Venere
Divinità della mitologia classica (identificata dai Romani nella greca Afrodite), che godette di particolare culto nell'antichità; numerosi furono perciò i santuari a lei dedicati (famoso quello di Cipro, dove si riteneva fosse nata).
Figlia di Giove e della ninfa Dione (cfr. Aen. III 19; secondo un'altra versione del mito, sarebbe nata dalla spuma del mare), V., dea dell'amore e della bellezza femminile, presiedeva alla passione amorosa (onde fu detta madre di Cupido, e le furono sacre le colombe). Fu la prescelta da Paride nella famosa gara di bellezza; ed ella gli promise in premio la più bella donna del mondo: di qui il rapimento di Elena, causa di guerra disastrosa e di gravi lutti. Ebbe numerosi amanti (un giorno fu anzi sorpresa dal marito Vulcano in flagrante adulterio con Marte): particolarmente celebrato dai poeti fu il suo amore per Adone; ad Anchise avrebbe generato Enea (su questa discendenza divina dell'eroe troiano insiste, naturalmente, soprattutto il poema virgiliano).
Benché la dea sia ripetutamente nominata nei maggiori poemi latini, il mito di V. interessò scarsamente la fantasia di D.: ed è significativo, alla luce della serietà con la quale il poeta ha guardato a Enea provvidenziale fondatore dell'Impero romano, che V. non sia considerata come madre dell'eroe (notizia che secondo D. doveva essere intesa metaforicamente; e cfr. Pd VIII 9). Se dello splendore femminile della bella Ciprigna (v. 2) il poeta genericamente si ricorda, è per descrivere gli occhi lucentissimi di Matelda: Non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere, trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume (Pg XXVIII 64-66): immagine che, al di là dell'evidente rinvio a Met. X 525-526 (l'involontaria ferita a opera di Cupido, che rese V. innamorata di Adone), fiorisce su uno dei moduli più cari alla lirica stilnovistica. Curiosamente, a D. sorrise di più la bellezza di Diana (cfr., a esempio, Pd XXIII 25-27). Non sconfinano dall'allusione meramente erudita le menzioni di Cv II V 14, che li antichi... dissero Amore essere figlio di Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de lo Eneida, ove dice Venere ad Amore: " Figlio, vertú mia, figlio del sommo padre, che li dardi di Tifeo non curi " [Aen. I 664-665, che però D. fraintende: " Nate, meae vires, mea magna potentia, solus, / nate, patris summi qui tela Typhoia temnis " ]; e Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos, quando dice che Venere disse ad Amore: " Figlio, armi mie, potenzia mia " (Met. V 365 " Arma manusque meae, mea, nate, potentia, dixit "), e di Pd VIII 7-9, che i pagani Dione onoravano e Cupido, / quella per madre sua, questo per figlio, / e dicean ch'el sedette in grembo a Dido (per l'innamoramento di Didone voluto da V. cfr. Aen. I 685-688); mentre nell'esempio di lussuria punita gridato dai penitenti - Diana Elice caccionne / che di Venere avea sentito il tòsco (Pg XXV 131-132; cfr. Met. II 401-530, e vedi ELICE) - V. è anzi semplice sinonimo di diletto amoroso, come in VE II II 8 (l'uomo avendo potenza vegetativa, animale e razionale, in quanto essere animale ricerca il piacere: Secundo in eo quod est delectabile: in quo dicimus illud esse maxime delectabile quod per pretiosissimum obiectum appetitus delectat; hoc autem venus est... Quare haec tria, salus videlicet, venus et virtus, apparent esse illa magnalia). Altrove D. intende indicare il pianeta omonimo (cfr. Pd XXII 144 Dione, V. per metonimia) e il suo influsso (VIII 1-3 Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore / raggiasse, volta nel terzo epiciclo; ma è errore pagano, in quanto è vero solo il principio, che lo bel pianto... d'amar conforta, Pg I 19).
Il personaggio del " Fiore " e del " Detto " (Venus; Venusso; Veno). - Nel Fiore, Venus corrisponde a Venus del Roman de la Rose, ed è uno dei principali agenti allegorici. Assieme al dio d'Amore, di cui è madre (cfr. XV 12, CCXIV 10, ecc.), essa opera in favore dell'Amante, travolgendo gli ostacoli psicologici e sociali che impediscono alla donna di amare. Se il dio d'Amore rappresenta il sentimento amoroso inteso, secondo la tradizione cortese, come raffinata esperienza interiore, V. incarna invece la passione dei sensi, forza incontrollabile della natura, che può agire anche indipendentemente dall'amore cortese (cfr. Rose 10765-10826). Il suo potere, che sembra esercitarsi con particolare violenza sul sesso femminile (cfr. CCXIX 1-5), è raffigurato dalla torcia ardente (‛ brandone '), con cui la dea diffonde il fuoco della passione (XVII 2; CCXVIII 4 - CCXXV 5; al caldo del brandon fa riferimento anche la Vecchia: CXLV 8). Altro suo simbolo sono i colombi, animali tradizionalmente sacri alla dea, che ne guidano il cocchio dorato (CCXVII).
Nemica naturale di Castità (XXII 1; CCXIX 1-5) e di Ragione (CCXXI 9-10) così come di Gelosia e delle forze che ne presidiano il castello (Schifo, Paura e Vergogna), un rapporto particolare la lega, tra le forze favorevoli ad Amore, a Franchezza, la quale appunto verrà designata come messaggera per invocare il suo soccorso (CCXIV 11 ss.). Si ricordi che per Jean de Meung la franchezza rappresenta la condizione primigenia della donna, naturalmente incline all'amore, prima che intervengano le restrizioni imposte dalle leggi e dalle convenzioni sociali (cfr. CLXXXIII); e proprio franchezza è addotta dall'autore francese come giustificazione del tradimento di Vulcano da parte della dea (cfr. Rose 14031-32 " Ce deit mout Venus escuser / Qu'el voulait de franchise user ").
V. interviene in due momenti decisivi dell'azione, aprendo la via prima al bacio, poi alla deflorazione della rosa. I due episodi, situati rispettivamente nella parte di Guillaume de Lorris e in quella di Jean de Meung, presentano una fenomenologia assai diversa. La prima volta V. interviene dopo che Pietà e Franchezza hanno piegato la ritrosia verginale della donna (Schifo): le due messaggere d'amore sono state sufficienti a ristabilire la pace tra i due amanti, ma il loro potere non può spingersi oltre: perché Bellaccoglienza faccia dono del fiore è necessaria l'intercessione di Venere (XV 12-14). La dea, presentata con una figura retorica di preterizione, in cui la sua indescrivibile bellezza è paragonata alle virtù di tutti i santi (come " sainte Venus " essa era invocata in Rose 10827), riscalda con la vampa della sua torcia, che reca davanti a sé a guisa di vessillo, il cuore di Bellaccoglienza, unendolo con quello dell'amante; poi le si avvicina con viso lieto e ardito e la rimprovera del duro trattamento riservato all'amante, inducendola a concedergli un bacio (XVII-XVIII; Rose 3420-3476).
Se in questa sua prima visita la dea si limita a " scaldare un poco " il cuore della donna, lasciando ancora sopravvivere limitazioni e preclusioni nei confronti dell'amante (cfr. XVIII 11; XX 9-11), la seconda avrà carattere radicale, distruggendo tutto il sistema di difese fatto erigere da Gelosia. La sua entrata in scena è preparata dalla furiosa battaglia, combattuta nel cuore della donna, tra le potenze favorevoli e quelle ostili ad amore (CCVII-CCXIV). Visto l'andamento sfavorevole della lotta, Amore si decide a invocare il soccorso della madre: risoluzione estrema cui, come spiega Jean (Rose 10749-64), il dio si dispone solo in casi di necessità. La manda a chiamare da Franchezza, che va a cercarla sul monte Citerone, creduto nel Medioevo sacro alla dea, per uno scambio con l'isola di Citera (vedi la voce Citerone). Udita l'ambasceria, la dea, crucciata per le resistenze opposte al figlio, fa allestire il suo cocchio dorato tirato da cinque colombi, su cui l'indomani volerà al campo di Amore: questa volta essa si presenta nel suo aspetto di guerriera, armata di arco, di una torcia ben impennata (quindi atta a essere scagliata) e di fuoco greco per accenderla (CCXIV-CCXVIII; Rose 15632-800). Giunta nel campo di Amore presterà solenne giuramento di non lasciar sopravvivere la Castità in donne di valore, imponendo al figlio un simile giuramento per quanto riguarda gli uomini (CCXIX; Rose 15826-90). Poi ordina ai difensori del castello di arrendersi, rampognandoli duramente, specie Vergogna, che risponde arditamente alle intimazioni della dea: se non cederanno, li costringerà ad arrendersi con la forza, mettendo fuoco al simbolico fornello (CCXX-CCXXII; Rose 20711-84). Dalle minacce la dea passerà all'azione: avvistata nel castello una feritoia, perfettamente modellata da Natura (l'organo femminile), fa scoccare attraverso essa il brandone acceso, incendiando il castello (CCXXIII 1-8 e CCXXV; Rose 20784-21276). Fuggite le guardie, sarà possibile liberare Bellaccoglienza, che farà completo dono di sé e del fiore (CCXXVII 9-11). Giunto nel tempio di Venere, il pellegrino di amore dedicherà alla dea e al figlio di lei un devoto atto di fede (CCXXXI 5; Rose 21753).
In questo secondo episodio, al rincrudirsi dell'azione della dea corrisponde un profondo mutamento, così nel suo atteggiamento (che da ‛ baldo ' si è fatto ‛ cruccioso e fiero ', CCXXIII 2), come nel linguaggio. Se nella prima visita Venere si era contenuta entro i cardini della cortesia, dipingendo alla donna la bellezza e i pregi dell'amante (XVIII 1-8), nella seconda il divampare della passione trova espressione nell'incontrollata violenza del linguaggio, che si fa apertamente villano (e poi villanamente la rampogna, CCXXI 5), non evitando di ricorrere all'insulto (Garza, CCXXI 6), alla parola volgare (fogna, CCXXI 8; groppone, CCXXI 11; bordello, CCXXII 7), alla metafora oscena (fornel, CCXXI 14, e CCXXII 3).
L'andamento dell'episodio non differisce nella sostanza da quello del Roman de la Rose, ma D. procede alla soppressione dei numerosi excursus che in Jean frenano il corso dell'azione, sì da conferire a V. un'assoluta centralità nel finale della favola, che sembra voler bilanciare il ruolo preminente svolto da Amore nel principio (I-V). L'intervento più vistoso è la soppressione dell'episodio di Nature e Genius, che nel romanzo si estende per quasi 5000 versi (15891-20710), inserendosi subito dopo il giuramento fatto da V. e Amore contro Castità (cfr. son. CCXIX). Si tratta di un episodio di grande portata ideologica, in cui il mito venusiano viene collegato al tema della fecondità universale, alla superiore necessità di perpetuazione della specie: non più subordinato alla funzione riproduttiva, l'eros diventa nel Fiore fine a sé stesso. D. ha inoltre eliminato l'episodio di Adone, intercalato all'ambasciata di Franchezza sul monte Citerone (15677-764), e l'excursus di Pigmalione (20817-21214). Non trovano riscontro nel Fiore neppure gli altri riferimenti mitologici sparsi nel romanzo di Jean, come il mito della nascita di V. dai genitali di Saturno, recisi da Giove e gettati nel mare (5535-42; 10827-30), nonché l'episodio di V. e Marte catturati dalle insidie di Vulcano, legato a una tematica matrimoniale estranea all'autore italiano (13839-74; 14157-202; 18061-129). Cancellato quasi del tutto lo sfondo mitico del personaggio, D. tende a farne pura ipostasi dell'amore sessuale, allineandola con le altre potenze, puramente astratte, che operano nell'allegoria. Si ricordi che nel Convivio gl'iddii e dee pagane verranno identificati con le idee platoniche che tanto è a dire quanto forme e nature universali (II IV 5).
Oltre al Fiore, due riferimenti alla dea si hanno anche nel Detto, dove tuttavia resta assente la grande metafora del fuoco venusiano (nel primo esempio essa è allusa solo negativamente dal gelo della donna). V. è dapprima citata da Ricchezza, che suggerisce all'amante di avvalersi del suo aiuto per vincere la guerra amorosa: Se fai che Veno imprenda / la guerr'a Gelosia, / come che 'n gelo sia, / convien ch'ella si renda, / e ched ella ti renda / del servir guiderdone (v. 300). Il riferimento non trova riscontro nel passo corrispondente del Roman de la Rose (cfr. 10077 ss.), ma un consiglio analogo era dato all'Amante da Amico (8247-56). La dea è citata inoltre nei versi finali del poemetto, dove sembra escludersi il suo intervento nel caso che l'amico abbia a sua volta una bella compagna: ché Veno non si cura / che non faccia far tratto, / di che l'amor è tratto (v. 474; cfr. Rose 2707-08 " Si n'avras pas peor qu'il muse / A t'amie ne qu'il t'encuse ").
Quanto al nome della dea, nel Fiore ricorre la forma Venus (XVIII 14, XXVII 12, CCXXI 1, CCXXV 1), accanto a Venusso XVII 1, 12, XVIII 2, CCXXI 9, CCXXII 1, CCXVIII 2, 12, CCXX 1, CCXXII 1, CCXXIII 1) e a Veno (XXII 1, XXIII 4, CCXVIII 10), quest'ultima esclusiva nel Detto. Di queste forme, la prima, corrispondente al francese Venus, è quella prevalente nei testi del Duecento, sia in prosa che in poesia (cfr. Mare Amoroso 194; ecc.). Venusso deriva da questa, con aggiunta di una vocale d'appoggio, secondo un trattamento comune nel Due e Trecento per i nomi classici terminanti in -us (forme analoghe sono diffusissime nell'Intelligenza; cfr. ad es. nella st. 79 " Turnusso ", " Marcusso Antoniusso "). Quanto a Veno, sarà forma tratta dal nominativo latino (cfr., sempre nel Fiore, Gieso da lesus).
I rapporti tra la dea della Commedia e quella del Fiore restano ancora visibili, e verificabili sul piano dell'espressione linguistica. Così, lo bel pianeto che d'amar conforta (Pg I 19) rimanda al verso del Fiore (riferito a Bellaccoglienza): e Venusso, ch'a ciò [ad amare] la confortava, XVII 12 (del resto l'astro assume su di sé anche l'ardore infuocato della torcia di V.: cfr. Pg XXVII 95-96 Citerea, / che di foco d'amor par sempre ardente); mentre l'espressione riferita a Elice, che di Venere avea sentito il tòsco (Pg XXV 132), ricorda i vv. 9-10 dello stesso sonetto del Fiore: Quando Bellaccoglienza sentì 'l caldo / di quel brandon, solo che nell'exemplum edificante del Purgatorio il ‛ caldo ' della passione amorosa è reso eticamente come tòsco.
Non mancano del resto nel Paradiso terrestre più sottili, velate allusioni al mito venusiano del Fiore. Il carro su cui compare Beatrice nella processione ricorda il carro d'oro fino, tirato da cinque colombi (cfr. Fiore CCXVIII 8 con suo' colombi che 'l carr'han tirato), su cui V. fa il suo ingresso nel campo di Amore (cfr. F. D'Ovidio, Se possa il " Fiore " essere di D.A., in Opere, IV, Napoli 1932, 284). Mentre poi il settemplice candelabro che precede la processione, le cui fiammelle di tratti pennelli avean sembiante (Pg XXIX 75), richiama il brandone che nel Fiore V. recava a guisa di pennone (XVII 3), come già vide il Bassermann (Der Streit um den Fiore, in " Deutsches Dante Jahrbuch " X [1928] 130).
Quanto ai colombi della dea (cui la sacra processione contrappone il grifone-Cristo), ad essi rimanda la celebre comparazione dei due amanti di Rimini (If V 82-84). È poi superfluo ricordare la grande estensione che avrà nella Commedia la metafora del fuoco, per designare sia la passione dei sensi che, all'opposto, la fiamma dell'amore divino. Per limitarci a un solo esempio, il verbo ‛ avvampare ', riferito due volte nel son. XVII del Fiore agli effetti di V., verrà usato per l'ardere di giusto amore nel cuore di Nino Visconti (Pg VIII 84; cfr. anche Pd XXV 82), mentre poco prima, a proposito della moglie di Ugolino, passata a seconde nozze, la metafora del fuoco si era presentata col valore che essa aveva nel Fiore, ma eticamente degradata: Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d'amor dura, / se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende (Pg VIII 76-78).
Il Pianeta. - Terzo pianeta del sistema tolemaico (Cv II III 7 e 12, Pd VIII 2-3, dove l'espressione tergo epiciclo sta per " terzo cielo ") il cui moto si svolge entro una sezione sferica contigua, verso l'interno, a quella di Mercurio e, verso l'esterno, a quella del Sole.
Il moto di V. si effettua in conformità alla teoria epiciclica: il pianeta come tale, infatti, percorre un piccolo cerchio (l'epiciclo, v.) il cui centro percorre, a sua volta, un grande cerchio detto deferente (Cv II III 16). La teoria di V. presenta tuttavia una particolarità: la posizione angolare del centro dell'epiciclo è sempre identica a quella del Sole (Cv II V 16; cfr. Pd XXII 142-144, dov'è detto che il moto dei figli di Maia e Dione, cioè Mercurio e V., si svolge intorno e accanto al figlio di Iperione, cioè il Sole; v. MERCURIO). Per l'astronomo medievale posto sulla terra, quindi, il tutto avveniva come se V. girasse attorno al Sole (Pd VIII 11-12, e v. SOLE) e soltanto l'attribuzione a ciascun pianeta di una propria sezione sferica concentrica ma ben distinta da quella degli altri pianeti, escludeva che ciò si verificasse effettivamente.
Il moto apparente di V. è perciò strettamente solidale con quello del Sole, da cui non si allontana mai più di 47°. Per tale ragione, V. è visibile soltanto o la mattina, immediatamente prima della levata del Sole, o la sera, immediatamente dopo il tramonto di esso (Cv II XIII 13; di qui la denominazione classica di V. ‛ mattutina ' come Lucifer e di V. ‛ serotina ' come Hesper, Mn I XI 5; e cfr. Cv II II 1), in quanto cioè il solo periodo in cui V. si trova al di sopra dell'orizzonte è il giorno, durante il quale la luminosità del Sole ne impedisce l'osservazione. In Cv II VI 10, D. calcola la più breve distanza di V. dalla Terra, approssimativamente, in 167 diametri terrestri (corrispondenti, per i computi del tempo, a 542.750 miglia), mentre in II V 15 ricorda che i motori del cielo di V. sono gli angeli appartenenti all'ordine dei Troni.
Se la rivoluzione siderale di V. è, come si è visto, identica a quella del Sole (Cv II XIV 16), la durata del movimento del pianeta, come tale, sul proprio epiciclo è invece di un anno comune e 219 giorni. Pertanto, le due rivoluzioni di V. che D. afferma essersi svolte tra la morte di Beatrice, l'8 giugno 1290, e l'apparizione della gentile donna (Cv II II 1) corrispondono a uno spazio di tempo di tre anni (di cui uno bisestile) e 72 giorni, il che consente di datare il secondo evento al 19 luglio 1293.
La posizione di V. sullo zodiaco all'atto del viaggio di D. costituisce una delle informazioni astronomiche utili a datarne l'inizio al 25 marzo 1301 (v. PROFACIO). A questa data, infatti, secondo l'almanacco di Profacio, V. è nel 280 di Acquario ed entra nella costellazione dei Pesci durante la notte tra il 26 e il 27 marzo; è all'alba del 27 marzo 1301, quindi, che V. faceva tutto rider l'orïente, / velando i Pesci ch'erano in sua scorta (Pg I 19-21). Tre giorni più tardi, all'alba del 30 marzo, V. si trova nel 3° dei Pesci, mentre il Sole è nel 17° di Ariete: V., pertanto, si leva ad est circa tre ore prima del Sole, nel momento appunto in cui D. concepisce il suo terzo sogno premonitore (Pg XXVII 94-96).
Il cielo di Venere. - D. rappresenta il cielo di V., il terzo cielo, nei canti VIII e IX del Paradiso. Sull'inizio dell'VIII D. rammenta come i pagani erroneamente credessero che V. irraggiasse il folle amore (l'amore sensuale), e avessero creato su tale presupposto grandi trame mitiche e letterarie (come l'episodio di Didone), dottrina che D. corregge in Cv II V 13-14 esplicitamente (e qui indirettamente), chiarendo che veramente V. fa cadere, come gli altri astri, influssi sugli uomini, ma che gl'intelletti angelici che a questo cielo presiedono (i Principati, indica nel Paradiso, e non i Troni, come riteneva al tempo del Convivio) ispirano un ardore amoroso che per il vero cristiano può e deve essere virtuoso.
D. si accorge dell'ascesa per aver veduto Beatrice farsi più bella, mentre intorno si muovono lumi più e men correnti (v. 20), a seconda della maggiore o minore intensità della visione di Dio. Uno di essi si accosta e dichiara di esser Carlo Martello (v.), sovrano di Ungheria, futuro re di Provenza, di Napoli e di Sicilia. Alludendo alla rivolta dei Vespri, diretta conseguenza di soprusi esercitati sul popolo, Carlo ammonisce il fratello Roberto perché eviti i nuovi gravami fiscali che potrà procurare ai sudditi l'ingordigia degli amministratori catalani, la cui scelta egli paventa come conseguenza della natura parca del re: constatazione che dà luogo, a sua volta, al problema di come, essendo Roberto figlio di persona di natura larga, sia possibile che da un dolce seme ne derivi uno amaro (v. 93). È quesito cui Carlo risponde spiegando che Dio provvede non soltanto all'essere, ma anche al benessere delle cose, e ha perciò disposto che l'uomo fosse cive (v. 116), inserito in un ordine sociale che non può esistere ove i suoi componenti non siano disposti a diversi offici (v. 119). Ma queste diverse occupazioni non possono attuarsi se non vi sono differenti attitudini: le quali vengono inserite negli uomini dai cieli senza distinguere l'un da l'altro ostello (v. 129). Le inclinazioni naturali tuttavia fan logicamente cattiva prova se vengono usate per uffici difformi rispetto a sé stesse: e in realtà malamente gli uomini fanno monaco chi è disposto alla milizia, e re chi è incline a fare il predicatore (si pensa con molti dubbi per il primo caso a Luigi fratello di Carlo, per il secondo con assai maggior probabilità a Roberto).
Terminato il discorso di Carlo con un'allusione profetica (è la prima di tre profezie sulla condizione politica e religiosa del mondo, pronunciate da Carlo, da Cunizza e da Folchetto, che punteggiano i due canti dedicati al cielo di V.), ed esattamente con un cenno alla giusta punizione che cadrà sugli Angioini per i torti commessi, un altro splendore mostra di voler parlare (IX 13 ss.), e si rivela per la nobildonna Cunizza da Romano (v.), passata dagli amori del senso all'amore virtuoso per Dio, ma anch'essa insieme passionalmente impegnata, per effetto della sua condizione di nobile, nelle vicende politiche della propria terra: ella profetizza sventura per i Padovani, ribelli a Enrico VII e al vicario imperiale Cangrande.
Un itinerario spirituale simile mostra di aver compiuto il trovatore Folchetto (v.), che, descritta con larga e stilisticamente frondosa metafora la propria città natale, Marsiglia, dichiara di essere stato dapprima fortemente soggetto a quell'influsso di amore del quale fu pregna la biblica Raab, presente nello stesso cielo: tale evocazione conduce Folchetto a ricordare come il pontefice poco si rammenti dei luoghi santi e della loro necessaria liberazione. Ma la menzione di Bonifacio porta Folchetto a deprecare la corruzione del papa, pastore divenuto lupo (ma presto Roma sarà libera dal malgoverno), anche per colpa del sempre più ampio desiderio di lusso creato dal fiorino d'oro coniato a Firenze, che induce piuttosto a studiare il diritto canonico che non a pensare a Nazareth.
La rappresentazione del cielo di V. non poté non suscitare in D. il commosso ricordo delle molte meditazioni e creazioni letterarie elaborate sull'amore da altri e da lui stesso fin dalla gioventù giovandosi della concezione dell'amor virtuoso. D. appare animato da un senso di compiacimento nel mostrare come da una parte si fosse da sempre pensato a V. come a fonte dell'influsso di amore nei ripudiati riti pagani (ma anche negli amati versi di Virgilio), dall'altra come egli possa indicare con la chiarezza massima derivantegli dal viaggio celeste, alla luce della perfetta cristiana sapienza acquisita, la vera dottrina, e dunque la possibilità e necessità dell'amor virtuoso (in forme precise D. torna anche sulla validità del principio generale degl'influssi astrali sull'animo degli uomini, da lui stesso fatto argomento della canzone Voi che 'ntendendo). Ma come sempre D. concreta le sue idee anche in narrazioni biografiche, non prive tra loro di qualche somiglianza nel rappresentare il passaggio, assai caro a D., dall'amor carnale a quello virtuoso e mistico: investite peraltro da vari sentimenti e impegni intellettuali del poeta.
Così la condizione di re, propria di Carlo Martello, permette a D. da una parte di evocare un momento felice, un incontro illustre della vita, dall'altra di formulare, colorandola di un pur velato senso di rimpianto - poiché sventura comune è stata la precoce morte di Carlo - l'ipotesi di quello che tale incontro avrebbe potuto forse costituire (il poeta, che conosce l'esilio, ha ora piena coscienza del fatto) come premessa all'appoggio saldo di uomo assai potente, e mosso da calda e vera amicizia. In questo atteggiamento psicologico è la giustificazione della lunga e minuziosa descrizione, condotta con forte senso della regalità, dei territori che le combinazioni dinastiche avrebbero attribuito a Carlo.
Ma la circostanza di un incontro con un re vissuto negli anni a lui contemporanei (unita all'importanza attribuita in questi tempi alla teoria degl'influssi) propone, con un disviamento temporaneo dal tema dell'amore, le questioni nascenti dall'intreccio del problema del potere ccn quello delle inclinazioni discendenti dagli astri su coloro che quel potere esercitano. E si risolve nell'affermazione, resa vibrante dal forte senso dantesco della socialità come premessa alla moralità, da una parte della necessità della vita civile e della varietà provvidenzialmente composita dei suoi protagonisti, dall'altra nel monito agli uomini perché portino particolare attenzione nell'attribuire opportunamente le diverse funzioni alle diverse personalità, attenzione che D. ritiene dover essere particolarmente vigile al livello dei capi, in relazione all'ansia che cristianamente nutre per la sorte dei popoli, talvolta costretti dal malgoverno alla violenza.
L'inizio del canto IX, con il caldo volgersi di D. a Clemenza, continua il tema della familiarità con i buoni principi. Poi il discorso di Cunizza, sentita come personalità dalle forti passioni, fa balenare nuovamente una scena di vicende violente imperversanti su mal governate terre, sottolineando, a contrasto, secondo il tema ricorrente, l'itinerario felice della beata dall'amore sensuale all'amore virtuoso.
Al discorso variamente appassionato di Cunizza subentra quello di Folchetto che si dipana dapprima, quasi permanesse nel beato il trovatore, e si volesse rinnovare l'iter terreno dell'anima, su lente prolisse e un po' oziose trame letterarie; poi il discorso riflette incisivamente, con mossa eloquenza, il diverso animo di Folchetto, passato all'accesa passione d'intransigente prelato, che come tale s'infervora nell'esprimere sdegno per la mancata crociata contro gl'infedeli, e si scaglia contro i cristiani anch'essi intimamente infedeli per il fatto di venir meno ai loro doveri: infedeltà della quale D., attraverso Folchetto, indaga con duro e commosso coraggio le cause profonde, trovandole nella corruzione e nell'avidità di benessere portate dal molto oro: anche se il forte senso costruttivo della personalità dantesca fa sì che i due canti terminino con un cenno alla provvidenziale prossima liberazione.
Bibl. - Delle ‛ lecturae ' del c. VIII si vedano in particolare quelle di L. Rocca, Firenze 1903; di F. Flamini, Nel cielo di Venere, in Varia, Livorno 1905; di V. Vaturi, Firenze 1925; di A. Pézard, Roma 1953; di A. Vallone, in " Humanitas " XIV (1959) 277-295; di C. Muscetta, in Lect. Scaligera III 253-292; di S. Accardo, in Nuove Lett. VI 27-44. Di quelle del c. IX: di G. Sécrétant, Firenze 1911; di G. Bertoni, in Cinque Letture dantesche, Modena 1933; di G. Grana, Roma 1956; di R. Roedel, in Lett. dant. 1507-1531; di F. Coletti, in Lect. Scaligera III 297-344; di A. Vallone, in Nuove Lett. VI 45-68.