VENERE DI MILO
Sotto questo nome è universalmente nota la statua di Afrodite scoperta nell'isola di Milo ed esposta al Museo del Louvre a Parigi (n. 399), che nella media cultura moderna ha rappresentato e simboleggiato la bellezza femminile quale era intesa nel mondo classico. Le proporzioni della V. di Milo sono state anche assunte come base per concorsi di bellezza dei giorni nostri. Sino alla prima metà del sec. XIX rappresentante della bellezza femminile antica era stata la Venere Capitolina (vol. i, fig. 182), sulla quale la V. di Milo ha, fra gli altri, il vantaggio di essere un originale di arte greca e non una copia di età romana.
Scoperta. La V. di Milo fu scoperta casualmente coltivando un campo nel febbraio e aprile 1820, probabilmente in due tempi; essa è infatti lavorata in due parti, quella nuda e quella panneggiata. L'agente consolare francese Brest riuscì ad acquistarla (dopo averne chiesta l'autorizzazione con lettera del 12 aprile) per conto del marchese de Rivière ambasciatore a Costantinopoli, che intendeva donarla al re di Francia Luigi XVIII. Ma quando il segretario d'ambasciata visconte Marcellus si presentò per ritirarla, trovò che i maggiorenti dell'isola l'avevano consegnata a un monaco armeno che voleva farne dono a un principe greco. Ma, non avendo il monaco dato altro che un acconto, il Marcellus, avendo aggiunto qualche cosa sul prezzo (che salì in tal modo dai 1200 ai 1500 franchi) dopo due giorni di discussioni e un pagamento in contanti, riuscì ad imbarcare la statua sulla sua nave da guerra. Da questo contrasto nacque poi la leggenda di una vera e propria rissa sulla spiaggia di Milo, nel corso della quale la statua avrebbe perduto le braccia, mancanti, resa più drammatica dalla vista di un bastimento inglese che puntava sulla rada e al cui comandante si supponeva l'intenzione di entrare in gara per il possesso della statua. In realtà non vi fu conflitto ma solo la minaccia di far entrare in azione i 50 uomini che il Marcellus aveva ai suoi comandi sulla nave.
La statua, dunque fu trovata senza braccia. Sei mesi più tardi apposite ricerche reperirono due braccia, ma si vide che erano in marmo diverso e che non erano pertinenti. Insieme alla statua (in tre pezzi: busto, parte panneggiata, parte superiore dei capelli) entrarono al Museo del Louvre un avambraccio reso informe dalla cattiva conservazione, la metà di una mano che tiene una mela e tre erme (di Eracle, di Hermes e di Dioniso). Ciò è attestato dal rapporto presentato il 2 dicembre 1822 dal direttore dei musei di Francia conte Forbin all'Académie des Inscriptions.
Dell'arrivo della statua a Parigi dà notizia il Moniteur, giornale ufficiale, del 7 marzo 1821 dopo che il re aveva accettato il dono e aveva destinato la statua al Louvre. Erano passati più di tre mesi dall'arrivo della nave recante la statua nel porto di Tolone ma la burocrazia della Real Casa era stata lenta ad autorizzare la direzione dei musei ad assumere la spesa per l'imballaggio (diretto dal pittore Révoil di Aix) e il trasporto. Nel carteggio relativo la statua risulta valutata 100.000 scudi.
Giunta al Louvre, si aprì una accanita discussione sul come restaurarla. Il Fauvel, che risiedeva ad Atene e veniva considerato "il Nestore degli studiosi di antichità dell'oriente", al quale la statua era stata mostrata al Pireo al lume di luna, scriveva a questo proposito (lettera del 18 settembre 1822): ... essa non teneva in mano il pomo; senza dubbio essa l'aveva gettato a sua volta nell'arena archeologica per riattizzarvi la discordia".
La disputa sul restauro fu felicemente risolta al difuori della consorteria degli archeologi attribuendo al sovrano (che per certi intralci sembra non avesse affatto vista la statua se non riprodotta in un disegno) la decisione di non restaurarla affatto. Saggia decisione che in realtà risaliva al Quatremère de Quincy, segretario perpetuo dell'Accademia di Belle Arti. Il 24 maggio 1821 la V. fu esposta al pubblico in una sala del Louvre. Ma le discussioni sul restauro e sulla sua collocazione in museo continuarono fino al 1833 (Revue contemporaine, i, 1852, pp. 130-132).
Fortuna. La V. di Milo fu subito esaltata negli ambienti colti e in quelli ufficiali francesi. Il Louvre era in gara col Museo Britannico e con la nuova Gliptoteca di Monaco di Baviera. Fu giudicata (dal Fauvel) "almeno altrettanto perfetta della Venere Capitolina", e (dal Quatremère) "il pezzo più raro e il più prezioso del nostro museo". Ancora agli inizî di questo secolo lo scultore Auguste Rodin, allora in gran fama, scriveva che "era uguale a Prometeo colui che seppe rapire alla natura la vita che adoriamo nella V. di Milo". Oggi tali giudizî appaiono criticamente sprovveduti; ma la celebrità della statua non è venuta meno per la folla dei turisti.
Dal punto di vista della storia dell'arte antica, la V. di Milo ha subito via via un progressivo abbassamento di cr0nologia, il che comporta anche una minore considerazione dal punto di vista della qualità. I primi studiosi moderni partirono dal confronto con la Venere di Capua, copia romana di un tipo oggi ritenuto lisippeo e dapprima attribuito a Skopas (Collignon); ma il Furtwängler (v. bibliografia) già ne abbassava la data alla fine del II o inizî del I sec. a. C. e insinuava addirittura che i francesi avessero fatto sparire le iscrizioni che potevano portare ad abbassare la cronologia togliendo la statua all'età classica (o "secolo d'oro", come si diceva allora) del IV secolo. In realtà tre iscrizioni erano giunte al Louvre un anno dopo l'ingresso della V. e più tardi scomparvero. Una sola fu poi ritrovata dal Michon e si propose che si adattasse alla base di una delle erme, ma la proposta non fu accolta dal Furtwängler. Delle due iscrizioni perdute, una era la dedica di un certo Bacchios per un'erma di Eracle; ma rimase incerto se provenisse da Milo. L'altra era la firma di un (.....)sandros figlio di Menide, antiocheno e fu letta completando il nome dapprima in Agesandros e poi in Alexandros, scultore anche altrimenti noto come attivo attorno al 100 a. C. Questa iscrizione si ritenne (dal Furtwängler) di poter adattare alla base della Afrodite (v. vol. i, s. v. Alexandros, I°); ma la proposta è rimasta nel campo delle ipotesi. Recentemente è stato addirittura proposto (ma in un contesto non privo di contraddizioni) di attribuirla a una scuola di eclettico classicismo non lontano da quello di Pasiteles (Arias), ricostruendone l'atteggiamento con la destra a trattenere il panneggio e con il braccio sinistro appoggiato a un pilastrino o a una figurina di Eros. La più convincente analisi rimane quella del Lippold (v. bibliografia), che mantiene la data attorno al 100 a. C. e la derivazione dal tipo della Venere di Capua attribuita alla cerchia di Lisippo nell'originale. La mano sinistra che stringe la mela, attributo simbolico del nome dell'isola di Milo, conservata al Louvre sarebbe pertinente e presuppone quindi un braccio disteso (come sono distese le braccia della Venere di Capua). Rispetto a questa la testa eretta accresce la ricchezza dei contrasti; in luogo di linee direttrici chiare e precise, una inquieta varietà di movimenti che produce un senso di vita accresciuta dal realismo del nudo ripreso dal modello vivente con tutta la morbidezza della esecuzione in marmo (mentre l'originale della Venere di Capua era in bronzo). Il successo di questa statua sullo spettatore moderno è dovuto secondo il Lippold, proprio a questa trasposizione di un'opera classica nello stile pieno di effetti di una raffinata scultura in marmo.
Bibl.: P. Saint-Victor, Hommes et Dieux, Parigi 1867, pp. 3-10; M. Aicard, La V. d. M. Recherches sur l'histoire de la découverte d'après des documents inédits, Parigi 1874; J. Overbeck, Ueber die Künstlerinschrift u. das Datum d. A. v. M., in Berichte d. Sächs. Gesellsch. d. Wissensch. zu Leipzig, 1881, p. 93 ss.; A. Furtwängler, Meisterwerke der griechischen Plastik, Monaco 1893, p. 628; id., Zur V. M., in Sitzungsber. d. Bayer. Akad., 1897, p. 415 (iscrizioni); E. Michon, La V. d. M., son arrivée et son exposition au Louvre, in Rev. d. Étud. Grecques, XIII, 1900, pp. 302-370; A. Rodin, Venus, in A. Rodin, l'homme et l'oeuvre, "L'Art et les Artistes", Parigi 1914; E. Collignon, La sculpture grecque, Parigi II, 1892-1897, pp. 474; id., Scopas et Praxiteles, Parigi 1907, pp. 131-132; H. Lippold, Griech. Plastik, in Handb. d. Archäolog., Monaco 1950, p. 399 ss. (con bibl.); J. Charbonneaux, Le geste de la V. de M., in Rev. d. Arts, VI, 1956, pp. 105-107; L. Laurenzi, Le V. di M. e di Capua, in Arte Ant. e Mod., 1962, pp. 384-389; P. E. Arias, L'Arte Greca, Torino 1968, pp. 840-842.