vendetta
Oltre che nella Commedia, compare una volta nelle Rime e tre nel Fiore, in accezioni, e spesso anche in passi, strettamente connessi con quelli in cui è attestato il verbo ‛ vendicare ' (v.).
Nel pensiero e nel lessico dantesco il concetto di v. appare strettamente connesso con quelli di ‛ ingiuria ' e di ‛ ira ': secondo il diritto romano l'ingiuria " ex eo dicta est quod non iure fiat " (Dig. 47 10 1), si configura cioè come un'infrazione delle norme umane e divine. Per Tommaso invece l'ira " respicit duo obiecta: scilicet vindictam, quam appetit; et eum de quo vindictam quaerit. Et circa utrumque quandam arduitatem ira requirit: non enim insurgit motus irae, nisi aliqua magnitudine circa utrumque existente... Unde manifestum est quod ira non est in concupiscibili, sed in irascibili " (Sum. theol. I II 46 3); si ricordi poi che " passiones irascibilis in hoc differunt a passionibus concupiscibilis, quod obiecta passionum concupiscibilis sunt bonum et malum absolute; obiecta autem passionum irascibilis sunt bonum et malum cum quadam elevatione vel arduitate " (ibid.; cfr. anche Comm. Eth. IV lect. XIII 805); pertanto la v., in quanto soddisfazione, sia pure violenta e privata, di un'offesa ricevuta o di un danno patito, secondo la mentalità medievale, si presenta come un atto di giustizia, e come tale era riconosciuta anche dalle leggi.
Queste considerazioni rendono perspicua la lunga perifrasi cui ricorre Virgilio per definire chi è iroso (Pg XVII 122 è chi per ingiuria par ch'aonti, / sì che si fa de la vendetta ghiotto), ma spiegano anche perché, nella maggior parte degli esempi, specie quando è riferito a Dio e all'atteggiamento da lui assunto di fronte al comportamento umano, il vocabolo assuma il valore di " giustizia punitrice ", acquisti cioè una pregnanza semantica assai più ampia dell'accezione che esso ha nell'italiano moderno, se non altro perché non implica in alcun modo l'idea di un contegno condannato dalla coscienza morale.
Un'accezione più vicina a quella dell'italiano odierno, e allusiva quindi a una ritorsione dell'offeso contro l'offensore, è del resto raramente attestata, per non dire che essa sia propria quasi esclusivamente del Fiore: vendetta / ... sarà fatta (CLXXXIV 9), così, secondo la Vecchia, dovrà minacciare la donna cui l'amico abbia confessato di avere un'altra amante; del tradimento operato da Filippo il Bello ai danni del conte di Fiandra, solo che le città fiamminghe lo potessero, tosto ne saria vendetta (Pg XX 47). Ma in questo e in altri esempi, in cui le locuzioni ‛ far v. ' e simili pur conservano l'idea che il soggetto si ponga l'intento di danneggiare chi gli ha fatto del male, il senso complessivo appare più tenue, meno crudo, di quanto la stessa espressione non comporterebbe per il lettore moderno.
Così, la canzone Così nel mio parlar (Rime CIII) si conclude con un verso potentemente sentenzioso: bell'onor s'acquista in far vendetta (v. 83); ma si rifletta che poco prima (cfr. vv. 73 e 77) il poeta ha sì proclamato la sua volontà di volersi vendicare dell'insensibilità e crudeltà della donna amata, ma subito dopo si è ripromesso di ‛ renderle ' con amor pace (v. 78).
Uno dei temi ricorrenti nel discorso della Vecchia a Bellaccoglienza si ha quando la prima auspica che la sua discepola " renda agli uomini il contraccambio " del male che questi le avevano fatto quando era giovane: i' non so chi vendetta me ne faccia / se non tu (CLIII 13); e così in CLXII 8 (v. anche VENDICARE; vengianza). Analogamente, l'espressione ‛ far v. ' include più l'idea della punizione che non quella della v. vera e propria nella dichiarazione dei Baroni ad Amore: S'uomini ricchi vi fanno damaggio, / vo' avete ben chi ne farà vendetta (LXXXVI 2).
L'idea della " giustizia punitrice " o della " punizione ", che è presente in lime LXXV 4 ('l cuoio, cioè la pelle delle lombate [lonza] d'agnello divorate da Forese, ridotta a pergamena sulla quale saranno registrati i grossi debiti di lui, farà vendetta della carne mangiata), diventa la prevalente in quasi tutte le occorrenze della Commedia. Di qui la frequenza delle invocazioni alla giustizia riparatrice di Dio (Pg XX 95 O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?; If XIV 16), la definizione di giusta vendetta (Pg XXI 6) data delle pene cui sono soggetti gli spiriti espianti, il convincimento espresso con forza da D. che vendetta di Dio non teme suppe (XXXIII 36) e che, pur quando la colpa sia in un primo momento fatta ricadere sugli offesi, la vendetta / fia testimonio al ver che la dispensa (Pd XVII 53). E si vedano inoltre If XI 90 la divina vendetta, XXIV 120, Pd XXII 14.
Anche in questo gruppo di esempi ricorre la locuzione ‛ far v. '; per quanto il costrutto sia costante, la frase acquista senso lievemente diverso a seconda del contesto: vale " rendimi giustizia " nelle parole rivolte dalla vedovella a Traiano (Pg X 83 Segnor, fammi vendetta / di mio figliuol ch'è morto); in If XVIII 96 anche di Medea si fa vendetta, il complemento indica la vittima dell'inganno che viene punito; invece in VII 12 Michele / fé la vendetta del superbo strupo, si designa la colpa, cioè la rivolta di Lucifero, che Michele punì. E si veda anche XII 69.
Particolare rilievo hanno nella concezione dantesca della storia i motivi della passione di Cristo e della missione provvidenziale dell'Impero. A questi temi si collega l'uso di v. nel VI canto del Paradiso, allorquando Giustiniano spiega a D. come Dio avesse concesso all'aquila la gloria di far vendetta a la sua ira (v. 90), cioè di dare giusta soddisfazione allo sdegno di Dio per il peccato originale mediante la crocifissione di Cristo, e, subito dopo, come, distruggendo Gerusalemme, Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico (vv. 92 e 93), cioè " punì " negli Ebrei, responsabili della morte di Cristo, la " punizione " del peccato originale (v. TITO, e anche VESPASIANO). Questo apparente paradosso suscita nell'animo di D. un dubbio, la cui soluzione, proposta da Beatrice, offre l'occasione per altre due occorrenze del vocabolo, in VII 20 e 50.
La connessione fra v. e ‛ ira ' ricorre anche nella frase con cui viene indicata e spiegata la presenza di Ulisse e Diomede nella medesima fiamma: Là dentro si martira / Ulisse e Dïomede, e così insieme / a la vendetta vanno come a l'ira (If XXVI 57). L'interpretazione è controversa, in quanto v. può essere intesa sia come " giustizia di Dio " sia come " pena ", " punizione ", " castigo "; analogamente, per ira sono possibili due interpretazioni: l'ira è quella di Dio contro i due eroi o sono le azioni in cui i due eroi traducono la propria ira (cfr. Pagliaro, Ulisse 382-383).
In altri esempi v. assume un significato pregnante, come nelle parole di Capaneo: Se Giove... / me saetti con tutta sua forza: / non ne potrebbe aver vendetta allegra (If XIV 60); " L'autore parla secondo la condizione della persona introdotta, ché quella di Dio non è vendetta, ma giustizia ", commenta il Buti; più chiaramente, Scartazzini-Vandelli: " non potrebbe aver mai la gioiosa ' soddisfazione ' di vedermi umiliato " . A D., che fortuitamente lo aveva colpito con il piede nel viso, Bocca degli Abati domanda: Perché mi peste? / se tu non vieni a crescer la vendetta / di Montaperti, perché mi moleste? (XXXII 80); qui v. vale, sinteticamente, " la pena che mi è assegnata per la colpa che commisi a Montaperti " (Sapegno). L'unico esempio di uso al plurale si ha nell'invito di Ciampolo di Navarra: stieno i Malebranche un poco in cesso, / sì ch' ei [gli altri barattieri] non teman de le lor vendette (XXII 101); " le pronte, inflessibili punizioni inflitte dai diavoli a chi affiora a respirare ", commenta il Mattalia, ed è chiosa perspicua purché si avverta che nel plurale è implicita l'idea di un comportamento crudele ed efferato che si concreta in una serie successiva di atti.
La vendetta privata in Dante. - Per comprendere l'opinione di D. sulla v. privata occorre andare al di là dell'analisi effettuata da insigni studiosi sulla conoscenza profonda o meramente tralatizia da parte del poeta delle fonti giuridiche del suo tempo. Infatti il concetto di v. privata proviene piuttosto dal costume, profondamente radicato nella Firenze di quel tempo, che da elaborazioni dottrinali.
In quest'epoca la v. è considerata principalmente un obbligo morale, un diritto e nello stesso tempo un dovere dell'offeso e dei suoi parenti e consorti, in ultima analisi un debito di onore. Il suo esercizio è tollerato dall'ordinamento giuridico, che d'altro canto punisce con i propri mezzi il reato commesso dal primo offensore e da cui sorge autonomamente il diritto alla vendetta. Varie sono le cause che alimentano il sentimento della vendetta. La prima è data dalla tradizione della faida, profondamente radicata nel costume e nella stessa legislazione. La faida, tipico e principale istituto del diritto penale barbarico, che opera in tutti i casi di delitto con la sola eccezione dei delitti contro lo stato, sta a significare la retribuzione del male col male, la corrispondenza dell'espiazione col delitto; ma le ipotesi normative vengono a contemperare e in qualche modo tendono a limitare l'uso della v., che nel suo esercizio diventa molto spesso una guerra continua e all'ultimo sangue tra famiglie. Anche la sanzione penale, che cerca d'impedire l'esercizio della v., è espressamente giustificata dalla ragione di compiere del delitto una " condecens vindicta ", in quanto il fine della norma non è tanto quello di tutelare l'ordine pubblico violato, bensì quello d'impedire o limitare la reazione all'offesa e di ristabilire la pace violata. La v. e la pena, entrambe eccitate dal sentimento di un'ingiuria sofferta, tendono al medesimo fine, a perseguire cioè l'autore di essa; ma mentre la prima è passione individuale che non incontra alcun freno se non nella resistenza dell'avversario o nella moderazione che l'offeso s'impone, la pena colpisce il reo non tanto per un atto che sia di danno altrui, quanto perché nega l'essenza del diritto e viene nel contempo a violare l'ordine costituito. Il sistema delle compositiones nella legislazione longobarda tende a sostituirsi all'esercizio della faida, ma con scarsi risultati.
L'ordinamento giuridico non riuscendo a sradicare il sentimento della v., difettando allo stesso i mezzi e una reale intenzione di eliminarla o porvi freno, le pone accanto il mezzo delle compositiones per riparare il danno economico causato e così placare l'animo dell'offeso o dei suoi parenti: Editto di Rotari, cap. 74: " In omnis istas plagas aut feritas superius scriptas, quae inter homines evenerint, ideo maiorem compositionem posuimus quam antiqui nostri, ut faida, quod est inimicitia, post accepta suprascripta compositione postponatur, et amplius non requiratur, nec dolum teneatur, sed sit sibi causa finita, amicitia manente " . Con l'avvento del feudalesimo, la potestà che doveva dar forza alle leggi era smembrata e divisa fra il sovrano e i signori feudali. Costoro attraverso i beneficia e le immunitates esercitavano i poteri loro conferiti dal sovrano come un diritto patrimoniale e possedevano una sovranità, che non derivava più dal potere centrale, anzi di fatto vi si contrapponeva. Il legame feudale aveva creato, altresì, nuovi strati sociali, i quali venivano ad aggiungersi ai rapporti di parentela e di sudditanza e nel loro ambito la v. trovò sussidio e protezione. Sminuita e infiacchita l'autorità del potere centrale, la difesa privata acquistò un carattere pubblico, consentendo le guerre private e le rappresaglie, derivazioni dell'antica faida. Unico temperamento era dato dal dover rispettare delle formalità, quali la sfida, e procedere secondo norme dirette a limitare i danni della guerra privata (cfr. la Costituzione di pace di Magonza di Federico II dell'anno 1235, in Pertz, Mon. Germ. Histor., Leges, II V 314).
La v. privata non fu soppressa negli ordinamenti comunali e i motivi sono da ricercarsi sia nel fatto che essa era radicata profondamente nel costume sia perché in tali ordinamenti mancava l'energia sufficiente da parte dei reggitori del governo per la tutela dell'ordine pubblico violato: la debolezza delle costituzioni comunali fece sì che l'esercizio della v. non solo venisse tollerato ma venisse in qualche modo regolato. La classe dominante è formata per lo più da raggruppamenti di consorterie, i cui membri, uniti da vincoli di sangue ed economici, sono perfettamente organizzati per la tutela degl'interessi della consorteria e dei singoli componenti di essa e sono obbligati a prestarsi aiuto vicendevole nell'esercizio della vendetta. Le classi soggette poi esercitano la v. non solo per placare le ingiuste offese subite, ma soprattutto per difendersi dalla classe dominante e al momento opportuno per scalzarla e sostituirsi a essa. La v. privata d'altro canto veniva esercitata non solo dalle consorterie dei nobili, ma anche dalle persone d'inferiore condizione, sia che fossero riunite nelle corporazioni artigiane sia che si associassero al fine di non subire le altrui violenze.
L'esame della legislazione comunale e la lettura delle cronache familiari e delle opere letterarie del tempo, che D. sicuramente conosceva, danno un'idea della vasta diffusione della v. privata. La Chiesa stessa è impotente e incapace a fronteggiare tale fenomeno: se in linea teorica la v. è condannata e neppur considerata istituto giuridico (Bonifacio de' Vitalini, Tractatus super maleficiis, Venezia 1555, proemio, 103) e il cristiano è invitato al perdono, in quanto la v. spetta a Dio, in linea pratica il suo esercizio è stimato altissimo onore (Graziolo de' Bambaglioli, Trattato sopra le virtù morali, Modena 1871, 242).
Ai tempi di D. in Firenze vi era una regolamentazione della v. privata, che, pure se fu accolta negli statuti gradualmente, nella prassi era presente da tempo: nello statuto del 1325 il procedimento è appena abbozzato, essendo richiamata per lo più la materia contenuta in un regolamento del 1295. Nella provisione del 2-3 agosto 1331, trasfusa poi nello statuto del 1355 con l'aggiunta delle norme di cui alla provisione del settembre 1334, esso assume la forma definitiva, che infine fu ancor più perfezionata nello statuto del 1415.
Secondo tali regole, al giudice era impedito di procedere contro chi compisse la v. legittimamente (Statuto del Podestà di Firenze [1325], III, rubr. 45; Statuto del 1415, III, rubr. 120; in Statuta Populi et Communis Florentiae, I, Friburgo 1778, 326 ss.); all'esecutore degli Ordinamenti di Giustizia, nei casi di omicidio e di lesioni gravi, era proibito fare pressioni sulle parti contendenti perché addivenissero alla tregua e alla pace, prima che fosse stata esercitata una " condecens vindicta " (Statuto del Capitano del Popolo di Firenze [1322], V, rubr. 76); il diritto alla v. era riconosciuto all'offeso e ai suoi congiunti e solo per le lesioni personali; significativo il fatto, poi, che l'offensore fosse sempre soggetto alla v., avesse o meno subito un processo, anzi l'aver riportato una condanna era la prova della notorietà dell'offesa, che veniva quindi a legittimare l'esercizio della v. privata (Statuto del Podestà di Firenze [1325], III, rubr. 126). Coloro che avevano ottenuto la pace dall'avversario e coloro che avessero subito ferite per difendersi da un'aggressione ovvero per vendicare l'offesa ricevuta, non erano soggetti alla vendetta. Essa, poi, doveva essere proporzionata all'offesa e i congiunti o i consorti non potevano dare aiuto a colui che la subiva. La v. non poteva essere in alcun modo esercitata nel caso in cui l'offensore fosse stato condannato a subire la stessa sorte, o di morte o di mutilazione di un membro, provocata all'offeso: la ragione di tale limitazione era data dal fatto che siffatte espiazioni erano in pratica equivalenti a una " condecens vindicta " (rubr. 86).
In tutti gli altri casi di condanna la v. poteva essere sempre esercitata, ma in ogni caso solo sulla persona dell'offensore e alla sua morte sui figli maschi e in loro mancanza sopra i loro figli e così all'infinito sopra i discendenti " ex latere agnatorum " ovvero sopra i più prossimi, anche se illegittimi: le violazioni a tale regola, non infrequenti, erano punite dall'Ordinamento con molta severità (rubr. 126), al fine d'impedire che subissero la v. i congiunti e i consorti, le cui uccisioni potevano dar luogo dai loro parenti più prossimi ad altre v. e così all'infinito. L'esercizio della v. mediante uccisione o ferita grave era soggetto al giudizio del magistrato, il quale, accertata l'esistenza della causa della v. e la conformità dell'atto al principio della " condecens vindicta ", emanava una sentenza di non punibilità e di legittimità dell'atto compiuto. Tale accertamento giurisdizionale era necessario al rettore del comune per costringere le parti alla pace sotto la minaccia di sanzioni pubbliche (cfr. Collectio chartarum pacis privatae medii aevi ad regionem Tusciae pertinentium, a c. di Gino Mari, Milano 1943).
La pace, poi, veniva consacrata in un atto pubblico redatto da un notaio, in cui venivano inserite le clausole penali e venivano nominati dalle parti dei mallevadori. Nel caso in cui una delle parti violasse il patto concluso, era soggetta automaticamente, senza giudizio di merito, alla condanna a morte mediante decapitazione e i suoi figli maschi subivano il bando perpetuo nel caso di omicidio o di ferite gravi; alla condanna al pagamento del triplo di quanto stabilito per le altre lesioni; in ogni caso si era tenuti al pagamento di quanto stabilito nell'atto a titolo di penale. Non bisogna dimenticare che tale regolamentazione fu violata in numerosi casi, non riuscendo la prescrizione di sanzioni sempre più severe a porre freno non solo all'esercizio della v. ma neppure ai suoi eccessi: la conferma ci viene data dalla lettura delle cronache familiari del tempo, quale la Cronica domestica di Donato Velluti. Ciò avveniva in quanto la v. non solo era alimentata dal sentimento dell'onore, ma era congiunta a passioni politiche e diveniva un necessario mezzo di difesa, ritenuto legittimo anche contro chi era al governo.
D. non si sottrae a questo modo di sentire; anzi, immerso nella realtà del suo tempo, ne percepisce con geniale intuizione i motivi più nascosti. Se tale sentimento faccia parte della natura del poeta ovvero venga recepito intellettualmente dallo stesso in tutta la sua complessa struttura e nelle sue implicazioni, anche le più remote, può essere discusso, ma è indubbio che egli ha saputo distillare quanto di più pregnante e significativo si ricava dalla giustizia privata, applicando nel suo poema la legge del contrapasso e creando un'opera che in ultima analisi non rappresenta che una sublime v. contro i suoi numerosi avversari: egli, che si dette alla politica attiva dal 1295 al 1304 più per passione che per intima vocazione, che seppe sì intuire la crisi delle istituzioni comunali, organicamente deboli e strutturalmente inefficienti a garantire l'ordine e la giustizia, ma che non seppe destreggiarsi tra gl'intrighi e le lotte di partito e di fazione, non possedendo d'altro canto un reale senso politico delle cose e la prontezza delle decisioni, ebbe la ventura di assistere a molte v., tra cui quella tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati, che seminarono in Firenze lutti e disordini.
Nella Commedia si rintracciano tutti gli elementi della v. privata; l'applicazione della dottrina del contrapasso comporta che l'ufficio punitivo venga esercitato dall'offeso o da altri, strumenti inconsapevoli di una giustizia superiore, umana o divina, che si serve della v. come il più idoneo strumento di pena: è il caso dei fratelli Alberti (If XXXII 21 ss.) e dello stesso episodio di Ugolino, che addenta la nuca dell'arcivescovo Ruggeri (XXXIII 1 ss.).
Il poeta certo non giustifica ma condivide lo sdegno che arma la mano di coloro che hanno ricevuto gravi offese, come nel ricordo che Mosca de' Lamberti reca (in If XXVIII 107) dell'uccisione di Buondelmonte Buondelmonti, il quale aveva rifiutato le nozze con una donna della famiglia degli Amidei dopo la promessa di matrimonio, su istigazione di Aldruda Donati; fatto che aveva provocato la giusta v. della famiglia (cfr. la rievocazione dell'episodio effettuata dal trisavolo di D., Cacciaguida, in Pd XVI 136 ss.). Al contrario, la condanna dell'operato di Guido da Monforte, il quale trucidò in chiesa a Viterbo Enrico d'Inghilterra per vendicare la morte del padre (If XII 119-121), non significa biasimo nei confronti dell'esercizio della v., bensì dell'atto gravemente sacrilego compiuto. Tale riprovazione è giustificata dal fatto che si tratta di un caso di " vindicta transversa ", cioè che non era compiuta nei confronti dell'offensore, bensì contro uno dei suoi congiunti o consorti, biasimata e condannata dal senso comune e dallo stesso ordinamento giuridico, come abbiamo detto più avanti. L'atteggiamento del poeta, poi, relativamente alla v. non significa che egli non apprezzi, anzi che non lodi, l'operato di Marzucco (Pg VI 17-18), il quale perdonò l'uccisore del proprio figlio.
Un'immagine inconsueta della posizione di D. ci viene testimoniata da un sonetto di Forese Donati (Rime LXXVIII) nella famosa tenzone che ebbe luogo tra i due poeti amici: Forese nel sesto sonetto prende in giro il poeta con tono pungente, contestandogli il mancato esercizio della v. privata per un'offesa subita dal padre, e che D. per viltà non volle vendicare.
Non è dato sapere di quale v. non compiuta si trattasse e ben conosciamo l'atteggiamento personale del poeta nei confronti della violenza fisica, in qualunque modo essa si presentasse; il sonetto scherzoso ci dà modo, però, di concludere che D. non solo conoscesse perfettamente il procedimento attinente a tale mezzo di riparazione delle ingiuste offese ricevute, ma lo ammettesse e giustificasse. La puntigliosa informazione di D. sulla realtà del suo tempo è confermata dal verso che vendetta di Dio non teme suppe (Pg XXXIII 36). Fra le tante interpretazioni di esso, legittima è quella che vi scorge un'allusione a un'usanza di quell'età, secondo cui l'offensore, che aveva mangiato zuppa sulla sepoltura dell'assassinato nei nove giorni successivi alla morte, non era soggetto alla vendetta.
Per ultimo consideriamo l'episodio più significativo: nella nona bolgia, dove soffrono i seminatori di discordie, D. si sofferma più del necessario affascinato dalla spaventosa figura di Bertram del Bormio, il quale con il capo che penzola da una mano a guisa di lanterna (If XXVIII 122) racconta i suoi peccati e spiega il castigo per il quale in sì atroce modo s'osserva in lui lo contrapasso (v. 142), in lui che ha diviso e lacerato l'altrui pace e concordia. Virgilio sollecita il poeta ad abbandonare quel luogo, in quanto ha notato un segno di minaccia da parte di un'ombra, il cui nome, Geri del Bello, ha sentito pronunziare dagli altri dannati, e tutto riferisce al discepolo, quando questi gli confida che desiderava riconoscere tra i dannati un spirto del mio sangue (XXIX 20). Dalle parole del maestro D. non esita a ravvisare colui che tanto cercava di scorgere, il proprio parente da parte di padre, Geri del Bello, il quale era stato ucciso da un appartenente alla famiglia dei Sacchetti. D. non biasima l'atteggiamento di Geri, anzi lo giustifica, in quanto lo sventurato non era stato ancora vendicato dai suoi consorti, ivi compreso lo stesso poeta. " O duca mio, la vïolenta morte / che non li è vendicata ancor ", diss'io, / " per alcun che de l'onta sia consorte, / fece lui disdegnoso; ond'el sen gio / sanza parlarmi, sì com'ïo estimo: / e in ciò m'ha el fatto a sé più pio " (vv. 31-36). D. è consapevole che la v. è un dovere seppure increscioso, e abbandonando il suo consueto atteggiamento orgoglioso per vicende che lo riguardavano da vicino, resta turbato dal comportamento di Geri e mostra il disagio di colui che sa di non aver compiuto un preciso obbligo, di non aver onorato con l'esercizio della v. il proprio consorte; sente pietà per il parente non tanto per la pena eterna di cui soffre, bensì per la v. non compiuta. L'episodio è significativo: in esso non vi è alcun intento didascalico; la pietà che vi traspare si ricollega a un sistema di vita e a un modo di sentire dallo stesso D. accettato, e non è affatto indecoroso per il poeta.
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