VENERE (Venus, etr. Turan)
Le origini della V. romana sono oscure e discusse; ma l'evoluzione della sua personalità e la storia del suo culto hanno un interesse psicologico e politico considerevole, che la letteratura e le arti figurative illustrano. Il nome di V. non figura nell'antico calendario romano. Si è creduto di poter ridurre il suo ruolo originario a quello di una divinità agricola: ma essa non è mai stata invocata in una preghiera agraria. V. non ha flamen al suo servizio, a differenza di Cerere, Flora e Pomona. L'oscurità e l'umiltà delle sue origini contrastano in modo evidente con l'importanza che prende il culto della dea a partire dal III sec. a. C., e soprattutto quando essa è scelta come patrona da Silla e poi rivendicata come antenata da Cesare. Ma questa specie di autorità di cui essa è allora investita, con gli epiteti Felix, Victrix e Genetrix, si trova associata ad un'altra sua funzione universale e popolare: V. è la dea dell'amore, del desiderio amoroso e della fecondità femminile. Senza dubbio l'Afrodite (v.) greca si presentava anch'essa sotto un duplice aspetto in epoca classica; essa era insieme Ourania e Pàndemos, celeste e popolare; ma l'Afrodite Ouranìa non ha mai avuto in Grecia un ruolo politico. L'aspetto politico di V. è particolarmente romano e sembra a prima vista mal accordarsi con l'altro aspetto della sua figura religiosa. Bisogna dunque risalire molto indietro nella storia di Roma per cogliere, nel limite delle possibilità, il processo di formazione di questo complesso tipo divino.
Il termine venus, originariamente neutro, è imparentato con venia che significa "favore", "grazia", poi "perdono" e con venenum, fascino magico. D'altra parte il verbo veneror, nato dalla stessa radice, esprime un'attitudine religiosa intesa ad ottenere il favore divino. Nato da una religione impregnata di magia, il concetto di venus, che sottintende un atteggiamento condiscendente alle richieste degli impetranti, si prestava a concretarsi in una personalità generosa, a mutarsi, nel quadro di una organizzazione antropomorfica, in divinità accogliente e propiziatoria. È difficile precisare il momento in cui si è verificata la trasformazione del neutro in femminile per designare la dea Venere.
La più antica figurazione di V., designata col suo nome, che noi conosciamo nelle arti figurative appare su di uno specchio al Louvre, trovato ad Orbetello, di fabbrica prenestina, forse della seconda metà del IV sec. a. C. La scena incisa sul bronzo dello specchio appartiene alla leggenda di Adone, e si svolge alla presenza di tre personaggi designati dall'iscrizione in latino arcaico come venos, diovem, prosepnais, cioè V., Giove e Proserpina: V. è dunque, in quest'epoca, assimilata in territorio latino alla divinità greca Afrodite e introdotta come tale nella sua sfera mitologica. Ora, numerosi altri specchi, recanti iscrizioni etrusche, sono ugualmente decorati di scene con la leggenda di Adone, dove la divinità etrusca sostituisce Afrodite. L'equivalenza V.-Turan messa in evidenza da quest'esempio, è certamente anteriore al IV secolo. È probabile che la personalità di V. si sia formata a contatto con quella di Turan, durante la dominazione etrusca su Roma e sul regno latino. Ma Turan non è la sola ad evocare nell'Italia centrale la presenza dell'Afrodite greca: i nomi o epiteti Apru e soprattutto Frutis la ricordano ancor più chiaramente, proprio perché sono usciti dalla medesima radice. Inoltre una iscrizione osca di Ercolano, dedicata ad Herentas Erucina, dà il nome locale della celebre Afrodite del monte Erice, in Sicilia, il cui culto però fu introdotto a Roma solo nel III sec. a. C.
D'altra parte, l'introduzione della leggenda di Enea in Etruria, si esplica dal VI sec. a. C. in numerosissime rappresentazioni su vasi a figure nere importati dall'Attica; e se ne trova l'eco in un intaglio etrusco di stile severo del Cabinet des Médailles. Il successo della leggenda troiana è stato confermato dalla scoperta a Veio di statuette di terracotta raffiguranti Enea che porta il padre Anchise e che sono databili verisimilinente alla prima metà del V sec. a. c. È dunque attraverso l'intermediario etrusco che il Lazio ha accolto la leggenda troiana, che doveva giocare un ruolo così importante nel corso della storia di Roma. Frutis, erede etrusco-latina di Afrodite, madre di Enea, fu assorbita da Venere. E si può supporre che proprio a Lavinio, nel santuario federale, dove si credeva che fossero raccolti i penati e le reliquie troiane, V. abbia assunto definitivamente il suo carattere latino.
Turan. - Il legame originario di V. con Turan ci obbliga ad esaminare il carattere e l'iconografia di quest'ultima, prima di continuare a seguire la storia di Venere.
L'etimologia del nome Turan è discussa: il confronto col greco τύραννος, che darebbe il significato di "regina", non è universalmente accettato. D'altra parte Turan non figura sul Fegato di Piacenza, il che indicherebbe che essa non appartiene alla più antica cerchia di divinità etrusche. Questa osservazione sembra confermata da una notizia di Vitruvio, che segnala la presenza di "templi di V., Vulcano e Marte fuori delle mura di certe città etrusche". Il culto di Turan si è tuttavia propagato in Etruria. La sua presenza supposta nel santuario di Portonaccio, presso Veio, alla fine del VI sec., dopo Aritmi (Artemide) e Mnerva (Minerva), la designerebbe come guaritrice, kourotròphos e dea della fecondità. L'iconografia di Turan è molto ricca nella decorazione di ciste, di urne funerarie e, soprattutto di specchi (dove il suo nome è frequentemente iscritto), tanto da permettere una valutazione di certi aspetti del suo personaggio nel pantheon etrusco. Bisogna inoltre osservare che la mitologia galante degli specchi aveva senza dubbio carattere più decorativo che religioso.
Dal VII sec., gli Etruschi hanno avuto relazioni con la Grecia e l'Oriente mediterraneo. Gli influssi orientali e greci hanno certamente contribuito alla formazione della personalità religiosa di Turan e della sua iconografia. Sui vasi importati dalla Grecia o anche fabbricati e decorati in Etruria, da artisti venuti dalla Ionia, gli Etruschi videro le immagini della Afrodite greca. Abbiamo anche una testimonianza diretta della introduzione del tipo della dea greco-orientale in Etruria: è la statua di Afrodite nuda, scoperta in un santuario a cielo aperto della necropoli della Cannicella, presso Orvieto (v.). Si tratta di una statua di culto di carattere ctonio, importata forse da Paro nel VI sec. a. C. Questa statuetta è stata d'altra parte preceduta dalla figurina in avorio di Marsiliana (v.) di Albegna, databile alla seconda metà del VII sec., che rappresenta una dea della fecondità, nuda, di uno stupefacente realismo, che si copre il seno sinistro, stringendo al di sopra del destro un vaso da libagione. È stato proposto di dare il nome di Turan a statuette di bronzo del VI e del principio del V sec., vestite di una tunica e coperte col tutulus, acconciatura che sarebbe tipica di questa dea. È possibile che Turan sia rappresentata su di uno specchio della prima metà del V sec. nell'aspetto di una Nike arcaica, con 4 ali falcate e portante un fiore.
Ma è soprattutto nel IV e III sec., su qualche cista o sugli specchi incisi che si moltiplicano le immagini di Turan. La dea appariva qualche volta sola: per esempio su di uno specchio del Louvre, ove essa si presenta con lungo chitone, seduta su di un cigno. Generalmente essa figura nelle scene ispirate alla leggenda greca di Afrodite, o anche in qualche scena difficilmente spiegabile o della quale non conosciamo precedenti greci. Le due leggende che hanno avuto il maggior successo presso la clientela etrusca, sono quelle delle avventure di Paride e degli amori di Afrodite e di Adone (Turan e Atunis). L'incontro di Paride e di Elena, favorito da Turan, ha avuto dapprima la preferenza; seguono gli amori di Turan e di Adone; quanto al giudizio di Paride la sua grande fortuna si colloca soprattutto nel III secolo. Altre leggende raramente rappresentate, mettono in scena Turan sia come protagonista che come protettrice degli amori. Si sa che gli artisti etruschi si preoccuparono del realismo espressivo degli atteggiamenti più che della correttezza del disegno. Sopra uno specchio del Cabinet des Médailles Adone a torso nudo abbraccia una Turan giovanile, vestita della tunica e del mantello, seduta sulle sue ginocchia. Al contrario uno specchio della Collezione di Filippo d'Assia mostra Adone adolescente, minacciato da un dèmone infernale, che si getta nelle braccia di Turan, seduta in maestà riccamente vestita ed ornata. Su numerosi rilievi di urne funerarie del III e del II sec. la dea seminuda, diademata, alata e minacciosa, appariva in mezzo ad un gruppo di guerrieri guidati da Menelao, per proteggere il suo favorito Paride.
Siamo poco informati sulla iconografia di Turan in epoca classica e ellenistica. Forse si deve identificare la coppia Turan-Laran (Venere-Marte) - che figura d'altra parte nel repertorio degli specchi - con piccoli gruppi statuarî di bronzo, del IV e III sec., appartenenti a candelabri e che presentano un guerriero accompagnato da una figura femminile drappeggiata. Non è nemmeno da escludere che alcune statuette femminili seminude, utilizzate come manici di strigile, ci conservino la iconografia di un tipo statuario ellenistico di Turan. In ogni caso non c'è dubbio che l'arte etrusca abbia avuto funzione di intermediario fra la Grecia e Roma, prima dell'apporto massiccio dall'Italia meridionale, per diffondere nel mondo romano l'iconografia mitologica e le forme plastiche che la V. romana ha ereditato.
Venere. - La prima menzione del culto di V. a Roma è collegato alla V. Calva, che sarebbe stata venerata sotto il regno di Anco; ma una versione patriottica concernente l'origine di questo culto, celebrato dalle matrone romane, dà una data più verisimile: una statua di V. Calva fu eretta all'inizio del IV sec. a. C. per commemorare il sacrificio delle Romane che avrebbero tagliato la loro capigliatura per confezionare delle funi, nel corso dell'assedio di Roma da parte dei Galli. Abbiamo in ogni caso una data precisa per il primo tempio elevato a V., che fu quello votato sotto il nome di V. Obsequens, da Fabio Gurge nel 295 a. C. Nel 217, il nipote di Gurge, Fabio Massimo Cunctator, dedicò alla divinità un nuovo tempio, che sarebbe stato costruito sul Campidoglio: si trattò questa volta della V. Erycina, che prenderà in età imperiale il nome di V. Capitolina. È da sottolineare il fatto che il giorno anniversario di questi due templi fu fissato per il primo al 19 agosto, per il secondo al 23 aprile, che sono i giorni delle due feste dei Vinalia, consacrati a Giove. Infatti V. fu associata in queste feste del vino al dio supremo, forse come madre di Enea, che aveva dedicato a Giove, secondo la leggenda, tutto il raccolto delle vigne del Lazio. Inoltre è nel corso dello stesso anno 217, che ebbe luogo la celebrazione del lettisternio (v.) in onore dei dodici dèi, fra i quali figurava V. associata a Marte. Il ruolo di V. nelle circostanze più drammatiche della storia della Repubblica romana, prende dunque importanza e consistenza nel III sec. a. c. È probabile che questo sia dovuto al suo carattere propiziatorio (V. Obsequens), secondo il significato originario della parola venus, e soprattutto al successo sempre crescente della leggenda troiana che conferiva ai Romani una patente di nobiltà e giustificava l'associazione dell'Afrodite latinizzata con Giove e Marte, padre di Romolo.
Nel III sec. a. C. Roma si apre sempre più alle influenze greche che già gli Etruschi avevano accolto e diffuso, e che arrivano più direttamente dopo l'instaurazione dell'egemonia romana nell'Italia meridionale. L'assimilazione delle divinità romane a quelle greche, di cui la letteratura latina si fa portavoce, sviluppa il gusto della iconografia religiosa. Il sacco di Veio del IV sec. e delle città greche nei secoli seguenti permette di ornare i templi, il cui numero si accresce senza tregua. Per quel che riguarda V. non si può far a meno di osservare che l'antropomorfismo, personalizzando la divinità, facilita l'annessione di culti locali dedicati ad oscuri numina. E d'altra parte la ricchezza della iconografia religiosa greca si adatta ai differenti aspetti del culto di Venere.
Un esempio tipico ci è offerto dal doppio carattere della V. del Monte Erice. Nel tempio del Campidoglio, votato nel 217 e dedicato nel 215, la dea siciliana era totalmente romanizzata. Al contrario, quando un nuovo tempio le viene dedicato nel 181, fuori le mura, presso la Porta Collina, essa riprende ampiamente il suo carattere mediterraneo, greco-orientale, di divinità dell'amore e della fecondità, favorevole alle matrone come alle cortigiane. E questo aspetto del culto di V. è abbondantemente evocato sugli specchi etruschi ed etrusco-latini, dal IV al II sec. a. C. Che si tratti, come abbiamo visto, di Turan o di V., la preferenza per i soggetti come il giudizio di Paride o la leggenda di Adone, mostra la dea, nuda o vestita, nel suo ruolo di amante o di protettrice degli amanti. L'assorbimento da parte di V. di Libitina, il cui culto era celebrato in un bosco sacro dell'Esquilino, conferma l'aspetto funerario della dea che non era d'altra parte estraneo né alla Turan etrusca, né all'Afrodite greca: donde la presenza di V. nel repertorio iconografico dei sarcofagi, come vedremo. La virtù purificatrice che V. possiede, si manifesta particolarmente con l'assorbimento di Cloacina, onorata dalle matrone romane sul percorso della Cloaca Massima e il cui attributo vegetale era il mirto. Strumento di purificazione, il mirto era anche simbolo di vittoria riservato all'ovatio, come l'alloro al trionfo. L'aspetto politico di V. si afferma e acquista tutta la sua importanza nel corso del I sec. a. C. I grandi capi militari, al tempo delle guerre civili, si sforzano uno dopo l'altro di accaparrarsi successivamente i favori della divinità per rafforzare il loro potere. Silla dà per primo l'esempio. Nell'86, in seguito alla conquista di Atene, Silla conia, contrariamente all'uso romano, monete d'oro, sui dritto delle quali è iscritto il suo nome sotto la testa di V. accostata ad un piccolo Cupido portante una palma. Altre monete assoceranno la Felicitas di Silla all'effigie della divinità.
È poi indubbiamente necessario collegare le immagini trionfali della V. pompeiana al destino glorioso di Silla. Va però considerato anche il fatto che il culto di Afrodite, venuto dall'Italia meridionale in Campania, si è sviluppato in Pompei prima che la città divenisse colonia romana nell'8o a. C. e, di conseguenza, prima che essa fosse popolata dai veterani di Silla. Ma il nome ufficiale della Colonia Veneria Cornelia unisce il nome del fondatore Silla alla presenza della V. latina e romana. Si è quindi in diritto di ammettere che in questa città, di cui Marziale dice che era la residenza di V., il culto della dea aveva ricevuto, col favore di Silla, un impulso nuovo.
A questo punto bisogna soffermarsi ad esaminare le rappresentazioni di V. che sono state trovate a Pompei: esse ci propongono un quadro d'insieme dell'iconografia della dea, così come si presentava nel mondo romano del I sec. a. C.
La maggior parte di queste immagini, si tratti di pitture murali o di statue o di statuette di bronzo o di marmo, derivano da modelli greci. Vi si ritrovano particolarmente, dipinti sui muri delle case, le scene mitologiche che sono servite, l'abbiamo visto, per la decorazione degli specchi etruschi: il giudizio di Paride, gli amori di V. e Adone. Vicino ad una iconografia pittoresca e familiare, che mostra per esempio V. intenta alla pesca con Cupido, è possibile che le rappresentazioni della V. marina, cullata in una conchiglia dai flutti del mare, facciano allusione al culto della dea nei porti della costa della Campania. Al contrario, la coppia formata da V. e Marte, soprattutto quando figura nel gruppo dei dodici dèi, assume un significato romano. Bisogna tuttavia esaminare con particolare interesse le rappresentazioni della V. pompeiana che hanno un significato particolarmente locale, in accordo specialmente con la V. Felix, di cui Silla ha ricevuto i favori. Due pitture della Via dell'Abbondanza sono, sotto questo aspetto, caratteristiche. In una la dea, maestosamente vestita della tunica e del mantello, porta un diadema d'oro analogo a quello di cui essa è ornata sulle monete d'oro o d'argento emesse da Silla a partire dall'86 a. C., dapprima in Grecia e poi a Roma. Essa tiene nella mano destra un ramo di mirto o di olivo, la mano sinistra sorregge lo scettro e poggia su di un timone rovesciato. Cupido in piedi alla sua sinistra su di uno zoccolo, porta uno specchio circondato di punti a raggiera. Due piccoli amorini, da una parte e dall'altra, volano verso la dea, tenendo l'uno una corona, l'altro una palma. Gli attributi dei quattro personaggi di questo quadro, parlano un chiaro linguaggio. Diadema e scettro si accordano con la maestà reale dell'atteggiamento, la corona e la palma sono insegne di vittoria, il timone è un attributo preso alla Fortuna; quanto allo specchio che Cupido presenta solennemente di faccia, come un ostensorio, va esso considerato semplicemente come l'attributo della beltà, così come si vede spesso, presentato da un amorino o tenuto in mano dalla dea stessa che vi ammira il suo viso, o non è piuttosto un simbolo cosmico atto ad illustrare il famoso proemio del De Rerum Natura di Lucrezio? Lo si ritrova in effetti, tenuto ostentatamente nella mano destra da Cupido che accompagna la V. trionfante dipinta sulla facciata dell'officina di Verecundus: la raffigurazione è qui più ampia e più ricca ancora di significato. La dea in piedi sul suo carro tirato da quattro elefanti, ha gli stessi attributi, ad eccezione del diadema sostituito dalla corona murale; sotto le ghirlande di fogliame che inquadrano la scena e le danno un'aria di festa, due amorini volanti le offrono la palma e la corona. Due personaggi da una parte e dall'altra della quadriga completano la simbologia della scena: da una parte la Fortuna in piedi sul globo dell'Universo, con il timone nella destra e il corno dell'abbondanza nella sinistra; dall'altra parte il Genio della città con la patera e il corno dell'abbondanza. Il dipinto simboleggia chiaramente i concetti di vittoria e di prosperità locale ed universale, e di dominio cosmico. Un particolare curioso permette forse di precisare maggiormente le intenzioni che hanno determinato la composizione del quadro: la Fortuna tiene normalmente il timone dritto, mentre V. lo tiene rovesciato: e questo forse è un simbolo della potenza assoluta di V. che si impadronisce dell'attributo significativo della incostanza della Fortuna e, rovesciandolo, dimostra di prendere nelle sue mani il cammino del mondo. È evidente che il quadro dipinto sulla facciata di una bottega non è che una replica modesta di una grande pittura, il cui simbolismo doveva esprimere l'idea di una dominazione universale. Che questa V. pompeiana il cui tiro di elefanti evoca le conquiste orientali, sia direttamente legata alla V. Felix di Silla ed appaia come l'interprete delle ambizioni del dittatore, è sicuro. E d'altra parte, come R. Schilling ha dimostrato, il fatto che Silla si sia assicurato la protezioné della Afrodite greco-orientale di Afrodisiade di Caria conferma il carattere cosmico della divinità sillana.
Sempre a Pompei, si afferma un aspetto più particolarmente locale della dea, quello della V. Fisica che, per la presenza di Priapo al suo fianco, si mostra insieme protettrice dei giardini e promotrice della fecondità.
L'esempio dato da Silla fu presto seguito da Pompeo che a Roma consacrò nel 55 a. C. un tempio a V. con l'epiteto di Victrix, costruito sulla sommità del suo teatro. Ma il coronamento della carriera politica, se così si può dire, di V., è l'istituzione del culto di V. Genetrix da parte di Cesare. Una delle prime iniziative di Cesare fu di proclamare la sua ascendenza divina: V., antenata della famiglia dei Giulî, apparve nelle prime emissioni monetali del dittatore - profilo della dea sul dritto, Enea che porta Anchise e il Palladio sul rovescio. E Cesare dedicò nel 46, nel suo Foro, un tempio magnificamente decorato, a V. Genetrix.
La statua consacrata al nuovo culto fu commissionata allo scultore greco Arkesilaos. È ancora in discussione quale tipo statuario sia stato scelto per impersonare questo aspetto della divinità. Sfortunatamente non possediamo per questa nuova V. una documentazione chiara come quella che ci presentano, per la dea sillana e pompeiana, le pitture di Pompei. L'epiteto di Genetrix, doveva certamente concretarsi in una rappresentazione materna.
Numerose statuette di V. in tunica e mantello, derivate tutte dal medesimo archetipo, presentano la dea che porta sulla spalla sinistra un piccolo Cupido, e mostra con la mano destra un oggetto enigmatico; la disposizione dei drappeggi si ispira ai modelli ellenistici. L'assenza di diadema e di scettro non ci permette di affermare che si tratti di repliche dell'opera di Arkesilaos. Il motivo del piccolo amorino posto sulla spalla sinistra della dea, appariva di già su di una moneta coniata da G. Egnazio Massimo, al tempo di Silla. Lo si ritrova su di un denario di Manio Cardio Rufo con il tipo della V. Verticordia che porta lo scettro e la bilancia, databile all'epoca in cui Cesare dedicò il tempio di V. Genetrix. D'altra parte numerose statuette, differenti da quelle, e che presentano ugualmente il fanciullo sulla spalla, ci offrono altre interpretazioni del tema della V. Materna. Constatiamo il successo di questo tema iconografico all'epoca di Augusto o dei suoi primi successori su tre rilievi di cui sono evidenti il carattere ufficiale e l'interesse storico. Il drappeggio di queste tre immagini di V. presenta una disposizione analoga: la parte superiore del corpo, vestito della tunica, è quasi totalmente libero del mantello, di cui una fascia di pieghe, tenute dalla mano destra, descrive sotto il ventre un'ampia curva. Una di queste immagini figurava sul frontone del tempio di Marte Ultore, dedicato nel 2 a. C., che noi conosciamo per una riproduzione della sua facciata su un rilievo claudio dell'Ara Pietatis; vi si vede Cupido che sale sulla spalla della madre per carezzarle il viso. Su di un secondo rilievo proveniente da Cartagine, l'atteggiamento della dea, qui ancora compagna di Marte Ultore, è più libero: essa incrocia le gambe e si appoggia col braccio sinistro ad un pilastro; Cupido è ai suoi piedi e le tende una spada dando così alla Genetrix l'attributo della Victrix. Il terzo rilievo, benché sia incompleto, è particolarmente importante; V. vi appare con i tratti di Livia vicino ad Augusto raffigurato come Giove. Ornata di un ricco diadema, tiene con la mano sinistra un piccolo Cupido appollaiato sulla sua spalla, mentre la mano destra sostiene la fascia di pieghe curve del mantello. La posa ben equilibrata, la disposizione dell'ampio drappeggio, suggeriscono la derivazione da un tipo statuario così come, d'altra parte, per il suo vicino Giove-Augusto: il soggetto di questo rilievo è evidentemente destinato a sottolineare l'origine divina della dinastia giulio-claudia, determinando la trasmissione del potere imperiale secondo l'ordine dinastico: Livia nelle vesti di V. appare qui come Genetrix della famiglia giulio-claudia. Si è dunque portati a credere che questa figurazione della dea rappresenti la versione augustea, ripresa secondo un gusto classicistico, della creazione di Arkesilaos. È certo in ogni modo che questo tipo di V. interpreta l'ideale romano della maestà materna. Il motivo del fanciullo sulla spalla è stato rapidamente abbandonato e sulle monete imperiali del II e III sec. V. Genetrix appariva, come vedremo, in altri atteggiamenti. In un particolare della Colonna Traiana (ii campagna, n. 207) si intravvede V. Genetrix nel tempio.
La particolare dignità attribuita all'Aeneadum Genetrix, si è accordata molto bene con gli altri aspetti della iconografia ereditata dall'arte greca. Il gesto di Augusto consacrante, nel tempio di Cesare, la celebre Afrodite Anadiomene di Apelle è, sotto questo aspetto, molto significativo. Non ci si meraviglia dunque di veder apparire, verso il 38 a. C., un aureus, coniato da G. Vibio Varo, portante sul retto la testa di Apollo laureato, e sul rovescio V. vista di spalle e nuda, - ad eccezione di un drappeggio sulle gambe - col viso piegato verso il suo specchio; e nel 31-29 su un altro aureus, che porta sul dritto il profilo di Ottavia, V. Victrix si presenta con lo stesso aspetto: uno scudo è posato contro una colonna alla quale essa si appoggia: con la mano destra la dea tiene un elmo, con la sinistra un giavellotto.
La divinizzazione, accettata o tollerata dai membri della famiglia imperiale, anche quando erano in vita, e di cui abbiamo un esempio sul rilievo di Ravenna, fa sentire i suoi effetti anche nella statuaria. Oltre a Livia noi sappiamo che Giulia, figlia di Augusto, poi Agrippina e Drusilla, sono state identificate con V. sotto la dinastia giulio-claudia; e Marziale ha descritto la statua di Giulia, figlia di Tito, evidentemente rappresentata come V.: "Chi, o Giulia, non ti crederebbe scolpita dal cesello di Fidia?, un ritratto parlante ci risponde nel candore del marmo e una viva beltà splende su questo viso sorridente". Le statue delle principesse ritratte come V. nel I sec. sono perdute: ma numerose statuette di Myrina in Asia Minore ce ne hanno conservato il ricordo. Queste V. di terracotta, la cui fabbricazione è proseguita fino alla fine del I sec., sempre nella tradizione ellenistica, sono effettivamente acconciate alla maniera delle principesse giulio-claudie o anche delle dame flavie. Nude, seminude o vestite, queste figurine ci propongono, con argute varianti, i differenti tipi di V. della statuaria classica ed ellenistica di cui numerose repliche in marmo si trovano disseminate in tutto l'Impero Romano.
V. è assente dalla monetazione romana del I sec., eccetto che sotto Domiziano, con Giulia di Tito e con Domizia; ma. essa riappare trionfalmente nel II sec. a partire da Adriano. La costruzione del tempio di V. e Roma, che prenderà il nome di Templum Urbis, consacra il rinnovamento del culto della dea madre della famiglia imperiale e del popolo romano. Sulle monete di Adriano e dei suoi successori, V. è rappresentata con gli epiteti di Genetrix, Felix, Victrix, Augusta; Caelestis appare con Giulia Soemia, ma secondo il tipo più comune, che si associa agli altri epiteti e il cui modello, - tunica e mantello drappeggiati nella parte inferiore del corpo - è quello che presentano di già, con qualche variante, le monete del I sec. a. C. e i rilievi giulio-claudî. Ma due tipi nuovi appaiono nelle emissioni di Adriano: l'uno riproduce la statua di Afrodite attribuita a Kallimachos, e che si. designa generalmente con il nome di V. Genetrix, precisamente perché essa figura con questa denominazione sulle monete imperiali del II secolo. L'altro tipo, quello della V. Felix, in trono e in maestà, che presenta sulla mano destra un piccolo Cupido e tiene con la sinistra un giavellotto rovesciato, si ispira senza dubbio alla statua di culto del tempio di Venere e Roma. Questo stesso tipo d'altra parte, nelle emissioni di Faustina Minore, prende il nome di Genetrix e si presenta con un pomo nella mano destra, uno scettro nella sinistra e un Cupido in piedi davanti ad essa.
I tipi di V. figurati sulle monete permettono le seguenti osservazioni: si constata prima di tutto che non ci sono iconografie specifiche per ciascuno degli epiteti che designano l'una o l'altra delle funzioni della dea. D'altra parte i modelli utilizzati sono ispirati con qualche variante al repertorio della statuaria greca. Infine la iconografia ufficiale si è ispirata essenzialmente ai modelli più classici, cioè alle Afroditi nobilmente drappeggiate. È da sottolineare poi che, fino a Giulia Domna, V. Victrix è interamente vestita, contrariamente al tipo adottato da Ottavia, e che anche il seno nudo della Venus Genetrix di Kallimachos è stato pudicamente coperto. C'è tuttavia sotto Antonino Pio l'eccezione della coppia V. Marte, che riunisce l'Ares Borghese con l'Afrodite di Capua. Questo gruppo di cui esistono numerose copie a tutto tondo, è caratteristico dell'eclettismo neoclassico dell'epoca di Adriano e di Antonino Pio; esso associa infatti un tipo della fine del V sec., l'Ares di Alkamenes ed una Afrodite della seconda metà del IV sec., attribuita a Lisippo. Si osserverà d'altra parte che la replica più antica che noi conosciamo, quella del Museo del Louvre, presenta l'imperatrice come V. interamente vestita (la testa, non pertinente, non è più quella di Sabina) vicino ad Adriano-Marte; al contrario, la coppia Commodo-Crispina del Museo delle Terme, ha fedelmente ripetuto nell'imperatrice la seminudità del modello greco.
Stazio nelle sue Silvae ci informa che le dame romane amavano farsi rappresentare come dee greche: e l'esempio era dato dalle principesse. Infatti noi abbiamo già segnalato le statuette di terracotta di Myrina del I secolo. Una statua di dama romana del tipo della V. Capitolina, nella Gliptoteca Ny Carlsberg, è contemporanea alla statua di Giulia, figlia di Tito, citata da Marziale. Al Museo Vaticano, una principessa della famiglia degli Antonini ha preso per modello l'Afrodite di Cnido, ma un drappeggio accompagna il gesto pudico della mano destra.
In generale le V. romane in marmo riproducono uno dei tanti modelli greci di Afrodite nuda - comprese le V. con testa-ritratto - e sono accompagnate da un amorino, che ha anche la funzione di puntello, alla base della statua. È certo che queste statue, diffuse in gran numero in tutto l'Impero, avevano spesso un ruolo essenzialmente decorativo.
D'altra parte era normale che una replica di un tipo di Afrodite greca venisse adottata come statua di culto in un tempio di Venere. Uno degli esempî più interessanti è quello che riguarda il tempio della dea ad Ancona, la cui riproduzione figura sulla Colonna Traiana, nell'episodio della partenza dell'armata romana per la seconda campagna dacica. Si distingue nettamente, all'entrata del tempio, la sagoma della V. Genetrix del tipo di Kallimachos, quello che figura precisamente sulle monete di Sabina.
Quanto alle statuette di metallo, di terracotta o di marmo, esse appartenevano al culto familiare. Nelle province, soprattutto in Oriente, le immagini della V. greco-romana impersonavano spesso antiche divinità locali, specialmente la dea della triade eliopolitana. Non è sempre facile distinguere, nell'iconografia mitologica greco-romana, le figure divine che hanno un significato propriamente religioso da quelle che hanno solo una funzione ornamentale. Tra le seconde vanno classificate per la maggior parte quelle che noi abbiamo già segnalato nelle pitture pompeiane e di cui si trova l'equivalente nei mosaici del II e III sec., così numerosi in tutto l'Impero: la toletta o i giochi della dea con gli amorini, V. Anadiomene, V. marina, giudizio di Paride, ecc. Al contrario, sui sarcofagi, tranne che nella rappresentazione di alcune leggende - come il ratto di Proserpina - dove essa svolge solo la parte di personaggio del mito, V. viene assunta nel simbolismo funerario e nel culto civile e imperiale. Si vede la sua immagine, trasportata nella conchiglia dai centauri marini, mentre porta fra i morti la sua presenza benefica o evoca il loro viaggio verso l'isola dei beati. Il culto funerario di V. è attestato d'altra parte da numerose iscrizioni che ricordano la presenza di statue della dea sulla tomba di giovani donne. Su di un sarcofago del Vaticano decorato con una scena di matrimonio essa accompagna la sposa; e noi sappiamo che nel 176 il Senato dedicò nel tempio di V. della Velia, delle statue in argento di Marco Aurelio e Faustina davanti alle quali le coppie di fidanzati venivano a sacrificare; dea dell'amore coniugale V. usurpò le funzioni di Giunone Pronuba. Infine, nel III sec. soprattutto, la presenza della coppia di Marte e V. si moltiplica sui sarcofagi, così come quella di Marte e Rhea Silvia, con l'intento di sottolineare le origini divine del popolo romano e dei fondatori dell'Impero. Bisogna infine segnalare il ruolo di V. nell'astrologia romana: un pianeta divinizzato prende il suo nome ed essa figura vicino a Marte fra le dodici divinità dei mesi, come mostra l'altare astrologico di Gabii: il suo busto è qui unito al suo attributo familiare, la colomba.
Monumenti considerati. - Specchio del Louvre: A. De Ridder, Bronzes antiques du Louvre, II, n. 1728, p. 50; J. D. Beazley, in Journ. Hell. Stud., LXIX, 1949, fig. 11, p. 11. Specchi etruschi con scene di Adone: E. Gerhard, Etr. Sp., IV, CCCLXXI; CXIV (specchio del Cabinet des Médailles, Parigi). Statuetta di Orvieto: C. S. Blinkenberg, Knidia, Copenaghen 1933, p. 209 s., fig. 88-91. Avorio di Marsiliana: Y. Huls, Ivoires d'Etrurie, Bruxelles 1957, n. 13, p. 40, tav. IX. Specchio etrusco con Turan-Nike: A. De Ridder, op. cit., n. 1752, p. 55; E. Gerhard, op. cit., III, p. 244 (XXXIII, 10). Specchio del Louvre con Turan su cigno: A. De Ridder, op. cit., n. 1720, p. 49; E. Gerhard, op. cit., IV, CCCXXI, 1. Specchio del Cabinet des Médailles: id., op. cit., I, CXIV. Specchio Coll. d'Assia: S. Haynes, in Mitt. der Deutsch. arch. Instit., VI, 1953, p. 12 s. Urne etrusche: E. Brunn, I Rilievi delle Urne Etrusche, Roma 1870, I, tav. I-XVI. Specchi etruschi con Turan-Laran: E. Gerhard, op. cit., III, CCLVII. Candelabri etruschi: G. Q. Giglioli, L'Arte Etrusca, Milano 1935, tav. CCXV, 1 (Berlino); CCLII, 1, 3 (Marzabotto). Manici di strigili etruschi: id., op. cit., tav. CCCVIII 3, 4 (Palestrina). V. con Giove e Marte: M. Borda, in Bull. Com., 73, 1953, p. 201 s. V. pompeiana: G. K. Boyce, in Memoirs of American Academy in Rome, XIV 1937. V. di Arkesilas: C. Weickert, in Festschrift Arndt, Monaco 1925, p. 52 ss. Rilievo con Livia come V.: J. Scott Ryberg, Rites of the State Religion in Roman Art, in Mem. Am. Acc., XXII, 1955, tav. XXVIII, fig. 42 a-e. Statue di dame come V.: A. Aymard, in Mélanges de l'Ecole Franåaise de Rome, 1934, pp. 178-196. Statuette di V. da Myrina: S. Besques-Mollard, Catalogue des Figurines et Reliefs en terre cuite du Musée du Louvre, II, Myrina, 1963, tav. 15. Tempio di V. e Roma: J. Gagé, in Mélanges Cumont, I, 1936, p. 151 ss.; P. L. Strack, Untersuch. zur röm. Reichsprägung im Zweiten Jahrh., Stoccarda 1931, pp. 178, 402. Monete con V.: H. Mattingly, Coins of the Roman Empire in the British Museum, Londra 1930, vol. II ss.; F. Gnecchi, Medaglioni Romani. Milano 1912, passim. Gruppo di Marte e V.: B. M. Felletti Maj, Museo Nazionale Romano. I ritratti, Roma 1953, pp. 119-120. Statua di V. a Ny Carlsberg: F. Poulsen, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen 1962, n. 54, p. 376. Statua di V. del Museo vaticano: W. Amelung, Skulpturen des Vatic. Museums, II, Berlino 1908, p. 112, n. 42, tav. 12. Triade eliopolitana: H. Syring, in Syria, X, 1929, p. 314 ss. Sarcofagi con V.: C. Robert, Die Antiken Sarkophag-Reliefs, Berlino 1880-87, V, 1, p. 36 s. Statue di V. nelle tombe di giovani donne: G. C. Picard, in Mélanges de l'École Franåaise de Rome, LVI, 1939, p. 121 s. Sarcofago del Vaticano con matrimonio: G. Lippold, Shulpturen des Vatic. Museums, III, Berlino 1936, 1, p. 79, n. 522. Marte e V. sui sarcofagi: C. Robert, op. cit., III, 2, pp. 62; 194. Altare astrologico di Gabii: F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Parigi 1905, p. 163, tav. XIV.
Bibl.: J. J. Bernoulli, Aphrodite, Ein Baustein zur griechischen Kunstmythologie, Lipsia 1873; G. Wissowa, in Roscher, VI, 1925, cc. 183-209, s. v. Venus; A. Furtwängler, ibid., I, 1884-86, cc. 390-419, s. v. Aphrodite; C. Koch, in Pauly-Wissowa, VIII A, i, 1955, c. 828 s., s. v. Venus; E. Vetter, ibid., VII, i, 1948, c. 1363 s., s. v. Turan; R. Schilling, La Religion Romaine de Vénus depuis les origines jusqu'au temps d'Auguste. Bibliothèque des Ecoles Françaises d'Athènes et de Rome, CLXXVIII, Parigi 1954; J. Lassus, V. marine, in La Mosaïque gréco-romaine (Colloques Internat. CNRS), Parigi 1965, p. 175 ss.