriziato locale, che vantava tra i propri antenati l’umanista Pier Paolo il Vecchio (v. la voce in questo Dizionario), ma che al momento della sua nascita versava in condizioni economiche difficili.
Si immatricolò all’Università di Padova nel 1517 e, sfumato per un’epidemia di peste un suo trasferimento a quella di Wittenberg su interessamento di Giorgio Spalatino, nel 1524 si laureò in diritto civile. Negli anni successivi alla laurea lavorò come procuratore e giudice, concedendosi qualche piccola parentesi come poeta, legata alla sua frequentazione con Pietro Bembo. Suddito leale ed entusiasta della Serenissima (da lui esaltata nel De Republica Veneta liber primus, Toscolano Maderno, Paganini, 1526), sposò nell’autunno dello stesso 1526 una Diana Contarini, che però lo lasciò vedovo appena un anno dopo. Dopo un viaggio in Levante con il fratello Aurelio, grazie a quest’ultimo nel settembre del 1532 entrò a servizio della Curia romana come incaricato di scrivere i messaggi cifrati (segretario della Cifra) per conto di Clemente VII. Appena una settimana dopo era però già inviato a Venezia per preparare a livello diplomatico una lega contro il Turco, senza successo.
Dal 1533 fu nunzio papale a Vienna e Praga presso Ferdinando, re dei Romani e fratello di Carlo V. Ferdinando era interessato a concludere una pace con l’Impero ottomano e a far rientrare l’emergenza protestante convocando un concilio in modo da assicurarsi le condizioni per mettere le mani sull’Ungheria. Anche questa missione, complici le oscillazioni della politica estera papale, si risolse però in un nulla di fatto e Vergerio dovette ripiegare su piccole trattative volte ad assicurare prebende agli scrittori che si impegnassero a redigere testi antiluterani.
L’ascesa al soglio di Paolo III sembrò inizialmente rianimare le speranze conciliari e Vergerio cominciò a impegnarsi per favorire la convocazione di un’assemblea che sanasse la frattura religiosa. I primi segnali furono incoraggianti: fu confermato nel suo incarico di nunzio a Vienna per il 1535 e cominciò a proporre presso i principi tedeschi le città di Trento o di Mantova come possibili collocazioni di quello che chiamava «il mio concilio, che mio chiamo per l’affetion incredibile ch’io porto alla materia» (Nuntiaturberichte, 1892, p. 466 n. 184). Fece anche parte della commissione di sette cardinali e tre nunzi incaricata di preparare la bolla di convocazione del concilio, ma di nuovo le trattative fallirono, questa volta per esitazione non tanto da parte del papa, quanto di Carlo V e, più in generale, per quella confusione circa i punti in discussione che invece proprio Vergerio considerava un elemento di forza della sua missione («quello veramente che mi pare che più piace a costoro et più li commuove, è che io non porto un foglio di carta piena di articuli», ibid., p. 376). Durante queste trattative con le corti tedesche, il 6 novembre 1535, Vergerio a Wittenberg incontrò Martino Lutero, che, secondo una notizia priva di fondamento riportata da Paolo Sarpi, avrebbe tentato di ricondurre all’ortodossia attuando una direttiva di Paolo III, ma che nella corrispondenza privata descrisse come un personaggio carnale e ignorante di latino, «inspiritato» con «qualche demonio adosso» e «l’arrogantia stessa» (ibid., pp. 540 s.). Del resto, Lutero affermò di avere in quell’occasione recitato il ruolo di se stesso fino al parossismo («Egi Lutherum ipsum tota mensa», cit. in Buzzi, in Pier Paolo Vergerio..., 2000, p. 12) facendosi radere per sembrare più giovane e storpiando apposta il suo già non ottimo latino.
Pur destando i primi sospetti da parte del papa che ormai lo considerava servitore di Ferdinando più che della Chiesa, i suoi sforzi ebbero comunque una contropartita sul piano personale con la nomina imperiale nel 1536 a vescovo, prima di Modrus in Dalmazia e poi di Capodistria, diocesi piuttosto povera ma per lui prestigiosa in quanto sua città natale. Tra il 1537 e il 1539 Vergerio non risiedette nella diocesi ma, pur continuando a schierarsi apertamente nel fronte avverso ai luterani, contro i quali scriveva due omelie e tre trattati, cominciò a frequentare tra Roma e la pianura Padana prelati, umanisti e nobiluomini ‘spirituali’, come i cardinali Reginald Pole e Federico Fregoso, la poetessa Vittoria Colonna, l’abate benedettino Gregorio Cortese, a rinverdire le frequentazioni della giovinezza con Gasparo Contarini e Bembo, tutti personaggi impegnati nello studio della Bibbia e accomunati dal credere alla giustificazione per fede senza per questo condividere la rottura della comunione ecclesiastica provocata dalla protesta di Lutero. Le lettere che Vergerio scambiò con questo gruppo di personaggi, per il cui attendismo anni dopo avrà parole di fuoco, trovarono anche la via della stampa nelle Lettere volgari curate da Paolo Manuzio nel 1542, dove si offrivano ai lettori «frammenti della vita di un vescovo lontano dalla sua diocesi, che sentiva il dovere di tornare in patria per guidare il suo gregge, ma che al tempo stesso giustificava la sua assenza per la necessità, dati i tempi, di occuparsi di questioni che riguardavano la “vigna universale” piuttosto che “quelle poche viti” abbandonate a Capodistria» (Braida, 2009, p. 72).
Tale immersione in un ambiente favorevole al rinnovamento religioso nel segno del Vangelo e della crescita spirituale dei credenti si fece ancora più profonda durante il soggiorno che, dopo essere stato nella Mantova del cardinale Ercole Gonzaga e aver seguito il cardinale Ippolito II d’Este a Loreto, Urbino, Ferrara e Mantova, Vergerio trascorse nel 1540 alla corte di Margherita d’Angoulême, sorella di Francesco I e regina di Navarra. Le conversazioni spirituali con Margherita e il suo seguito lo portarono a ripensare il suo precedente impegno diplomatico per il concilio e gli sembrarono «svegliar, e scaldare nella cognitione delle vere vie, e nel servigio di Dio più che tutti gli inchiostri del mondo, che ci scrivessero ogni giorno molte reformationi, e più che quante diete si potessero mai fare» (cit. in Jacobson Schutte, 1988, p. 186).
Forte di queste frequentazioni francesi, l’ex partigiano asburgico si recò come inviato ufficioso di Francesco I alla Dieta di Worms, convocata da Carlo V per trovare un accordo con i protestanti. Quella verso gli Asburgo non fu l’unica lealtà che Vergerio fu accusato di aver tradito partecipando alla Dieta. Egli infatti dovette giustificarsi anche con Roma di essere stato troppo vicino alla delegazione protestante e di aver perseguito i disegni del re di Francia invece di quelli del papa. Frutto della sua partecipazione alla Dieta di Worms è il De unitate et pace Ecclesiae (Venezia, Nicolini da Sabio, 1542, ma circolante manoscritto già nei giorni della Dieta), che appare vicino a posizioni ireniche, come quelle sostenute dal cardinale Gasparo Contarini da lui frequentato a Venezia e morto proprio in quei mesi.
Ormai poco fiducioso nell’utilità di una mediazione imperiale per la soluzione della crisi religiosa in atto, e indebolito nel suo ruolo dall’ambiguità di rappresentante non ufficiale della Francia, partecipò solo alle prime battute dell’altro colloquio di religione, quello svoltosi a Ratisbona nel 1541, per poi rientrare nel vescovato di Capodistria a svolgere un ruolo forse meno appariscente, ma più incisivo per come si configurava in quel momento il suo orientamento religioso. Tra il 1541 e il 1544, sul modello di altri vescovi come il veronese Gian Matteo Giberti, si impegnò infatti in un’intensa attività riformatrice nella sua diocesi, volta a migliorare le condizioni spirituali del clero e dei laici. La sua posizione andava facendosi però difficile, per via delle inimicizie con potenti cardinali, come Marcello Cervini e Alessandro Farnese, e per la fama che ormai si era fatta di uomo «leggero, com’egli è, e ancora tenuto luterano da molti», come lo definì Giovan Giorgio Trissino nel 1541 (Paschini, 1925, p. 92). Lo stesso clero della sua diocesi cominciò a sollevare alcuni dubbi sull’operato del nuovo vescovo prima a livello disciplinare e poi a livello dottrinale. Dal lato disciplinare i punti più dolenti erano il rifiuto di versare una pensione al protetto dei Farnese Antonio Elio, che gravava sugli introiti già magri della diocesi, e lo scontro con il canonico di Pirano Bernardino de’ Preti, che scrisse al nunzio papale a Venezia, Girolamo Aleandro, lamentandosi del fatto che il vescovo, in combutta con i «luterani» locali tra cui spiccava il medico Gian Battista Goineo, cercava di privarlo del suo beneficio. Dal lato dottrinale (ma, come si è appena visto, i due aspetti erano incrociati) cominciarono a suscitare sospetto le sue esternazioni e i suoi comportamenti impazienti nei confronti delle devozioni tradizionali dei fedeli. Nel dicembre del 1544 il guardiano dei francescani Bonaventura Geroni denunciò al nunzio a Venezia Giovanni Della Casa che il vescovo diffondeva idee luterane nella diocesi, in particolare relative al culto dei santi, da lui aspramente combattuto, alla negazione del Purgatorio, alla meritorietà delle opere e al libero arbitrio. Per vincere la battaglia contro quelle che considerava ormai superstizioni propalate da frati in cattiva fede, Vergerio diffuse opere di Bernardino Ochino e Pietro Martire Vermigli (all’epoca ormai apostati notori) e altre di lì a poco condannate dalla Chiesa, come il Beneficio di Cristo.
Tali accuse diedero vita a una serie di inchieste, guidate dal nunzio a Venezia Giovanni Della Casa, che portarono a istruttorie, convocazioni a Roma e perquisizioni, ma mai a una sua effettiva comparsa di fronte ai giudici, anche se abbiamo un’idea della sua strategia difensiva dalle Otto difensioni composte nell’estate del 1546 e pubblicate solo dopo la sua fuga dall’Italia per interessamento di Celio Secondo Curione (Basilea, J. Kündig, 1550).
Anche in materia di concilio – il vero perno attorno al quale ruotò, con posizioni diversissime, l’intera sua vita – alla metà degli anni Quaranta il suo punto di vista era ormai molto lontano da quello che aveva manifestato da diplomatico papale in Germania, senza per questo essere interamente assimilabile a quello dei luterani: negli Articoli che sono in controversia da disputarsi in concilio, composti nella primavera del 1545 probabilmente per il cardinale Ippolito d’Este, l’accento batteva più sulla necessità della Chiesa di cambiare che su quella di ottenere la sottomissione dei protestanti. Inoltre, il concilio non gli sembrava ormai più la panacea di tutti i mali della Chiesa, se in una lettera di congratulazioni al neoeletto doge Francesco Donà della fine dell’anno, espresse l’idea che il compito di riformare le pratiche religiose fosse ormai definitivamente passato dalle mani delle gerarchie ecclesiastiche a quelle del potere secolare.
Nel gennaio del 1546 Vergerio era proprio a Trento, per partecipare a quel Concilio per cui tanto aveva brigato ma a cui nessuno lo aveva invitato, e per discolparsi delle accuse ai suoi danni con i tre legati conciliari Giovanni Maria Del Monte, Pole e Cervini. I suoi rapporti ormai tesi con il papa (complicati dall’accusa di aver diffuso la storia del rapporto sodomitico di Pierluigi Farnese con il vescovo di Fano Cosimo Gheri, che avrebbe portato alla morte di quest’ultimo) fecero sì che venisse allontanato da Trento, segnando «forse la svolta decisiva nei suoi rapporti con la Chiesa romana» (Cavazza, 2011, p. 147).
Tornato a Capodistria, oltreché a tre libretti contro i miracoli della Madonna, il rosario e i fioretti di s. Francesco diffusi nella diocesi in forma manoscritta per combattere le devozioni popolari, lavorò anche alla sua difesa, mentre il processo continuava tra alti e bassi. Pur abbandonato dal suo protettore più influente, Ercole Gonzaga, la sua strategia difensiva, basata anche sulla dilazione e il rifiuto di recarsi a Roma in attesa della morte di Paolo III, sembrava avere successo.
La sconfitta della Lega di Smalcalda a Mühlberg e il conseguente irrigidimento di Venezia in materia di eresia con la creazione della magistratura dei Tre savi nel 1547 portarono però a una recrudescenza delle accuse nei suoi confronti a opera del canonico di Capodistria Annibale Grisonio. Da parte sua, Vergerio, trasferitosi a Padova, teneva una condotta ormai sempre più scopertamente provocatoria: seguiva in abito vescovile le lezioni di un personaggio sospetto come il giurista Matteo Gribaldi, invitava gli studenti a leggere le lettere di s. Paolo nel commento di Filippo Melantone e si intratteneva al capezzale del giureconsulto Francesco Spiera, disperato per aver abiurato la sua fede evangelica. Quest’ultimo episodio in particolare, in cui Dio gli avrebbe fatto vedere cosa accadeva a chi lo rinnegava, venne in seguito da lui indicato come il momento decisivo per la sua scelta di lasciare l’Italia e la Chiesa e fuggire in una terra dove avrebbe potuto professare liberamente il Vangelo. A seguito dell’emissione di un mandato di cattura nei suoi confronti, dopo qualche mese in clandestinità il 1° maggio 1549 varcò le Alpi e si rifugiò nei Grigioni, prima a Coira e poi a Poschiavo, dove poteva contare sulla stamperia di Dolfin Landolfi, presso cui pubblicò i suoi primi scritti polemici da esule, a cui da parte cattolica si rispose con la pubblicazione della sua corrispondenza (manipolata in modo a lui sfavorevole) con il cittadino ed ex amico Girolamo Muzio (Le Vergeriane, Venezia, G. Giolito, 1550).
Dopo due mesi di soggiorno «propter typographorum commoditatem» a Basilea, dove fece uscire una decina di libretti sia in volgare (dai torchi di Jakob Kündig) sia in latino (presso Oporinus), divenne pastore a Vicosoprano, in Val Bregaglia, senza per questo rinunciare a visite e contatti epistolari con i principali esponenti della Riforma elvetica (escluso Calvino) e soprattutto con il riformatore di Zurigo Heinrich Bullinger (Campi, in Pier Paolo Vergerio, 2000).
La sua condizione sì di esiliato ma prossimo ai confini del Ducato di Milano e della Repubblica di Venezia gli diede il destro per compiere quei «tanti interventi nella situazione italiana per chiarirla, semplificarla e far precipitare l’opposizione tra due alternative nettamente opposte eliminando ogni possibilità di “terzo partito”» (Prosperi, 2000, p. 211). Sempre più dura infatti divenne la sua condanna di ogni forma di compromesso con Roma da un lato, e di radicalismo religioso dall’altro. Oltre a suoi vecchi amici come Curione o Gribaldi, a farne le spese fu l’ex benedettino Giorgio Siculo, la cui dottrina Vergerio denunziò ai domenicani come incompatibile non solo con il protestantesimo, ma anche con lo stesso cattolicesimo. Tale delazione della dottrina esoterica del Siculo all’ordine che gestiva l’Inquisizione avrebbe contribuito alla condanna a morte del visionario siciliano, inaugurando «il metodo della collaborazione tra polizie di potenze contrapposte per sbarazzarsi dei nemici comuni» (ibid., p. 215; di diverso avviso Cavazza, 2000, p. 121 e Rozzo, in Vergerio, 2010, p. 151, che sfumano il legame di causalità tra i due eventi). Anche sul caso del rogo di Michele Serveto a Ginevra Vergerio fu tiepido e il massimo che arrivò a dire fu che bisognava incarcerarlo e non bruciarlo, cosa che invece doveva accadere delle sue perniciose opere.
Il suo nemico principale rimase comunque il papato romano, contro cui si concentrarono i suoi strali polemici. Anche se giudicata da alcuni dei suoi stessi compagni di strada come superficiale e in fondo inefficace, quest’attività polemica frenetica e spesso scandalistica contro gli odiati «papisti» fu da lui considerata il motivo per cui era stato messo al mondo e «fargli arrabbiare» la sua vera vocazione, postagli da Dio fin «ne’ capelli et nella barba» (Risposta ad un libro del Nausea, Poschiavo, D. Landolfi, 1552, p. 87). Del resto, soprattutto in concomitanza con la seconda (1551-52) e terza (1561-62) riconvocazione del Concilio di Trento, s’impegnò in un’attività estremamente prolifica dal punto di vista editoriale. Tra le opere di controversia religiosa da lui composte in italiano e in latino, le poesie (Zuliani, 2014-2015), i catechismi, le satire religiose (come la diffusissima ripresa novellistica della leggenda medievale della papessa Giovanna), i rifacimenti parodici di scritti altrui, le traduzioni, i commenti (famosi quelli polemici nei confronti degli Indici dei libri proibiti, da quello veneziano di Della Casa del 1549 a quello di Paolo IV di dieci anni dopo) si calcola che alla sua morte circolassero quasi duecento scritti a lui riconducibili (tenendo conto del fatto che le ricerche più recenti continuano ad aggiungere nuove voci al catalogo, si può consultare il repertorio di Hubert, 1893, pp. 259-319). A quest’incredibile mole di materiale anticattolico (per ottenere il quale si servì di parecchi informatori, molti dei quali ancora da identificare) dovette arridere anche un certo successo di pubblico, se nel 1563 veniva pubblicato a Tubinga, dalla vedova di Ulrich Morhart, un Primus tomus operum Vergerii adversus papatum, ristampa di sei dei suoi opuscoli antipapali, e se le sue opere trovarono lettori devoti in Veneto fino agli anni Ottanta inoltrati del Cinquecento.
Nonostante questa sua intransigenza verso il cattolicesimo e le ali radicali della Riforma, non si può dire che egli stesso si fosse inserito armonicamente nelle Chiese elvetiche che lo ospitavano. Ben presto fu accusato di tenere atteggiamenti eccessivamente provocatori nei confronti delle comunità cattoliche, che erano ancora maggioranza tanto nella Valtellina quanto nelle zone intorno a Chiavenna, e lesivi dell’ordine pubblico. La capacità di adattamento che aveva mostrato in Italia nei primi cinquant’anni della sua vita (pur senza assumere mai posizioni pienamente nicodemitiche) apparteneva ormai al passato. Il caso più eclatante fu un episodio di violenza popolare esplosa nei confronti delle reliquie di s. Gaudenzio a Casaccia in Val Bregaglia, di cui fu ritenuta responsabile la sua predicazione (Cavazza, 1991, p. 38). Passato da Vicosoprano a Sondrio nel gennaio del 1553, anche lì fu accusato di aver suscitato tumulti, il che portò nel febbraio cinquecento capifamiglia a chiedere alle autorità di Coira che venisse allontanato. Vergerio trovò così rifugio a Chiavenna, ma anche lì venne accusato dal pastore della comunità, Agostino Mainardi, di predicare la dottrina luterana della presenza reale di Cristo nell’Eucarestia attraverso un catechismo intitolato Fondamento della Religione Christiana (s.l. né editore, 1553), traduzione da lui compiuta del Catechismus pro Iuventute Hallensi del teologo luterano Johannes Brenz. Vergerio diede sostanza a queste critiche decidendo, non senza dubbi e tentativi di pacificazione, di recarsi a Tubinga proprio presso il duca Cristoforo del Württemberg, di fede luterana e fautore della traduzione di Brenz, suo teologo di fiducia (Zuliani, 2015).
Con gli altri esuli italiani religionis causa condivise però, se non le idee, almeno una grande mobilità. Pur rimanendo di base a Tubinga (dove poteva valersi dei servigi della tipografia di Ulrich Morhart), tra il 1556 e il 1557 compì un viaggio in Prussia Orientale, Lituania e Polonia in missione per conto del duca Cristoforo (Brecht - Ehmer, 1984). La prima destinazione fu la corte di Alberto di Brandeburgo, ex gran maestro dell’Ordine Teutonico e ora duca della Prussia Orientale, presso il quale voleva accreditare una versione della giustificazione diversa da quella che si era imposta lì per iniziativa di Andreas Osiander e più vicina a quella di Brenz. Il secondo e più importante obiettivo della legazione era però il re di Polonia Sigismondo II Augusto, cattolico ma corteggiato da diverse ali della Riforma, a cui dedicò, alla fine del 1556, un’opera sempre di Brenz sui doveri del principe cristiano, per invitarlo a resistere ai tentativi romani di ricattolicizzare il Paese. Come gran parte delle iniziative diplomatiche a cui partecipò in vita, la missione non portò a risultati concreti, perché né Sigismondo abbandonò il cattolicesimo, né i luterani baltici accettarono i correttivi teologici da lui suggeriti, ma fu piuttosto fruttuosa sul piano personale. Vergerio intrecciò relazioni, frequentò circoli umanistici legati alla Riforma e naturalmente pubblicò libri – una dozzina, dai tipi di Hans Daubmann a Königsberg, molti dei quali erano attacchi personali al nunzio papale Luigi Lippomano, contro il quale probabilmente fabbricò e fece stampare una lettera falsa, in cui il nunzio consigliava al re di tagliare la testa agli esponenti più in vista del protestantesimo polacco per frenarne la diffusione nel regno (Cavazza, 2011).
Tornato a Stoccarda alla corte ducale nell’aprile 1557, subito dopo ripartì per la Svizzera, fino alla metà di giugno, per poi fare ancora ritorno nella Prussia Orientale e in Polonia dall’ottobre del 1559 fino alla primavera dell’anno successivo. Un’altra direzione presa dalla sua attività propagandistica per conto del duca Cristoforo fu la diffusione del luteranesimo presso le popolazioni di lingua slava dei domini asburgici che, in collaborazione con Primoz Trubar e con il barone Hans Ungnad, portò alla stampa a Urach, vicino a Tubinga, della prima versione del Nuovo Testamento in sloveno (oltre a varie altre opere di tenore evangelico, come nel 1563 la traduzione croata del Beneficio di Cristo). Tali libri dovevano servire a diffondere la Riforma, attraverso il centro di smistamento di Villach, in tutti i Balcani, fino a Costantinopoli, arrivando addirittura, nelle intenzioni, ad Alessandria d’Egitto e in altri porti dell’Oriente (Cavazza, 2013).
Nel marzo del 1558 Vergerio volle tornare ad agire in prima persona sulla situazione italiana e rientrò in incognito nelle terre della sua giovinezza, percorrendo il Friuli dalle Alpi al mare e distribuendo libelli protestanti. Dal momento dell’esilio la propaganda anticattolica divenne insomma la sua unica ragione di vita, nonostante papa Pio IV tentasse, attraverso il nipote Carlo Borromeo e il vecchio amico di Vergerio Ercole Gonzaga, di amnistiarlo e riportarlo in Italia, per mostrare un volto più moderato rispetto a quello del predecessore Paolo IV e soprattutto per impedirgli di continuare le sue campagne contro il papato (che evidentemente impensierivano ancora la Curia).
Gli sforzi furono vani e Vergerio, a questo punto sempre più isolato anche tra i protestanti, concluse il 4 ottobre 1565 una vita così movimentata da diventare, secoli dopo, anche un romanzo, Il male viene dal Nord di Fulvio Tomizza (Milano 1984).
Fonti e Bibl.: C.H. Sixt, P.P. Vergerius. Päpstlicher Nuntius, Katholischer Bischof und Vorkämpfer des Evangeliums, Braunschweig 1885; Nuntiaturberichte aus Deutschland, I, Nuntiaturen des Vergerio (1533-6), a cura di W. Friedensburg, Gotha 1892; F. Hubert, Vergerios publizistische Thätigkeit, Göttingen 1893; P. Paschini, P.P. V. il Giovane e la sua apostasia, Roma 1925; A. Hauser, Pietro Paolo Vergerios protestantische Zeit, Tesi di dottorato, Eberhard-Karls-Universität zu Tübingen, 1980; M. Brecht - H. Ehmer, Südwestdeutsche Reformationsgeschichte zur Einführung der Reformation im Herzogtum Württemberg 1534, Stuttgart 1984, ad ind.; A. Jacobson Schutte, P.P. V. e la Riforma a Venezia, 1498-1549, Roma 1988; S. Cavazza, P.P. V. nei Grigioni e in Valtellina (1549-1553): attività editoriale e polemica religiosa, in Riforma e società nei Grigioni, Valtellina e Valchiavenna tra ’500 e ’600, a cura di A. Pastore, Milano 1991, pp. 33-62; Id., Quei che vogliono Cristo senza croce: V. e i riformatori italiani (1549-1555), in P.P. V. il Giovane, un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento, Convegno internazionale di studi, Cividale del Friuli... 1998, a cura di U. Rozzo, Udine 2000, pp. 107-142; A. Prosperi, L’eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, p. 211; P.P. V. il Giovane, un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento, a cura di U. Rozzo, Udine 2000 (in partic. F. Buzzi, P.P. V. incontra Lutero a Wittenberg, pp. 3-32; E. Campi, P.P. V. ed il suo epistolario con Heinrich Bullinger, pp. 277-293); R.A. Pierce, P.P. V. the Propagandist, Roma 2003; L. Braida, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e “buon volgare”, Roma-Bari 2009, p. 72; S. Cavazza, P.P. V. nella Prussia orientale: il Catalogus haereticorum del 1556, in Dalla bibliografia alla storia. Studi in onore di Ugo Rozzo, a cura di R. Gorian, Udine 2010, pp. 51-68; P.P. Vergerio, Scritti capodistriani e del primo anno dell’esilio, II, Il catalogo de’ libri (1549), a cura di U. Rozzo, Trieste 2010, p. 151; S. Cavazza, P.P. V., in Fratelli d’Italia. Riformatori italiani nel Cinquecento, a cura di M. Biagioni - M. Duni - L. Felici, Torino 2011, pp. 145-152; Id., Libri luterani verso il Friuli: Vergerio, Trubar, Flacio, in Venezia e il Friuli. Omaggio ad Andrea Del Col, Montereale Valcellina-Osoppo 2013, pp. 31-55; F. Zuliani, Prime indagini su P.P. V. poeta volgare. Tra modelli letterari, polemica antiromana e Chiese retiche, in Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, XXVIII (2014-2015), pp. 393-428; Id., I contrasti tra V. e Mainardo circa un catechismo riformato per la Valtellina (1553), in Rivista di storia della Chiesa in Italia, LXIX (2015), pp. 49-78.