Venezia e il suo passato. Storie miti «fole
«Venezia dopo Roma è la città più italiana della patria nostra, anzi in alcune parti della sua storia e ne’ suoi multiformi ordinamenti politici serbò meglio della stessa Roma l’impronta del prisco spirito italico». Così esordiva Ippolito Nievo in un opuscolo uscito anonimo sul finire del 1859, quando nutriva il timore che il Veneto, isolato dalla Lombardia, potesse rimanere sotto la dominazione austriaca(1). Com’era ormai destino, il presente di Venezia si intrecciava alla sua storia. Difficile per il giovane patriota, che da poco aveva posto termine alla composizione del suo capolavoro, pensare ad un’Italia priva di Venezia, non solo per questioni affettive. Le ragioni del futuro della città trovavano fondamento anche in ciò che la vecchia Repubblica aveva rappresentato. Ella aveva raccolto e alimentato l’eredità di Roma; aveva costituito per secoli un modello civile a cui riferirsi: «la libertà, il senno civile, la virtù patria, la moderazione splendono ad ogni pagina della storia di Venezia», con una continuità che giungeva sino al presente. È vero che agli inizi del secolo, al «contatto della moderna civiltà essa avea perduta fede in se stessa», ma le dominazioni straniere le avevano dato modo di «meditare a lungo e in silenzio le necessarie trasformazioni del proprio principio vitale». Il concetto di libertà si era così evoluto e non coincideva più con quello della tradizione aristocratica: «L’esempio più integro e longanime di sapienza civile anche nella penultima guerra d’indipendenza ci venne da Venezia, da colei che ingrati od illusi noi avevamo condannata o alla corruzione del sepolcro o alla spensieratezza del carnevale». Per questo Venezia doveva costituire un elemento irrinunciabile della nuova patria italiana.
La storia non andò come Nievo sperava. Anche quando, con qualche anno di ritardo, i territori veneti entrarono a far parte del Regno d’Italia, Venezia faticò a divenire punto di riferimento significativo, vitale. L’immagine che si trascinava era fortemente condizionata da miti pesantemente negativi, alimentati da una storiografia che aveva soprattutto posto l’accento su determinati aspetti della sua storia avvertiti all’epoca in pieno contrasto con l’evoluzione politica e culturale di quegli anni. Mentre le altre ex capitali preunitarie si avviavano a cercare e a trovare un nuovo ruolo all’interno del Regno, Venezia pareva condannata, sul piano di una convinzione ampiamente diffusa, a scontare la pena di una storia terribile, nella quale si stentava a scorgere qualcosa di utile al fine di ricostruire una tradizione nazionale. Aveva, in altre parole, trovato compimento quanto nel 1806 aveva auspicato il napoletano Vincenzo Cuoco, ragionando appunto dell’Italia dei suoi anni. «Per qual forza di destino [si chiedeva] avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de’ sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù de’ propri sudditi?». In quegli anni non era solo questione di contrastare l’ipotesi di una possibile restaurazione. Occorreva piuttosto eliminare alla radice anche la possibilità che quella storia potesse costituire un punto di riferimento. «Non so che avverrà dell’Italia [proseguiva Cuoco] ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sarà sempre per l’Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i popoli, il primo luogo do a quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien poi l’oprar virtuoso e nobile; io credo esser già sommo vantaggio il veder tolto l’antico errore per cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del volgo fama di sapienti reggitori di Stato»(2). Era dunque un mito secolare che andava demolito. Non vi era nulla nella storia della Repubblica che potesse essere recuperato per la nuova Italia.
Come era stato possibile che uno dei più formidabili arsenali mitologici dell’Europa moderna fosse andato completamente annichilito? E quale fu in quest’opera di demolizione e in seguito di ricostruzione il contributo della storiografia? E ancora quali furono le ricadute sul sentire corrente di chi visse il secolo XIX? Tra la Venezia della caduta della Repubblica e la Venezia ridotta a gadget turistico, quella «ritratta a musaici» del salotto della gozzaniana nonna Speranza, passano pochi decenni, lungo i quali Venezia e la sua storia non cessarono di alimentare controverse immagini mitologiche e battaglie storiografiche. Se alla fine l’italiano medio percepì la ex Dominante con un senso di profonda, seppur fascinosa, estraneità fu anche conseguenza di quei fatti. L’irripetibilità geografica finì col trovare facile conferma in una storia altrettanto irripetibile densa di episodi molto distanti dallo spirito del secolo. Tutto ciò la condannava ad una irrimediabile diversità che la allontanava ulteriormente dai profondi cambiamenti che stavano mutando il volto di quelle città in grado di reggere il passo dei tempi. L’idea di Venezia come città vera affondò in una marea di scritti che nel suo passato cercavano spunti e pretesti d’ogni genere, anche a costo di ignorare quelle trasformazioni, controverse, ma comunque indice di vitalità, che la stavano interessando.
Mito e antimito hanno per secoli condizionato ogni proposito di considerare la storia della città. Ma alle soglie dell’Ottocento ogni contrapposizione era venuta meno e i dubbi erano pressoché scomparsi. Quanto mai lontane apparivano quindi le discussioni del secolo appena concluso, che avevano visti impegnati su posizioni distinte Montesquieu e Rousseau da una parte e Voltaire e Raynal dall’altra, quando Venezia poteva servire da pretesto per una discussione sull’idea di libertà, tra chi riteneva che dovesse essere preminente quella della salvaguardia dello Stato e chi invece poneva l’accento sulle garanzie da assicurare agli individui onde evitare le prevaricazioni del potere(3). Ridotta da Stato a città, in balìa esclusiva dei voleri altrui e dei rapporti di forza tra le grandi potenze europee, la vecchia Serenissima non era più in grado di evocare alcunché di positivo. I democratici che nel 1797 avevano innalzato l’albero della libertà in piazza S. Marco avevano d’un colpo solo cancellato gli ultimi cinquecento anni della sua storia, riabilitando la figura del trecentesco Baiamonte Tiepolo, per secoli deprecato come traditore. Eccolo invece riapparire come martire della libertà nella lotta contro il colpo di stato oligarchico(4). Gli stessi eventi che avevano condotto alla fine della Repubblica potevano difficilmente prestarsi ad evocare immagini positive. La recente rimeditazione e riabilitazione di quei comportamenti politici era all’epoca impensabile. «Ignominioso», quindi, appariva il cedimento senza combattere e inetto il comportamento dell’ultimo doge Manin(5).
Recuperando dunque a piene mani dalla letteratura antimitica del XVII secolo(6), un interesse quasi morboso si rovesciò su alcune particolari vicende della storia veneziana che divennero la dimostrazione manifesta della degenerazione oligarchica: la serrata del maggior consiglio, la condanna e l’esecuzione di Marin Falier e del conte di Carmagnola, la deposizione del doge Francesco Foscari, alcuni episodi seicenteschi, come il processo ad Antonio Foscarini e la congiura di Bedmar. Per almeno cinque secoli lo splendore e la ricchezza della città lagunare avevano celato un ferreo stato di polizia governato dal potere occulto e misterioso del consiglio dei dieci e degli inquisitori di Stato. Storici e politici, letterati e pittori si erano trovati sostanzialmente d’accordo. Dal Manzoni del Conte di Carmagnola al Sismondi dell’Histoire des Républiques italiennes du moyen âge vi era una sostanziale identità di vedute su come interpretare il passato veneziano(7).
Fu tuttavia soprattutto l’Histoire de la République de Venise di Pierre Daru, uscita in Francia in sette volumi nel 1819, a rilanciare e consolidare quella immagine. L’opera ebbe sino alla metà del secolo larghissima diffusione in tutta Europa. Didot la stampò tre volte tra il 1819 e il 1826. In lingua francese ebbe un’altra ristampa a Stoccarda nel 1828 e una nuova edizione di Didot nel 1853. Immediatamente a ridosso della prima uscita parigina si ebbero due tentativi di traduzione in italiano a Milano e a Venezia presto bloccati dalla censura. Solo nel 1832 fu pubblicata l’edizione ticinese di Capolago, ristampata nel 1838. Fu tradotta in tedesco a San Pietroburgo nel 1824. Non si ebbe una versione inglese, ma fu ugualmente ben conosciuta in tutto il mondo anglosassone, tanto da costituire l’ossatura storiografica alla base dell’opera di John Ruskin(8).
Pierre Daru doveva aver maturato i suoi interessi nei riguardi della storia veneziana nel corso dei suoi frequenti soggiorni in Italia, al servizio del Ministero della Guerra napoleonico. In alcuni di questi viaggi era stato accompagnato dal giovane cugino Henri Beyle, più noto come Stendhal, sulla cui formazione intellettuale dovette avere più di qualche influenza. Assieme dovettero sviluppare quel particolare gusto verso il «côté effrayant» della storia italiana che avrebbe caratterizzato la loro epoca(9). Per il resto Daru fu un tipico uomo del suo tempo: fervido ammiratore e leale collaboratore di Napoleone, fu tra i responsabili dell’organizzazione della sua macchina bellica in preparazione per la campagna di Russia. Abbandonata l’amministrazione con la caduta dell’imperatore, si ritirò a scrivere la sua Histoire facendo ampio ricorso a tutta la letteratura antimitica francese, ma anche servendosi di quei fondi d’archivio che erano stati trasferiti a Parigi fin dal 1797: i dispacci degli ambasciatori e dei provveditori da Terra e da Mar, le deliberazioni del senato dell’ultimo secolo e l’archivio degli inquisitori di Stato(10).
L’Histoire di Daru, nel bene e nel male, segnò il punto di partenza della nuova storiografia ottocentesca su Venezia. L’utilizzazione di materiali che stavano alla base dell’antimito non sta a significare che l’autore li abbia passivamente raccolti e riproposti. Al centro del lavoro vi era uno sforzo originale per comprendere e sciogliere alcuni dei nodi centrali della storia veneziana. Claudio Povolo ha notato che Daru «esce dallo stereotipo dell’antimito e si addentra nella specifica natura del potere veneziano». Non si limitava in altre parole a ribadire la negazione di uno Stato veneziano rinchiuso all’interno di un perfetto ordine costituzionale, come riflesso dell’armonia della sua classe dirigente. Coglieva infatti le profonde divisioni esistenti all’interno del patriziato e le mai sanate contraddizioni di istituzioni concepite per una città e inadeguate ad un’espansione territoriale che aveva cambiato profondamente il carattere dello Stato. Poteva così affrontare le cause della decadenza veneziana con acute osservazioni sui conflitti tra le varie componenti, in seno al patriziato e tra Dominante e Terraferma, o sull’opposta concezione di sovranità tra le monarchie assolute europee e una repubblica di origine medievale priva della sacralità che caratterizzava le prime(11).
Ma non erano certo questi gli aspetti che all’epoca avevano maggiormente colpito i lettori. Come ha notato John Pemble, Daru era del tutto insensibile alla civiltà veneziana ed era portato ad interpretare la sua storia come Gibbon e Montesquieu quella romana: «civic virtues had been forgotten and liberty lost in an orgy of conquest and luxury»(12). Il dispotismo del patriziato si era così impossessato dello Stato. Il consiglio dei dieci e gli inquisitori di Stato, di cui veniva pubblicato un discusso capitolare, risultato poi falso, erano gli organi che tenevano lo Stato sotto una cappa di terrore poliziesco.
Nessun’altra opera ottocentesca sulla storia veneziana ebbe l’influenza dell’Histoire di Daru. Tra l’agosto e il settembre 1819 Silvio Pellico pubblicò sulle pagine del «Conciliatore» una lunga e positiva recensione nella quale si poneva l’accento sui tanti aspetti arcaici di quel sistema istituzionale e sulle ormai consuete immagini dispotiche(13). Ormai non era più verosimile che qualcuno potesse aspirare a restaurarla: «Di tanti imperj che il tempo e la forza rovesciò niuno se ne conosce nelle storie che sia caduto con meno romore di Venezia, meno avvertito, meno compianto, più privo d’ogni lontana speranza, d’ogni possibilità di risorgimento. Donde ciò?». Pellico stesso non aveva avuto nessuna esitazione a rispondersi: la Repubblica di Venezia era ormai un regime anacronistico «quasi non europeo, cioè non congiunto con nessuna delle idee politiche che occupano oggidì l’Europa»(14).
Fuori d’Italia, in particolare in Francia, i volumi di Daru erano serviti a rilanciare e a dare consistenza storica a tutta una produzione letteraria e artistica di grande fortuna in quegli anni. Come scrisse Auguste de Forbin nel 1825 nel testo che accompagnava una prestigiosa raccolta di litografie di argomento veneziano, gli splendori della millenaria storia della città nascondevano una «piaga orribile»: «un pouvoir occulte, au moins égal à celui du doge, et supérieur aux autres autorités, exerçait sur les habitants et sur les étrangers qui venaient habiter cette ville une action invisible, mais sûre. Les inquisiteurs d’état […] avaient pour agents des sbires et des espions pris dans toutes les classes de la société. Les malheureux amenés pendant la nuit devant ce tribunal redoutable, languissaient sous les plombs qui recouvraient ce palais si magnifique, […] ou dans les cachots creusés sous ses parvis»(15). Ne era derivato quasi un genere con manifestazioni letterarie e artistiche, dal celebre romanzo di James Fenimore Cooper Il Bravo di Venezia alle trasposizioni pittoriche di tele come l’Accusa segreta di Francesco Hayez e il Ponte dei sospiri di William Etty(16).
A Venezia l’opera di Daru ebbe l’effetto di un pugno nello stomaco. Gli anni immediatamente successivi alla Restaurazione non avevano visto i veneziani molto interessati alla loro storia passata. Almeno dal punto di vista politico le vigili autorità austriache potevano stare tranquille. Nel 1821 Bartolomeo Gamba, uno dei responsabili della censura austriaca, aveva notato che «l’antica indipendenza» era ormai «ricordata soltanto come un’idea storica, non come motivo di doglianza sullo stato attuale» e che «la lettura delle storie venete politiche» era «generalmente trascurata»(17). In effetti dall’epoca della Storia civile e politica del commercio de’ veneziani (1798-1808) del patrizio «quarantiotto» Carlo Antonio Marin, nessuno si era più cimentato in significativi tentativi di ripercorrere l’intera vicenda storica della Serenissima. L’opera di Marin, primo responsabile degli antichi archivi della Repubblica, imparentato con Ippolito Nievo, non era peraltro stata priva di meriti nella definizione delle linee delle vicende economiche della Repubblica, ma era apparsa contraddittoria nei suoi propositi di tracciare le ragioni della crisi settecentesca(18). Per i veneziani del suo tempo alla comprensibile difficoltà di ‘elaborare il lutto’, si aggiungeva quella di adattarsi a situazioni in continua evoluzione alle quali erano impreparati. Frastornati dai continui mutamenti politici e bersagliati dagli incessanti attacchi di una nuova cultura incapace di vedere nella storia veneta alcunché di interessante, a qualcuno non restò che gettarsi a capofitto nell’erudizione, nel tentativo almeno di salvare le memorie, in un momento in cui il flusso verso l’esterno di biblioteche e archivi un tempo favolosi appariva quello di un fiume in piena, favorito dal rapido dissolvimento degli antichi patrimoni patrizi e dalle soppressioni delle biblioteche conventuali e monastiche(19).
A contrastare la veloce liquidazione di un patrimonio raccolto nel corso dei secoli, che avrebbe in pochi decenni arricchito di fondi antichi biblioteche e collezioni di Europa e d’America, si era andata opponendo l’opera di pochi, instancabili ma misconosciuti uomini. Teodoro Correr lasciò nel 1830 al Comune un’imponente collezione di libri, manoscritti e stampe che è ora alla base del museo civico che porta il suo nome(20). Giovanni Rossi aveva raccolto una biblioteca di 30.000 volumi e oltre 500 manoscritti con intenti civili di salvaguardia di una memoria storica che pochi allora sentivano il bisogno di tramandare(21). Ma soprattutto si distinse Emmanuele Antonio Cicogna, un tranquillo funzionario dei tribunali di origini non nobili, ligio al potere costituito comunque si presentasse e alieno da qualsiasi impegno politico. Egli dedicò ogni istante del suo tempo libero e ogni ricavato del suo lavoro al recupero di antiche carte veneziane che documentassero anche il più minuto e insignificante aspetto della storia passata della sua patria, ritrovandosi al termine della propria vita con una biblioteca di 40.000 volumi e 4.000 codici, per lo più provenienti da raccolte patrizie cittadine(22). «Amor solo di patria» era la ragione del suo studio, laddove per patria si intenda solo ed esclusivamente quella d’antico regime, Venezia, la città, la Repubblica. E «alla patria» era del resto dedicata la sua opera a stampa più imponente, i sei volumi Delle inscrizioni veneziane (1824-1853), nei quali tombe e iscrizioni divenivano occasione per la costruzione di un mastodontico ipertesto che costituisce ancora oggi uno dei punti di partenza per ogni ricerca all’interno della storia veneziana, al pari dell’altrettanto fondamentale Saggio di bibliografia veneziana (1847).
Uomini misconosciuti, si diceva. Le raccolte dei collezionisti citati sono tutte finite nelle nuove istituzioni culturali veneziane e sono ancora tra le risorse principali a disposizione degli studiosi. Ma nel 1842-1843 Giovanni Rossi notava, riflettendo sulla insensibilità che si trovava attorno: «che importa poi che nessuno, fuor del Marini, abbiaci mai ringraziato? Che importa che nessuno in presente si ricordi dell’opera nostra? […] Noi ridiamo di tutto questo, e ci consoliamo nel pensare agli studi che abbiamo fatto costantemente tra recognizioni abbastanza sicure e copiose per condurre a buon termine quest’opera se tanto di vita piacerà a Dio di concederci»(23). E un po’ acida, anche se nel fondo affettuosa, era stata anche la commemorazione che di Cicogna aveva fatto Rinaldo Fulin nel 1872 di fronte agli studenti del liceo «Marco Polo», pochi anni dopo la morte. «Emmanuele Antonio Cicogna non era un uomo di grande ingegno», aveva esordito e aveva ringraziato il fatto che avesse presto abbandonato il proposito di farsi poeta, dato che il talento era poco. Aveva poi recuperato termini più consoni alla circostanza per spiegare ai giovani veneziani riuniti davanti a lui che anche senza «altezza di ingegno», con un’«ostinata perseveranza» si poteva conquistare la stima di tutta Europa, a patto che si indirizzassero le «facoltà benché mezzane ad uno scopo adeguato». E quello scopo poteva benissimo essere la salvaguardia di quanto proveniva dal passato(24).
La pubblicazione dell’Histoire di Daru cadde dunque in una Venezia intenta a riordinare le proprie memorie, mentre l’imponente massa documentaria ereditata dalla Repubblica veniva disposta nell’ex convento dei Frari, rimanendo però ancora inaccessibile. Il primo effetto, sulla scia dell’indignazione, fu di risvegliare gli interessi locali verso la storia patria. A partire dal 1821 moltissime furono le conferenze di argomento storico lette dinanzi al pubblico dell’Ateneo Veneto tanto che, nel 1839, Luigi Carrer poteva considerare che «poche opere letterarie sono desiderate al nostro tempo [...] quanto una storia veneta»(25). Alcuni ex patrizi, come Domenico Ermolao Tiepolo e Leonardo Manin, si ritennero inoltre in dovere di replicare a Pierre Daru. Nel proposito di restituire alla Repubblica l’onorabilità perduta, soprattutto si sforzarono di colpire l’opera dello storico francese nei suoi punti più deboli, ovvero nella denuncia dei gravi difetti che presentava la documentazione offerta come supporto alla narrazione. Per il resto ribadirono le tradizionali ragioni patrizie a difesa della Serenissima(26).
L’interesse nei riguardi del passato stava dunque prendendo, come già si è notato, la piega della rivendicazione nostalgica di una storia ormai irrimediabilmente perduta, tanto più che erano generalmente discendenti di famiglie aristocratiche coloro che si cimentavano in tale campo. È quello che si percepisce ad esempio nelle pagine dell’opera Origine delle feste veneziane di Giustina Renier Michiel, nipote di entrambi gli ultimi due dogi(27). Lo stesso non può dirsi per Agostino Sagredo, anch’egli di famiglia ex patrizia, anch’egli convinto di dover reagire alle ricostruzioni malevole effettuate sulla scia di autori «ingegnosi ma mercenari», sin dai tempi dello Squittinio. Quelle accuse erano state riprese da Amelot e da Daru, «scrittori preoccupati contro ai veneziani». Ma anche i veneziani all’epoca non erano stati da meno e avevano replicato con altrettante scritture propagandistiche, non meno «mercenarie». «Non era imparzialità né negli uni né negli altri [considerava Sagredo] e non v’era ponderazione di critica». E «dove non è imparzialità né spassionatezza non è storia; si confonde il vero col falso; il vero o nol si vuol vedere oppure si guarda a traverso una lente che lo ingrandisce, lo impiccolisce o lo colora a senno di chi se l’ha già fabbricata e l’adopera; si batte quasi col martello sull’incudine per foggiarlo in quella figura e dimensione che giova alle superbie proprie od ai proprii interessi»(28).
L’occasione per affrontare la questione venne data dal Congresso degli scienziati italiani previsto per il 1847 a Venezia. Il Comune dispose l’allestimento dei due volumi (ciascuno in due parti) di Venezia e le sue lagune da offrire in dono ai congressisti. Gli esiti superarono di gran lunga le esigenze di una pubblicazione occasionale. Ne risultò un completo quadro storico, geografico e naturalistico della città all’interno del suo ambiente, con un’ampia serie di interventi predisposti per lo scopo che affrontavano temi diversi: storia, diritto, arte, cultura, economia, società, istituzioni, fauna e flora, ecc. È uno straordinario spaccato della civiltà veneziana del passato e del presente che si sforzava di non cedere alle facili tentazioni della nostalgia(29). Il nucleo centrale era la Storia civile e politica con cui Sagredo usciva dalla semplice rivendicazione delle ragioni veneziane contro le «menzogne» di Daru, pur naturalmente avendo a cuore l’intenzione di restituire un’immagine dignitosa alle vicende della sua città. I riferimenti critici alle tesi dello scrittore francese non mancavano, ma erano brevi accenni quasi non valesse la pena prendersi la briga di confutarli. Più importante gli sembrava affrontare i temi chiave dell’assetto istituzionale veneziano, avendo in mente gli antecedenti non troppo lontani della migliore tradizione storiografica patrizia veneziana da Vettor Sandi a Marco Foscarini. Non appariva perciò un difensore acritico del passato repubblicano. Non negava gli errori e non esitava a smontare veri e propri capisaldi di quella tradizione, come quando, ad esempio, invitava a lasciar perdere sui titoli giuridici per la sovranità sull’Adriatico: «sul mare, come sulla terra è dominatore chi ha forza e la forza non essendo perpetua, non è dominatore che sia veramente perpetuo». I problemi da affrontare erano dunque altri e quello centrale era l’assetto del potere e dei rapporti tra le varie componenti dell’antico Stato marciano. Individuava ad esempio nella fallita integrazione tra aristocrazia veneziana e nobiltà di terraferma una delle ragioni del declino della Repubblica con considerazioni che rasentavano il nocciolo chiave della questione della sovranità e della struttura dello Stato veneziano(30). Non nascondeva inoltre le profonde differenze di censo e, di conseguenza, di responsabilità politiche che si erano determinate in seno al patriziato e le trasformazioni che le istituzioni avevano subito in relazione alle esigenze esterne. Sottolineava però nel contempo l’uguaglianza di diritti di fondo che nonostante tutto continuava a permanere in seno al maggior consiglio, l’unico organo detentore della sovranità. Come ha notato Claudio Povolo, la ricostruzione di Sagredo grazie all’uso di «toni chiaroscuri» ripropone con forza e lucidità una prospettiva più «credibile» e più «vigorosa», potenzialmente capace — come aggiunge Gino Benzoni — di riproporre la storia veneta, negli anni della preparazione risorgimentale, ad «esempio di gerarchia, di collaborazione» e di mostrare il patriziato veneziano come modello di borghesia imprenditoriale(31).
In quegli anni altri elementi contribuirono a fare evolvere l’attenzione nei riguardi delle vicende storiche veneziane. Mentre, come si diceva, l’immagine mitica proiettata dalla storia veneziana all’esterno era sostanzialmente negativa, cresceva l’interesse per la figura di Paolo Sarpi, collegata naturalmente alle discussioni del tempo sul ruolo della Chiesa nello Stato liberale. È in parte paradossale che al recupero del pensiero del frate servita e alla sua collocazione sul piedistallo dei santi del laicismo contro l’oscurantismo clericale, al pari di Giordano Bruno e Galileo, abbiano contribuito gli stessi artefici dell’antimito veneziano. Già alla fine del XVII secolo Amelot de La Houssaye era stato uno dei principali promotori della diffusione degli scritti sarpiani fuori d’Italia come traduttore in francese e compendiatore delle sue opere principali. Daru non era stato da meno. Apprezzava la politica ecclesiastica veneziana e l’operato di Sarpi malgrado in qualche occasione fosse stato «odieux conseiller» del consiglio dei dieci(32).
Nel 1835 lo scrittore anticlericale Aurelio Bianchi-Giovini promosse a Capolago nel Ticino una ristampa del Concilio tridentino, che uscì in una collana storica assieme ad altri classici della storiografia italiana. L’anno dopo lo stesso Bianchi-Giovini pubblicò una biografia del servita, ristampata varie volte negli anni immediatamente successivi, che tendeva a riconsiderare la sua figura all’interno della vicenda storica veneziana, contestando la ricostruzione di Daru(33). La decisa opposizione cattolica e l’inserimento all’Indice della biografia sarpiana di Bianchi-Giovini incrementò le curiosità, tanto che nel 1858, quando uscì la ristampa fiorentina dell’Istoria del Concilio Tridentino, l’editore Giuseppe Barbèra rimase piacevolmente stupito dall’«esito inaudito» che ebbe, soprattutto nel Lombardo-Veneto, probabilmente giustificato dalla politica ecclesiastica che vi si stava conducendo. È peraltro significativo che nelle opere su Sarpi di tali anni si cercasse di separare la sua vicenda da quella della Serenissima. Nella stessa prefazione all’edizione Barbèra nulla vi era che potesse legare il servita alla Repubblica, semmai un tentativo peraltro molto discreto di attualizzarne la figura(34).
Anche le vicende del 1848-1849 contribuirono a cambiare molte cose. La dominazione austriaca non sembrava più ineluttabile e il riferimento alla realtà italiana e a nuove aspirazioni nazionali era ormai ineludibile. La rivoluzione aveva dato vita a una «Repubblica», diversa da quella passata, ma pur sempre una Repubblica che si riconosceva nel simbolo storico del Leone di S. Marco. Come proclamò Daniele Manin, parlando alla folla il 22 marzo 1848, «non basta aver abbattuto l’antico governo; bisogna altresì sostituirne uno nuovo e il più adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già di separarci dai nostri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno di que’ centri che dovranno servire alla fusione successiva e poco a poco di questa Italia in un solo tutto. Viva dunque la repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco!»(35). Così, pur suscitando «diffidenze e sospetti» fuori Venezia(36), scritti, stampe e bandiere erano sintomo del rianimarsi vivace dell’interesse verso la storia veneta(37). Il 24 marzo, due soli giorni dopo la proclamazione della Repubblica, un atto del ministro dell’Istruzione Niccolò Tommaseo invitava gli insegnanti, in attesa che venisse istituita una «cattedra di Storia Patria», a soffermarsi soprattutto sulla storia italiana e sui rapporti con quella veneta. Poche settimane dopo, l’11 maggio, nelle sale dell’Ateneo Veneto Samuele Romanin, un ebreo di origine triestina, da anni a Venezia, leggeva la sua prima lezione del «Corso di Storia veneta». In giorni di particolare esaltazione l’interesse verso il passato si mescolava all’entusiasmo verso la «libertà» e alla prospettiva di costruzione della «patria tutta italiana, di cui Venezia è sì bella parte». La storia veneta si poneva quindi non solo come narrazione erudita, ma come «ammaestramento così ai governanti come ai governati». Era una «opra pietosa» per «educare» i giovani «a Venezia, all’Italia» e mostrare al resto del paese che la città era «concorde nella gran lega d’Italia e col suo vessillo del Leone affratellato ai tre colori della patria italiana mostrerà che ne’ suoi figli la veneziana virtù non è ancor morta»(38).
Le lezioni di Romanin andarono avanti anche dopo il ritorno degli austriaci. Anche se il riferimento alle vicende nazionali divenne meno esplicito, rimaneva forte l’esigenza di rispondere alle «contumelie» che «a larga mano» continuavano ad essere versate «sull’infelice e calpestata Venezia». In una situazione che appariva politicamente compromessa, la ricostruzione del passato doveva quindi divenire «ammonimento allo straniero a meglio giudicare questa veneranda città; eccitamento ai Veneziani a risorgere dall’ignavia a ricercare le glorie passate nei volumi della storia passata»(39).
Nella prolusione del 1848 Romanin accennava ad altre due condizioni che egli riteneva necessarie per accingersi alla storia veneta: l’affetto e la ricerca documentaria. Entrambe caratterizzarono la sua opera principale, forse la più fortunata storia di Venezia ristampata sino a tempi recentissimi, la Storia documentata di Venezia uscita tra il 1853 e il 1861(40), nella quale le considerazioni sulla giustizia, moderazione, pace sociale del regime marciano tendevano a riproporre sotto forme appena modificate il vecchio mito del buon governo dello Stato veneziano. A questo si sarebbero adeguati in seguito non solo buona parte delle varie storie generali della Repubblica concepite nella seconda metà dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, ma anche i più significativi approfondimenti di prospettive particolari, ma di grande respiro, fossero i rapporti tra Stato e Chiesa di Bartolomeo Cecchetti o la celeberrima «vita privata» di Pompeo Molmenti(41).
In ogni caso era però importante che l’affetto trovasse suggello nel documento. Alle «calunnie» e alle «fole» degli stranieri occorreva dar risposte «scientifiche» e inoppugnabili, potendo far conto anche sui progressi delle tecniche storiografiche del tempo. L’immenso archivio dei Frari, che da qualche decennio cominciava ad aprirsi e a richiamare studiosi da ogni parte, divenne allora il luogo deputato della storia veneta, il punto di riferimento imprescindibile(42). Se il mito della Serenissima soprattutto all’estero vacillava, ad esso, a partire dalla fine degli anni Venti, si sostituiva forse ancora più solido quello dei suoi archivi, raggiunti da allora in poi da schiere sempre più numerose di studiosi in buona parte stranieri, tanto da richiedere la compilazione di manuali specifici per le diverse storie nazionali. Nel 1865 uscì la guida di Rawdon Brown «con riguardo speciale alla storia inglese» e nel 1870 fu la volta del prezioso volume di Armand Baschet che rivolgeva particolare attenzione alle vicende francesi(43). Se dal 1825 al 1848 le autorizzazioni all’ingresso (il primo fu Emmanuele Antonio Cicogna) furono molto sporadiche e soggette ad attentissime verifiche, in seguito l’afflusso fu notevole. Dal 1848 al 1870 si ebbero circa quattrocento ammissioni, all’interno delle quali la quota degli studiosi stranieri era notevole. Tra gli argomenti di ricerca prevalevano genericamente le «cose venete», ma consistente era ormai l’uso dei Frari per affrontare le vicende della storia diplomatica europea d’Occidente e d’Oriente(44).
Un’ulteriore spinta verso le fonti veneziane venne dall’opera di storico di Leopold von Ranke, uno dei primi frequentatori delle sale di studio fin dal 1828-1829. Nella costruzione di una storia «scientifica» che abbandonasse le suggestioni soggettive, il professore tedesco aveva individuato nelle relazioni degli ambasciatori veneziani una delle fonti principali per tracciare la storia europea dell’età moderna(45). Un impegno non sempre in sintonia con lo spirito nazionale di buona parte della storiografia romantica lo condusse a considerare fantasticherie molte delle ricostruzioni recenti della storia veneziana e a correggere errori presenti in Daru(46). Il rilievo posto dallo storico prussiano sulle relazioni degli ambasciatori favorì l’avvio della pubblicazione della collezione delle relazioni degli ambasciatori veneziani iniziata da Eugenio Albèri nel 1839 per conto di una «eletta società» animata dal marchese Gino Capponi(47).
La diffusione di simili materiali non era però bastata a modificare le convinzioni di fondo che da Daru in poi si erano andate affermando circa gli aspetti cupi della storia veneziana anche presso noti studiosi in prevalenza francesi, abituali frequentatori dei Frari. Erano anzi viste con un certo fastidio le repliche veneziane ad una ricostruzione storiografica ormai data per assodata. M. Viennet, curatore dell’edizione del 1853 dell’Histoire di Daru, lamentava che i veneziani, i quali per quattordici secoli avevano ignorato «les actes mystérieux de leurs conseils et de leurs inquisiteurs», continuassero a non voler conoscere la verità(48). Capitava così che anche in opere non direttamente pertinenti la storia veneta frequenti fossero i riferimenti agli aspetti foschi di quel passato. Nel 1854 Léon de Laborde, direttore all’epoca degli archivi di Francia, aveva pubblicato due splendidi volumi sulla storia di Atene dal Quattrocento al Seicento nei quali grande spazio era dedicato alla conquista di Atene da parte di Francesco Morosini nel 1687 e al bombardamento del Partenone. L’episodio era utilizzato per esemplificare la condotta del governo veneziano e per criticare un patriziato che utilizzava solo truppe di terra mercenarie, non per i pericoli che la guerra comportava, ma piuttosto «rebutée par l’égalité dans l’avancement et par le contact de la camaraderie militaire». Notava invece che i nobili veneti preferivano dedicarsi tutti alla Marina «pliant ainsi ses habitudes efféminées au service de mer, par qu’elle y trouvait, dans des vaisseaux bien aménagés, bien approvisionnés ses aises et un commandement d’autant plus facile à exercer qu’il était indépendant»(49). L’anno dopo il conte Louis de Mas Latrie nella sua celebre Histoire de l’île de Chypre riteneva ancora autentici gli statuti degli inquisitori di Stato di cui già da tempo era stata messa in luce l’inattendibilità(50). Ancora più duro fu nel 1859 il giudizio di Eugène Hatin, primo grande storico del giornalismo, il quale, occupandosi delle origini del fenomeno dell’informazione, scrisse che, malgrado la parola gazzetta avesse un’attestata origine veneziana, sarebbe stato ben strano che «le journal moderne, ce raisonneur bruyant et bavard, cet instrument de discussion et de publicité, soit né, ait bégayé ses premiers mots, dans un pays qui avait fait du silence le dogme fondamental de sa politique? N’eût-t-il été piquant de voir le gouvernement absolu et mystérieux de Venise, le défiant et soupçonneux conseil des Dix, encourager les premiers essais de ces petites feuilles destinées à devenir les plus formidables machines de guerre qui aient jamais été inventées contre l’autorité des gouvernements?»(51).
Una delle principali motivazioni alla base del periodico «Archivio Veneto», di cui nel 1871 uscì il primo numero, fu anche quella di dare un’ulteriore risposta alla insistente fortuna di simili opinioni. Nel presentarlo ai lettori i promotori, il filologo Adolfo Bartoli e lo storico Rinaldo Fulin, ricordavano che «di nessun altro paese furono mai spacciate le fole che del nostro si fabbricarono, si scrissero, si diffusero. Questa la città delle più cupe arti di stato e degli avvenimenti più tenebrosi; qui tutto parve mistero; qui la favola s’intrecciò colla storia e a romanzieri e a poeti parve di poter qua impunemente scegliere temi alle lor fantasie». Il «nobile tentativo di purgare de’ vecchi errori la storia veneziana» effettuato da Samuele Romanin non era stato sufficiente, essendo l’impresa «superiore alle forze di uno solo». Occorreva quindi coordinare gli sforzi e ripartire dai «documenti». La rivista, che rappresentava anche l’esigenza della costituzione di una società di storia patria, aveva presente il modello dell’«Archivio Storico Italiano» di Vieusseux, a cui la testata si ispirava, e mirava a porsi come elemento di raccordo e di coordinamento tra quanti lavoravano negli istituti di ricerca veneziani, tra l’archivio, la Marciana e il Correr(52). Due anni dopo venne istituita la Società di Storia Patria la quale da allora, attraverso l’«Archivio Veneto» e le altre sue collane, ha promosso quell’intensa attività di scavo erudito sulle fonti che si è protratta con immutato vigore e senza alcuna soluzione di continuità sino ad oggi e ha costituito uno dei caratteri peculiari della storiografia veneta dell’Ottocento e del Novecento(53).
Ma l’«onesto lavoro erudito» non bastava e non bastavano neppure i tanti studi effettuati in quegli anni da Fulin, Bazzoni e vari altri negli archivi del consiglio dei dieci e degli inquisitori di Stato(54). Nei decenni successivi Mas Latrie e il russo Vladimir Lamansky rilanciarono con forza la polemica con articoli e volumi basati su documenti estratti dall’archivio dei Frari relativi a delitti politici, avvelenamenti e omicidi effettuati in nome della ragion di stato per ordine del consiglio dei dieci o degli inquisitori di Stato(55). L’invito a contestualizzare i fatti e a considerare che comportamenti analoghi erano comuni a tutte le potenze europee non servì a smorzare la curiosità talvolta morbosa che quelle truci vicende potevano suscitare(56).
A poco servì quindi l’impegno erudito degli storici veneziani, affidato peraltro a riviste specializzate dalla limitata circolazione e ad editori locali non del tutto inseriti nei grandi canali nazionali e internazionali. Per buona parte del secolo la vulgata antimitica prevalse sino a divenire una sorta di sentire comune tra gli italiani. I manuali di storia in uso nelle scuole, strumenti di grande efficacia per la costruzione del bagaglio di tradizioni nazionali utili al nuovo Regno, non avevano grande interesse a fare propria e ad utilizzare la storia di Venezia come significativo antecedente di italianità(57). Può essere di un certo interesse considerare il passaggio dalla situazione preunitaria a quella successiva. Le Lezioni di storia moderna di Giovanni Bellomo, cattolico moderato, ma non retrivo, fedele suddito dell’imperatore, avevano naturalmente rimosso qualsiasi possibile rimpianto della vecchia Repubblica all’interno di un’opera dal sapore cosmopolita, certamente in sintonia con l’anima di un impero multinazionale, dove ampio spazio era dedicato alle vicende culturali della storia universale(58). Forse anche per non alimentare nostalgie poco gradite alla censura austriaca, Bellomo aveva accuratamente evitato significativi riferimenti alla storia veneziana, ma al tempo stesso non era parso neppure incline a divulgare elementi ostili a quella che poteva sembrare una sensibilità diffusa.
L’Unità aveva portato con sé nuovi programmi di storia e nuovi manuali. L’Italia e la sua costruzione divenivano l’elemento centrale, assieme, in qualche caso, ad una maggiore, talvolta spropositata, attenzione nei riguardi della storia dinastica sabauda. Un quadro complessivamente teleologico faceva scomparire o se non altro metteva in ombra le varietà locali e regionali. All’interno di questa ricostruzione furono proprio le vicende veneziane quelle che ne fecero maggiormente le spese, talvolta grazie anche al recupero a piene mani di tutta la paccottiglia romanzesca. Si distinse in questo campo l’opera del manuale più diffuso della seconda metà dell’Ottocento, quello di Ercole Ricotti, uomo di peso nella struttura accademica dell’epoca, per un certo periodo anche rettore dell’Università di Torino(59). Erano soprattutto le vicende dinastiche di casa Savoia ad essere al centro di una trattazione che lasciava largo spazio a tutta quella aneddotica che avrebbe avuto un lungo futuro nell’insegnamento della storia italiana fino ad anni piuttosto recenti: conti verdi e rossi, Maramaldo, Pietro Micca, Balilla. Inserita in una prospettiva esclusivamente nazionale la storia di Venezia perdeva ogni specificità, risultando annacquata e depotenziata nella più innocua vicenda delle «Repubbliche marinare». Qualche cenno alla crescita medievale e ai trionfi commerciali sulle rotte mediterranee. Ma gli scontri duecenteschi e trecenteschi tra le potenze marittime italiane erano il risultato di «gelosie miserabili». Per il resto solo una vicenda di soprusi in nome di un’imperturbabile ragion di stato posta al servizio di un’oligarchia timorosa e terribile. La serrata del maggior consiglio e la repressione della rivolta di Baiamonte Tiepolo erano la chiave di volta della degenerazione di un sistema teso ormai solo alla sopraffazione dell’individuo e al suo assoggettamento ad «una nobiltà, avida d’imperio». L’istituzione del consiglio dei dieci ne era la dimostrazione più evidente: «Questo tribunale terribile, le cui operazioni erano segrete, il quale non rendeva ragione dell’operato che a se stesso e dal quale non vi era appello, restrinse in sé l’autorità suprema [...]. Esso diede maggior forza al governo, estese i confini dello stato, vi mantenne l’ordine, prevenne le discordie e le ambizioni; ma tutti questi vantaggi furono ottenuti a scapito della libertà».
Dal XIV secolo in poi sulle pagine di Ercole Ricotti le vicende veneziane tornavano solo per rammentare individui eroici sacrificati alla grandezza dello Stato e della sua oligarchia. Vettor Pisani vinse i genovesi, ma poi fu vinto. «I Veneziani ingrati lo chiusero in prigione». Venne richiamato a furor di popolo all’epoca della guerra di Chioggia, un conflitto che sarebbe stato devastante per l’Italia se non fosse stato concluso dalla pace di Torino, imposta con risoluzione da Vittorio Amedeo di Savoia. Per il resto erano riproposti tutti gli episodi che negli stessi decenni erano oggetto di romanzi di varia natura e di melodrammi. Marin Falier era presentato come vittima del restringersi incessante del potere nelle mani dell’aristocrazia controllata dal consiglio dei dieci, che aveva via via eliminato il popolo da qualsiasi partecipazione al potere. Il doge era capo di Stato solo «in apparenza»; «sempre spiato e assistito da alcuni consiglieri», «non avea del potere se non i pesi».
Da Falier si passava alla decapitazione del conte di Carmagnola e quindi a Francesco e a Jacopo Foscari, esempio straordinario di cosa fosse capace «l’invidia dei patrizi». Il senso del racconto era esplicito: «così la libertà era di nome: e tutti dal doge alla plebe stavano sottoposti a Consigli, dei quali erano ignoti i procedimenti e le terribili opere».
Dalla metà del Quattrocento i cenni alle vicende veneziane diventavano via via più rari. Quanto veniva rammentato, caduta di Candia e pace di Passarowitz, serviva più che altro a dare il senso di un declino fatale e inarrestabile che culminava nella dissoluzione settecentesca. Dopo il 1718 Venezia «si chiuse nella solita neutralità; e naviglio, commercio, amor patrio, buon costume, rapidamente vi declinarono, ma non vi declinò il brio ingenito ai suoi abitanti, non la bramosia de’ piaceri, non il misterioso procedere degli Inquisitori di stato». «Venezia, perduta la gloria marittima, era diventata la città più allegra d’Italia, a tale effetto cooperando e l’indole degli abitanti e la postura sua insulare e la politica del governo che favoriva i divertimenti per dominar più sicuro». Un cenno ricordava anche gli scontri giurisdizionali di metà Settecento. Costretta a subire lo scacco da parte imperiale sulla questione del patriarcato di Aquileia, «la repubblica si vendicò sul clero».
Logica conseguenza delle cose, una fine ingloriosa, «senza che alcun forte abbia nobilitato la sua caduta». Passata dai francesi agli austriaci a Campoformido «il vecchio doge, nel giurare fedeltà al generale tedesco, svenne e cadde»(60).
È verosimile che per molti italiani della seconda metà del XIX secolo solo questa dovesse essere la storia veneziana, tanto più che negli stessi anni una vasta letteratura romanzesca era in grado di ravvivare e consolidare il ricordo di quanto era stato appreso a scuola. Fornaretti, piombi, pozzi, ponti dei sospiri, consiglio dei dieci e inquisitori di Stato si trovarono così al centro di una intensa produzione narrativa, magari di scarsa qualità, ma certamente di indubbia presa sul pubblico italiano in un’epoca di rapido incremento delle capacità di lettura e di impetuosa crescita dei consumi letterari che individuarono nelle classi sociali di più recente alfabetizzazione e nelle donne i destinatari di una produzione editoriale che non andava troppo per il sottile. Le solite vicende vennero in tal maniera rilanciate con lunga e duratura fortuna tanto da essere traghettate nel Novecento per fornire soggetti avventurosi e accattivanti alla nuova arte cinematografica(61). I titoli sono molti e alcuni vennero ripresentati con una certa insistenza. Particolarmente appariscente l’opera di Luigi Gualtieri, un prolifico romanziere autore di frettolosi romanzi in serie molto popolari nella seconda metà del secolo. I suoi Piombi di Venezia videro per lo meno otto edizioni tra 1858 e 1888.
Si presentavano come romanzi storici, fondati anche su una solida ricerca bibliografica e documentaria. In qualche caso materiali tratti dall’archivio erano pubblicati, finanche con la dichiarazione di autenticità del direttore dell’istituto(62). In realtà le stesse note a pie’ di pagina rivelavano la duratura fortuna della Histoire di Daru, che serviva sovente per dare fondamento storico alla parte d’invenzione, in genere ambientata a margine delle solite note vicende: la congiura di Bedmar, il processo ad Antonio Foscarini. Le digressioni storiche in cui si affrontavano e si riassumevano i caratteri generali dello Stato veneziano erano quantitativamente piuttosto rilevanti. L’ambiente sullo sfondo e una costituzione intrisa di sospetto e di mistero erano il filo conduttore essenziale. Il doge disponeva di un simulacro di potere «Era egli felice?» si chiedeva Carlo Tito Dalbono in Maria degli Uscocchi, considerando la miseria del suo operato, tutto fatto di «pompe» e «fasti» esteriori che «dovean costare a chi profondamente sentiva la dignità dell’essere umano e le segrete voci dell’amore, dell’amicizia e della paternità»(63). Se questi potevano essere inconvenienti comuni a qualsiasi altro capo di Stato, la «decantata potenza» del doge era «una derisione crudele, uno scherno fatto a chi credeva di aver raggiunto l’apice dell’imperio e della grandezza veneziana, potendo sposare il mare sul dorato Bucintoro il giorno dell’Ascensione». Il doge poteva infatti solo «quello che a lui s’imponeva», costretto com’era a vivere circondato da spie. Al di sopra di tutti i sempre vigili consiglieri dei dieci e inquisitori di Stato, interpreti assoluti dei voleri dell’oligarchia dominante. Le celebri feste veneziane erano parte integrante del sistema di governo: «Venezia, come tutti sanno, aveva piaceri a ribocco, e per essi e con essi il supremo senno governante intendeva far obliare a’ suoi amministrati quelle durezze per le quali il patriziato dominava artifiziosamente popolo e plebe».
Ancora più esplicito il rapporto con la storia generale e la storiografia corrente in Il Consiglio dei Dieci di Luigi Gualtieri, seguito del fortunatissimo già citato I Piombi di Venezia, in cui molti capitoli erano proprio destinati alla storia delle istituzioni veneziane seicentesche, con ampie digressioni su quei nessi con le esigenze del presente che verosimilmente aveva la capacità di colpire questioni determinanti. Il libro era tra l’altro introdotto da una significativa discussione, dal titolo Cosa sia la libertà, nella quale gli esempi storici, da quelli antichi sino ai veneziani, erano facile pretesto per affrontare il tema del rapporto tra libertà e potere e della sua evoluzione, con citazioni da Tacito, Seneca, Machiavelli, Rousseau, Byron e dall’immancabile Daru. L’intento dichiarato era di smascherare l’uso che della parola libertà era solito farsi da parte dei potenti. Le solenni dichiarazioni di principio nascondevano sempre finalità meno nobili nel passato e nel presente. Il caso di Venezia era particolarmente eclatante. La sua «libertà repubblicana» aveva per «stromento il terrore, il mistero, la libertà dei muti, la schiavitù della parola». Sopra di esso vigilavano il consiglio dei dieci e gli inquisitori di Stato, «sinonimi di Consiglio del Terrore». Su questo piano si andava avanti con ampie digressioni storiche sulla costituzione di Venezia e sull’aristocrazia, sul suo ruolo nel XVII secolo, con particolari quasi turistici su luoghi e palazzi della città. Non mancavano accenni alle discussioni storiografiche, come quando, contro il giudizio di Romanin e «degli altri storici, lodatori esagerati delle instituzioni di Venezia», si mostrava ai lettori che nei loro giudizi su quelle vicende non potevano «ravvisarsi criteri spassionati d’indipendenza»(64).
Ancor più di questa letteratura di vasta diffusione dovette contribuire la forza delle rappresentazioni melodrammatiche, che attingevano a piene mani a tutti gli episodi romanzeschi della storia veneziana. Straordinaria l’efficacia della trasposizione lirica di Giuseppe Verdi della tragedia di Byron I due Foscari su libretto di Francesco Maria Piave (1844). La prima scena del primo atto vedeva nella penombra del chiaro di luna il Palazzo Ducale. A destra gli appartamenti del doge, a sinistra due porte attraverso le quali si accedeva all’aula del consiglio dei dieci e alle carceri di Stato. Mentre consiglio dei dieci e giunta erano sul punto di radunarsi, il primo coro intonava «Silenzio…». Gli rispondeva il secondo: «mistero…». Insieme quindi:
Silenzio, mistero – Venezia fanciulla
Nel sen di quest’onde – protessero in culla,
E il fremer del vento – fu prima canzon.
Silenzio, mistero – la crebber possente
De’ mari signora – temuta, prudente
Per forza e consiglio – per gloria e valor.
Silenzio, mistero – la serbino eterna,
Sien l’anima prima – di chi la governa…
Ispirin per essa timore e amor.
Non era da meno La Gioconda di Amilcare Ponchielli su libretto di Arrigo Boito ricavato dal dramma Angelo tyran de Padoue di Victor Hugo(65), ambientato in una fosca Venezia seicentesca. Sulle note di arie celeberrime vi si tracciava tra l’altro la struttura costituzionale della vecchia Repubblica, riassumendo in poche righe centinaia di volumi antimitici. Tra pozzi, piombi e «capi occulti dell’inquisizione», Barnaba, spia del consiglio dei dieci, intento ad imbucare la sua denuncia segreta nella bocca del leone, delineava la piramide che governava la Repubblica:
O monumento!
Regia e bolgia dogale! Atro portento!
Gloria di questa e delle età future.
Ergi fra due torture
il porfido cruento.
Tua base i pozzi, tuo fastigio i piombi!
Sulla tua fronte il volo dei palombi,
i marmi e l’ôr.
Gioia tu alterni e orror con voce occulta.
Quivi un popolo esulta,
quivi un popolo muor!
Là il Doge, un vecchio scheletro
coll’acìdaro in testa;
sovr’esso il Gran Consiglio,
la Signoria funesta;
sovra la Signoria,
più possente di tutti, un re, la spia!
O monumento! Apri le tue latèbre,
(vicino alla bocca del leone)
spalanca la tua fauce di tenèbre,
s’anco il sangue giungesse a soffocarla!
Io son l’orecchio e tu la bocca: parla.
Difficile pensare che questo insistente ripetersi di motivi tenebrosi non abbia prodotto effetti e non abbia contribuito a rendere Venezia agli occhi degli italiani, nel momento in cui questa tentava l’integrazione nella nuova Italia, un po’ estranea, diversa, lontana dal sentire corrente del paese, sostanzialmente poco assimilabile. Qualcuno l’aveva anche scritto. Il russo Lamansky aveva notato, riferendosi alla sua storia e ai suoi interessi in Levante che l’avevano separata dalle vicende del resto della penisola, che Venezia «paraissait aux Italiens trop étrangère pour qu’on lui déférât l’hégémonie», come era avvenuto all’Austria nei riguardi della Germania. Per questo aveva rappresentato un forte ostacolo all’unità italiana. Concetti simili erano ripetuti in quegli anni anche in Italia come nei retorici discorsi sulla «patria italiana» di Isidoro Del Lungo(66).
Che simili modi di divulgare il passato di Venezia potessero costituire un danno per la città, nel momento in cui cercava una collocazione in una realtà inedita che non la vedeva più capitale, ma neppure suddita, era argomento di discussione. Nel 1877 un opuscolo di Pietro Manfrin, deputato di Castelfranco di origine veneziana, dal significativo titolo L’avvenire di Venezia, affrontava con piglio decisionista la questione del rapporto di Venezia con la sua storia e non aveva alcuna esitazione ad affermare che «il gran nemico di Venezia è il passato. Il passato non tanto perché glorioso, ma perché racchiude idee conservatrici è l’idolo al quale sono tributati a Venezia incensi e onori [...]. La gloriosa storia di Venezia è una specie di serpe smagliante che avvolge la città nelle sue spire ed impedisce che sorgano e si sviluppino fermi propositi per il suo avvenire»(67). Proprio la sua storia passata la condannava all’isolamento e rischiava di precluderle ogni futuro. La cattiva fama le procurava un grande danno. «È davvero inconcepibile [notava Manfrin] come anche oggidì in Europa si facciano pubblicazioni risguardanti Venezia nelle quali assicurasi essere stato il suo governo inumano, dedito ad arcane e arbitrarie pene e vogliasi con strano concetto trovare la ragione della lunga esistenza nello spavento continuo che incuteva alle popolazioni». «Le fole da romanzo, ripetute con ignorante insistenza, sono in perfetta opposizione con le doviziose raccolte contenenti gli atti del governo veneto. Pochi paesi possono rifare la storia patria con maggiore autorità ed esattezza di Venezia, pure pochi governi furono calunniati come quelli di questa città». Ma rivolgersi al passato solo per difendere l’onore perduto e per ricostruirlo con atteggiamento più «scientifico» non poteva bastare. Nel momento in cui le grandi città europee e italiane avviavano colossali piani di ammodernamento anche urbanistico delle proprie strutture, Venezia tendeva a restare sempre uguale a se stessa in condizioni di pesante isolamento che l’avrebbero condannata a morte sicura. «Onorare i maggiori [scriveva Manfrin] non significa lasciare tutto com’è». Se non si agiva «una lenta decadenza estenderà sempre più il suo impero sulla perla dell’Adriatico fino al tristissimo giorno nel quale il viandante mestamente dirà: qui fu Venezia!». L’isolamento della città era dato sia dallo spirito conservatore che pervadeva molti, sia dai racconti ossessivi che rendevano infame il suo passato.
È vero che all’epoca ammodernamento poteva significare anche stravolgimento radicale, omologazione e sventramenti brutali e questo, del resto, era stato il prezzo che molte città europee avevano dovuto pagare alla modernità. Tra i nemici di Venezia, per Pompeo Molmenti vi erano i calunniatori, coloro che infamavano la sua storia, i quali ormai avevano trovato nel cinema un nuovo potentissimo mezzo di divulgazione, i «pontisti» che miravano ad accelerare i sistemi di comunicazione con la terraferma e, loro potentissimi alleati, gli sventratori. Come scriveva Elio Zorzi in una raccolta di discorsi pubblici di Molmenti su tali temi: accanita lotta contro «i romanzatori e raffazzonatori di chilometriche cinematografie e contro gli innovatori. Non so quali più audaci e più detestabili, certo tutti pericolosi perché gli uni attentano all’anima della città Anadiomene, cioè alla sua storia; gli altri attentano al volto che le composero i sommi artefici e i secoli lucenti. Gli uni con crassa ignoranza e insigne malafede dalle gloriose memorie traggono materia e drammacci inverecondi; gli altri in nome dell’igiene e della modernità vorrebbero procedere a sventramenti per allineare, come le fabbriche del ’400 e del ’500, casoni piatti, senza colore senza risalto»(68).
In tali condizioni la paralisi di idee della storiografia veneziana, intesa come capacità di ragionare criticamente sul proprio passato, fu pressoché totale. Venezia si riempiva intanto di schiere di esteti decadenti inneggianti alla morte di/a Venezia bramosi solo di trovare in laguna conferma fisica del loro stato d’animo. Riassume esemplarmente una categoria che avrebbe avuto anche per ragioni di promozione turistica notevole fortuna anche nel secolo a venire il fraseggio dell’accademico di Francia Maurice Barrès(69). Di Venezia interessava solo la sua «agonie prolongée», che era l’unica cosa che valesse la pena preservare. Fortuna — per lui — che all’epoca l’amministrazione comunale era afflitta da pesanti ristrettezze economiche, altrimenti si sarebbe impegnata in opere di ammodernamento e in restauri («craignons les restaurations qui sont presque toujours des dévastations»).
Comprensibili e quasi giustificabili a questo punto i furori antiveneziani dei futuristi. Ma anche i maggiori avversari del passatismo veneziano non potevano fare a meno di ricorrere ancora una volta alla storia della Serenissima per le loro battaglie. Marinetti odiava le gondole, che considerava «poltrone a dondolo per cretini», ma inneggiava ad una «nuova Venezia industriale e militare che possa dominare il mare adriatico, gran lago italiano».
Non più golfo di Venezia, ma «lago italiano». Il recupero della storia imperiale veneziana per giustificare il contenimento della «potenza» e della «prepotenza» della casa d’Austria e l’espansionismo italiano nel Mediterraneo a scapito dell’Impero turco era ormai maturo(70).
1. Ippolito Nievo, Venezia e la libertà d’Italia, in Id., Due scritti politici, a cura di Marcella Gorra, Padova 1988, pp. 87-106, sul quale v. la rilettura di Cesare De Michelis, Il letterato e la storia. Ippolito Nievo, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 53-72.
2. Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1929, p. 22.
3. Franco Venturi, Venise, et par occasion de la liberté, in The Idea of Freedom. Essays in Honor of Isaiah Berlin, a cura di Alan Ryan, Oxford 1978, pp. 196-209, e Id., Settecento riformatore, V, L’Italia dei Lumi, 2, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990, pp. 31-37.
4. Paolo Preto, Baiamonte Tiepolo: traditore della patria o eroe della libertà?, in Continuità e discontinuità nella storia politica, economica e religiosa. Studi in onore di Aldo Stella, Vicenza 1993, pp. 217-264.
5. «Gli storiografi descriveranno cento volte questo strano/civile finale di uno stato; pochi lo apprezzeranno come conclusione consona a una tradizione di cultura abituata a mettere nel conto della saggezza politica l’eventualità del coraggio come vizio e del cedimento (eufemisticamente ‘il sacrifizio’ di addio del 16 maggio) come virtù». Così Giovanni Scarabello, Gli ultimi giorni della Repubblica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 505 (pp. 487-508). V. anche la riconsiderazione della figura del doge Manin in Al servizio dell’‘amatissima patria’. Le memorie di Lodovico Manin e la gestione del potere nel Settecento veneziano, a cura di Dorit Raines, Venezia 1997.
6. Su tale letteratura v. Piero Del Negro, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 407-436; Franco Gaeta, Venezia da ‘Stato misto’ ad aristocrazia ‘esemplare’, ibid., pp. 437-494.
7. Un ottimo inquadramento di ciò che Venezia ha rappresentato nella cultura e nell’immaginario ottocentesco è nel volume di John Pemble, Venice Rediscovered, Oxford 1996. Sul manzoniano conte di Carmagnola v. Gilberto Lonardi, Il ‘Carmagnola’, Venezia e il ‘potere ingiusto’, in Manzoni, Venezia e il Veneto, a cura di Vittore Branca-Ettore Caccia-Cesare Galimberti, Firenze 1976, pp. 19-41. Il Conte di Carmagnola fu composto tra il 1816 e il 1820. In seguito il giudizio di Manzoni sulla Repubblica dovette cambiare. Diversa, com’è noto, è l’immagine che deriva dalla lettura dei Promessi sposi.
8. Su Daru v. Paul Hamon in Dictionnaire de biographie française, X, Paris 1965, coll. 229-230; l’ampia premessa di M. Viennet a Pierre Daru, Histoire de la République de Venise, Paris 1853, pp. I-LI; Gérard Luciani, Un complément inédit à l’Histoire de la République de Venise de Daru: la correspondance de P. Daru avec l’abbé Moschini, «Revue des Études Italiennes», 6, 1959, pp. 105-148; J. Pemble, Venice Rediscovered, pp. 90-92. Sulle edizioni veneziane interrotte per ragioni di censura v. Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, p. 125; Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989, pp. 253-255.
9. Sui rapporti tra Stendhal e Daru v. Stendhal, Corres;pondance, I, 1800-1821, Paris 1962, ad indicem.
10. Armand Baschet, Les archives de Venise. Histoire de la Chancellerie secrète […], Paris 1870, p. 33. Sul trasferimento a Parigi Francesca Cavazzana Romanelli, Gli Archivi della Serenissima. Concentrazione e ordinamenti, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, p. 294 (pp. 291-308).
11. Sulla storiografia veneziana ottocentesca si seguono i saggi di Gino Benzoni, La storiografia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 597-623; Id., Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica, in Venezia e l’Austria, a cura di Id.-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 343-370, e di Claudio Povolo, The Creation of Venetian Historiography, in Venice Reconsidered. The History and Civilization of an Italian City-State 1297-1797, a cura di John Martin-Dennis Romano, Baltimore-London 2000, pp. 491-519. Un particolare ringraziamento va all’amico Claudio Povolo che mi ha consentito di leggere il suo testo quando era ancora inedito. Altri elementi di interesse anche in Massimo Canella, Appunti e spunti sulla storiografia veneziana dell’Ottocento, «Archivio Veneto», ser. V, 107, 1976, nr. 141, pp. 72-115. Per una contestualizzazione all’interno dei fenomeni culturali e politici dell’epoca v. Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Id., Torino 1984, pp. 5-96 (in partic. il paragrafo ‘Venetia’ e Venezia, pp. 5-24) e i saggi di Mario Isnenghi, I luoghi della cultura, ibid., pp. 233-406, e La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482.
12. J. Pemble, Venice Rediscovered, p. 90.
13. La recensione di Silvio Pellico uscì in tre puntate nei nrr. 102, 22 agosto 1819; 106, 5 settembre 1819; 115, 7 ottobre 1819. È ristampata in Il conciliatore. Foglio scientifico-letterario, a cura di Vittore Branca, I-III, Firenze 1948-1954: III, pp. 218, 278-287.
14. «Il Conciliatore», nr. 102, 22 agosto 1819.
15. Auguste de Forbin-François-Louis Dejuinne, Un mois à Venise, ou Recueil de vues pittoresques, Paris 1825, p. 10.
16. In generale sul «mito romantico» di Venezia v. Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994, pp. 587-611. Per gli aspetti figurativi si rimanda ai cataloghi delle mostre Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, a cura di Giuseppe Pavanello-Giandomenico Romanelli, Milano 1983, e Venezia da stato a mito, a cura di Alessandro Bettagno, Venezia 1997.
17. A.S.V., Presidio di Governo, 1820-1823, b. 264, VI 3/35.
18. M. Canella, Appunti e spunti, pp. 76-81; G. Benzoni, Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica. L’opera di Marin va inserita all’interno di quella fitta discussione avvenuta in seno al patriziato all’indomani della caduta della Repubblica che — come ha scritto Piero Del Negro — «tentava di esorcizzare il trauma della caduta della Repubblica rifugiandosi […] in una mitizzazione del regime aristocratico». Piero Del Negro, La memoria dei vinti. Il patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1992, pp. 351-370; Michele Gottardi, Il trapasso, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 85-101.
19. Marino Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Milano 1987, pp. 319-348.
20. Giandomenico Romanelli, ‘Vista cader la patria…’. Teodoro Correr tra ‘Pietas’ civile e collezionismo erudito, in Una città e il suo Museo. Un secolo e mezzo di collezioni civiche veneziane, catalogo della mostra, Venezia 1988, pp. 13-25; M. Isnenghi, La cultura, p. 395.
21. Su Giovanni Rossi e le sue raccolte v. Dorit Raines, La bibliothèque manuscrite de Giovanni Rossi: un gardien du passé vénitien et sa collection, «Miscellanea Marciana», 5, 1990, pp. 77-205.
22. Su Cicogna v. la voce di Paolo Preto in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 394-397.
23. Cit. in D. Raines, La bibliothèque manuscrite, p. 80.
24. Rinaldo Fulin, E.A. Cicogna, «Archivio Veneto», 3, 1872, pt. 1, pp. 211-240. G. Benzoni, La storiografia, pp. 601-602; sulle sue raccolte Lara Spina, ‘Sempre a pro degli studiosi’: la biblioteca di Emmanuele Antonio Cicogna, «Studi Veneziani», n. ser., 29, 1995, pp. 295-355.
25. Negli anni Quaranta la censura seguì con qualche preoccupazione il crescente interesse dei veneziani per la propria storia. Nel 1841 il censore Brambilla bloccò un libro di Pietro Contarini, Ultima epoca della veneta repubblica, poiché, indipendentemente dalla qualità dell’opera, si cercava di attirare la naturale «curiosità dei veneti». I tempi invece sconsigliavano di pubblicare un «argomento tanto dilicato il quale non servirebbe se non a ridestare dei partiti, delle passioni, delle querimonie ed a richiamare a discussione opinioni e fatti che ogni prudente politico riguardo comandar deve la possibile dimenticanza». G. Berti, Censura e circolazione delle idee, pp. 251-252.
26. Sulle repliche a Daru, ibid., pp. 255-256; C. Povolo, The Creation, pp. 497-499. Le osservazioni di Tiepolo (Discorsi sulla storia veneta, cioè rettificazioni di alcuni equivoci riscontrati nella storia di Venezia del sig. Daru, Udine 1828) furono ripubblicate a corredo delle edizioni del Daru di Capolago del 1837 e di Parigi del 1853. Sulla vicenda del falso capitolare degli inquisitori di Stato, Claudio Povolo, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del ’600 all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi, Venezia 1993, pp. 97-117.
27. G. Berti, Censura e circolazione delle idee, p. 265.
28. Agostino Sagredo, Storia civile e politica, in Venezia e le sue lagune, I, Venezia 1847, p. 13 (pp. 1-214).
29. Sulle iniziative e sulle discussioni che suscitò la pubblicazione, Gaetano Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’ e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 323-339 (pp. 323-341).
30. M. Canella, Appunti e spunti, p. 86; C. Povolo, The Creation, pp. 499-503.
31. G. Benzoni, La storiografia, pp. 603-604; Giovanni L. Fontana, Patria veneta e stato italiano dopo l’unità: problemi di identità e di integrazione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 559-560 (pp. 553-596).
32. Pierre Daru, Histoire de la République de Venise, VI, Stuttgart 1828, pp. 5-38. Rilievi critici sull’operato di Sarpi per il suo ruolo di consigliere della Repubblica sono anche nella letteratura romanzesca a cui si accennerà più avanti. «Paolo Sarpi […] troppo ligio al governo veneziano nel blandirne anche le sue prepotenze», come scrive Luigi Gualtieri, Il Consiglio dei Dieci. Romanzo storico, Milano s.a., p. 321.
33. Sulle edizioni ticinesi di Capolago v. Callisto Caldelari, Bibliografia ticinese dell’Ottocento. Libri, opuscoli, periodici, Bellinzona 1995.
34. A seguito della pubblicazione del capolavoro sarpiano Barbèra ebbe una lunga causa col vescovo di Firenze. A riguardo notò che solo il fatto di pubblicarlo gli aveva procurato «fama di editore ardimentoso e promotore del progresso letterario e politico». Gaspero Barbèra, Memorie di un editore pubblicate dai figli, Firenze 1883, pp. 141-164. Le vicende biografiche di Sarpi ispirarono, come altre vicende della storia veneziana, pittori e incisori di metà secolo. V. le riproduzioni delle opere di Enrico Gamba e di Antonio Ermolao Paoletti e le relative schede in Giuseppe Pavanello, Le leggende e la storia, in Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra, a cura di Id.-Giandomenico Romanelli, Milano 1983, pp. 169-170.
35. Cit. da Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978, pp. 114-115.
36. La principessa Cristina Trivulzio scrisse nella «Revue des Deux Mondes» del 1848 che «quando a Venezia fu proclamata la repubblica, non si vide in quell’atto altro che un folle rigurgito di orgoglio nazionale» (Cristina Trivulzio di Belgioioso, Il 1848 a Milano e Venezia, a cura di Sandro Bortone, Milano 1977). Sul recupero dei miti della Serenissima v. Stefano Pillinini, ‘La storia delle cose di Venezia sott’occhio’: la pubblicistica del 1848-1849 e il mito della Serenissima, in Venezia Quarantotto. Episodi, luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-1849, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Michele Gottardi-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1998, pp. 55-57. Alle diffidenze e sospetti accenna anche Rinaldo Fulin: «S. Marco rappresentò sempre l’antico onore, l’antica prosperità, la non dimenticabile felicità d’un reggimento paterno. Quali che fossero le sue convinzioni politiche Manin doveva gridare: San Marco! Perché il suo grido trovasse un eco nel popolo». Il nome di Repubblica poteva suscitare «diffidenze e sospetti», ma garantiva l’italianità. Nessun sentimento municipale, «siamo soprattutto italiani». Proclamare la Repubblica fu «quindi un errore, ma scusabile». Rinaldo Fulin, Venezia e Daniele Manin, «Archivio Veneto», 9, 1875, pp. I- CCXXVI.
37. Sulle stampe satiriche antiaustriache nelle quali è frequente la presenza del Leone marciano v. i saggi di Irene Scharttenecker, Le stampe antiaustriache nel biennio rivoluzionario 1848-1849, in Venezia Quarantotto. Episodi, luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-1849, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Michele Gottardi-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1998, pp. 50-54; Ead., Il potere delle immagini. Gli inni patriottici, i canti popolari e le stampe della Rivoluzione del 1848, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 451-474.
38. Samuele Romanin, Corso di Storia veneta, Venezia 1848, lezione prima letta all’Ateneo Veneto il giorno 11 maggio 1848. Sulle vicende della cattedra di Storia veneta, G. Benzoni, Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica, p. 367. Fin dal dicembre 1847 Tommaseo aveva invitato la censura austriaca ad aprire gli archivi e a lasciar spazio alla storia veneta per la formazione di un’identità nazionale che avrebbe potuto non andare contro la stessa sovranità asburgica: cf. il discorso Dello stato presente delle lettere italiane, ora in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 135-143.
39. Samuele Romanin, Lezioni di Storia Veneta, Firenze 1875, p. 299. Il volume raccoglieva ventiquattro lezioni tenute da Romanin tra il 1858 e il 1859. Vi si affrontava nella successione cronologica lo sviluppo delle vicende della Repubblica dando particolare risalto alla parte medievale e alla caduta. Alcune lezioni trattavano temi monografici di particolare interesse in quegli anni: Bianca Cappello, Cipro e Lepanto, Sarpi, Antonio Foscarini, commercio, cultura, vita sociale, feste. Come ha scritto Claudio Povolo (The Creation, p. 503), nelle Lezioni «la percezione mitica della storia della repubblica raggiunge la sua massima intensità. Gli inevitabili malcontenti non erano infatti per il Romanin attribuibili al ceto dirigente lagunare, ma conseguenza inevitabile di quelle autonomie e prerogative che purtroppo Venezia aveva concesso ai suoi sudditi».
40. Su Romanin v. i saggi già citati di M. Canella, G. Benzoni e C. Povolo.
41. Bartolomeo Cecchetti, La repubblica di Venezia e la corte di Roma nei rapporti della religione, I-II, Venezia 1874; Pompeo Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, Torino 1880. L’opera di Molmenti fu certamente la storia di Venezia di maggiore diffusione a cavallo tra XIX e XX secolo. Fu ristampata molte volte e tradotta in varie lingue.
42. Sulla devozione particolarmente intensa tra gli storici veneti nei riguardi della religione del documento varie le osservazioni critiche. Gioacchino Brognoligo ha scritto che «la rivendicazione della verità» è stato il principale filo conduttore della storiografia veneta ottocentesca, «il più saldo e persistente e solo per esso si passa dall’amore della verità per amore della patria calunniata all’amore della verità per la verità, il quale poi degenera nell’amore del documento per il documento» (La cultura veneta, «La Critica», 20, 1922, p. 206). Molti a questo riguardo gli interventi critici di Gino Benzoni.
43. Rawdon Brown, L’archivio di Venezia con riguardo speciale alla storia inglese, con una nota preliminare del conte Agostino Sagredo, Venezia-Torino 1865; A. Baschet, Les archives de Venise.
44. L’elenco dei primi frequentatori sino al 1855 è in A. Baschet, Les archives de Venise, pp. 29-55. Dal 1870 «Archivio Veneto» pubblicò con regolarità la lista degli ammessi alla sala di studio. Una sommaria statistica delle frequenze tra 1848 e 1870 e degli argomenti di ricerca è in «Archivio Veneto», 1, 1871, pp. 446-447. Su circa 400 ammissioni, 204 erano per «cose venete», 17 per il Sant’Uffizio e Roma, 59 per lo Stato da Mar e il Levante, 20 per la Francia, 10 per l’Inghilterra, 12 per la Germania, 10 per la Polonia, 5 per l’Ungheria, 6 per la Spagna e 53 per argomenti diversi non meglio identificati.
45. Su Ranke e la storia veneziana, Ugo Tucci, Ranke storico di Venezia, in Leopold von Ranke, Venezia nel Cinquecento, Roma 1974, pp. 3-69; Gino Benzoni, A proposito della fonte prediletta di Ranke, ossia le relazioni degli ambasciatori veneziani, «Studi Veneziani», n. ser., 16, 1988, pp. 245-257.
46. Ranke scrisse nel 1827 un saggio sugli inquisitori di Stato per dimostrare la falsità del capitolare pubblicato da Daru. Il saggio fu tuttavia edito solo nel 1878. U. Tucci, Ranke, p. 7.
47. Il lavoro sul materiale diplomatico veneziano avvenne in un contesto di piena rivalutazione dei comportamenti politici della Repubblica. Eugenio Albèri nella prefazione al primo volume esordiva sostenendo che la Repubblica di Venezia «nel merito della sapienza civile precorse e avanzò di gran lunga tutte le nazioni […]». Le relazioni di Albèri avevano avuto rilevanti premesse alcuni anni prima nelle raccolte di relazioni sullo Stato di Savoia, curate da Luigi Cibrario (1839) e sulla Francia per opera di Niccolò Tommaseo, su commissione di François Guizot, all’epoca ministro dell’Istruzione (1838). V. la prefazione di Eugenio Albèri alle Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato raccolte, annotate, ed edite da E. Albèri, Firenze 1839, pp. VII-XIV.
48. Premessa di M. Viennet a P. Daru, Histoire de la République de Venise, p. XL.
49. Léon de Laborde, Athènes aux XVe, XVIe et XVIIe siècles, Paris 1854, pp. 68-69.
50. Louis de Mas Latrie, Histoire de l’île de Chypre sous le règne des princes de la maison de Lusignan, III, Paris 1861, p. 484.
51. Eugène Hatin, Histoire politique et littéraire de la presse en France, I, Paris 1859, pp. 20-22.
52. Adolfo Bartoli-Rinaldo Fulin, Ai lettori, «Archivio Veneto», 1, 1871, pp. V-XII. Secondo Bartolomeo Cecchetti la denominazione di «Archivio Veneto», più che all’«Archivio Storico Italiano», era da riferirsi all’archivio dei Frari, Bartolomeo Cecchetti, Rinaldo Fulin, ibid., 16, 1886, p. XI (pp. V-LXVI).
53. G. Benzoni, La storiografia, p. 622. Gli atti costitutivi della Deputazione sono stati ripubblicati in Mario Di Biasi, La Deputazione di Storia Patria per le Venezie dalle origini ad oggi (1873-1995), Venezia 1995.
54. Non è certamente un caso se il saggio con cui Fulin apriva il primo numero di «Archivio Veneto» era su Gl’inquisitori dei Dieci. All’anno precedente risale Augusto Bazzoni, Le annotazioni degli inquisitori di Stato di Venezia, «Archivio Storico Italiano», ser. III, 1870, t. 11, pt. 1, pp. 45-82; pt. 2, pp. 3-72; t. 12, pp. 8-36.
55. Vladimir Lamansky, Secrets d’état de Venise. Documents extraits notices et études servant à éclaircir les rapports de la seigneurie avec les Grecs, les Slaves et la Porte ottomane à la fin du XVe et XVIe siècle, Saint-Pétersbourg 1884; Louis de Mas Latrie, L’empoisonnement politique dans la République de Venise, «Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 2, 1895, t. XXXIV, pp. 197-259. V. a riguardo P. Preto, I servizi, pp. 329-330.
56. Rinaldo Fulin, Errori vecchi e documenti nuovi a proposito di una recente pubblicazione del co. Luigi di Mas-Latrie, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. V, 8, 1881-1882, pp. 133-150, 1065-1207.
57. Manca un lavoro sistematico sui manuali scolastici per l’apprendimento della storia. Indicazioni di rilievo sui programmi d’insegnamento e sui manuali sono tuttavia ricavabili da Gianni Di Pietro, La storia nelle scuole medie italiane dalla fine del Settecento all’età della destra, «Società e Storia», 1979, nr. 6, pp. 725-761; Giuseppe Ricuperati, L’insegnamento della storia dall’età della Sinistra ad oggi, ibid., pp. 763-792. Particolarmente suggestive sono le osservazioni di Marino Raicich, I libri per le scuole e gli editori fiorentini del secondo Ottocento, e L’officina del manuale, in Id., Di Grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma 1996, pp. 43-88 e 243-277.
58. Giovanni Bellomo, Lezioni di storia moderna proposte da mons. Giovanni Bellomo, Venezia 1852. Su Bellomo, professore di greco al liceo «Marco Polo», G. Berti, Censura e circolazione delle idee, p. 271.
59. Le citazioni che seguono sono tratte dai libri di Ercole Ricotti, Breve storia d’Europa e specialmente d’Italia, Torino-Milano 187913, e Compendio di Storia Patria ad uso delle scuole ginnasiali e tecniche, Milano 18637. Sull’opera storiografica di Ricotti, Umberto Levra, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino 1992. Sui suoi manuali M. Raicich, I libri per le scuole, pp. 56, 78; G. Ricuperati, L’insegnamento della storia, p. 771.
60. Non tutti i manuali della seconda metà del secolo ebbero un taglio talmente sabaudocentrico. In qualche caso il rispetto di quelle storie regionali che non si prestavano all’esaltazione nazionalistica fu maggiore, come ad esempio nel volume di Celestino Bianchi (Manuale di Storia moderna 1454-1885 a uso delle scuole, Firenze 18856) «tra i migliori», secondo Marino Raicich. Pur all’interno di una struttura pesantemente événementielle, in cui quasi nulla si concedeva a ciò che non fosse storia diplomatico-militare, lo spazio destinato alla storia piemontese era contenuto nei limiti del ragionevole. Le vicende di Venezia erano diffusamente esposte, soprattutto le guerre contro i turchi. Naturalmente non mancavano tutti gli episodi della storia truce veneziana, ma non vi era nessun compiacimento nel raccontarli. Lo stesso può dirsi per Costanzo Rinaudo, Corso di storia nazionale per le tre classi inferiori e per la scuola tecnica secondo i programmi vigenti, III, Storia moderna dal 1748 al 1878, Milano s.a.
61. Sulla perdurante fortuna della visione antimitica della storia veneziana nel cinema v. L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983.
62. V. la sottoscrizione del direttore dell’archivio dei Frari Jacopo Chiodo in calce ai documenti pubblicati in appendice al romanzo di Luigi Gualtieri, I Piombi di Venezia, Milano 1875.
63. Cito dalla II ediz. di Napoli del 1860.
64. L. Gualtieri, Il Consiglio dei Dieci.
65. G. Lonardi, Il ‘Carmagnola’, p. 22.
66. V. Lamansky, Secrets d’état, p. XIII. V. i due discorsi di Isidoro Del Lungo, La genesi storica dell’unità italiana, e La moralità della storia fiorentina, in Id., Patria italiana, I-II, Bologna 1912: I, p. 671; II, pp. 379-380.
67. Pietro Manfrin, L’avvenire di Venezia. Studio, Treviso 1877, in partic. pp. 21-22, 240-243.
68. Pompeo Molmenti, I nemici di Venezia, a cura di Elio Zorzi, Bologna 1924.
69. Maurice Barrès, Amori et dolori sacrum. La mort de Venise, Paris 1902, pp. 34-36.
70. Particolarmente eloquente era l’articolo di Antonio Fradeletto, La storia di Venezia e l’ora presente, «La Lettura. Rivista Mensile del Corriere della Sera», 16, 1° marzo 1916, nr. 3. Dello stesso Fradeletto v. altresì la prefazione al volume di Antonio Battistella, La Repubblica di Venezia ne’ suoi undici secoli di storia, Venezia 1921, voluto da Giuseppe Volpi, sulla quale M. Isnenghi, La cultura, pp. 426-427; S. Lanaro, Genealogia, pp. 13-14.