Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La rappresentazione della velocità è una delle ossessioni della prima parte del secolo, così come, per reazione, l’appello alla lentezza segna la seconda. Possiamo individuare fondamentalmente due modi con cui la velocità si installa nelle opere letterarie: o attraverso la rappresentazione diretta di quei mezzi tecnici (l’automobile, l’aereo, il treno, il cinema) che hanno introdotto una mutata sensibilità al tempo e allo spazio, oppure nella messa a punto di strategie formali volte ad “accelerare” la scrittura stessa.
Metropoli e scrittura
Italo Calvino
Lezioni americane
Con questo non voglio dire che la rapidità sia un valore in sé: il tempo narrativo può essere anche ritardante, o ciclico, o immobile. In ogni caso il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. [...] Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari; in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta di arrivare prima a un traguardo stabilito, al contrario l’economia di tempo è una buona cosa perché più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere. La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte. [...] Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un solo istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.
I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2002
Il sociologo Georg Simmel nel saggio sulla Metropoli e la vita mentale (1900) sottolinea, proprio all’inizio del secolo, che la diffusione degli orologi da tasca rende più rapida la percezione del tempo e ne consente una rapida calcolabilità, tanto da influenzare le relazioni tra individui. Fin dal primo decennio del secolo, le tecniche cinematografiche offrono la possibilità di rappresentare azioni rapide e sintetiche, con ritmi accelerati che colpiscono emotivamente lo spettatore. L’arte futurista e cubista si collegano profondamente a queste innovazioni. Filippo Tommaso Marinetti invita gli scrittori ad abolire la sintassi per rendere immediata la percezione di ciò che si legge, come se le qualità primarie della realtà (colori, movimenti, suoni) si riflettessero immediatamente sulla pagina. Non per niente questo aspetto della sua poetica è stato messo in rapporto con l’idea di materia elaborata da Henri Bergson. Nel manifesto Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà (11 maggio 1913) compare poi la parola simultaneità, che indica uno degli obiettivi più perseguito dai futuristi, quello di rappresentare l’accelerazione della vita moderna attraverso la compresenza di molteplici stati d’animo in un solo individuo. Anche i pittori futuristi (Umberto Boccioni, Giacomo Balla) vogliono rappresentare nella fissità del quadro l’insieme di movimenti velocissimi e impercettibili a occhio nudo, come il muoversi delle gambe di una donna e delle zampe di un cane bassotto. Marinetti invoca esplicitamente “la bellezza della velocità”, e spesso le opere scritte del futurismo si riducono a tavole tipografiche, immagini e slogan che anticipano le costruzioni visive della pubblicità. Le poetiche dei grandi narratori modernisti (Marcel Proust, Virginia Woolf, James Joyce, Robert Musil, e potremmo aggiungere Luigi Pirandello, Carlo Emilio Gadda, Louis-Ferdinand Céline, o Malcolm Lowry) sono imbevute di elementi che rimandano alla rapidità, all’accelerazione del ritmo, alla compressione del tempo, anche se la lettura spesso richiede tempi lunghi. In Proust decine di pagine, sintatticamente complesse e tortuose, servono a preparare un’illuminazione improvvisa, una rivelazione momentanea destinata a sparire, e che altre decine di pagine devono poi recuperare. In questo caso la rapidità ha a che fare con qualità episodiche del reale (un sapore, un suono, un colore, un contatto) che solo lunghi sforzi della scrittura riescono a salvare dall’oblio. Nel capitolo intitolato Nausicaa dell’Ulisse di Joyce vengono rappresentate tre azioni in simultanea in tre luoghi diversi. Come spiega Stephen Kern, un’immagine apparentemente periferica come quella di un pipistrello che vola serve per unire le tre azioni in un montaggio che rivela elementi ironici, sottolineati anche dal cucù di un orologio che suona meccanicamente le nove. Ancor prima di Joyce, nel 1913 il poeta Blaise Cendrars pubblica, ispirato dalla pittura di Sonia Delaunay, La prosa del transiberiano e della piccola Giovanna di Francia (Prose du transibérien et de la petite Jehanne de France), un libro stampato su un unico foglio di due metri dove veniva descritto il viaggio del poeta da Mosca sulla transiberiana, con annessa una mappa che doveva mostrare simultaneamente, prima della scrittura, il percorso del viaggio. Anche qui sono le immagini di orologi diversi che devono rendere la complessa esperienza del poeta: “Il grande battacchio di Notre Dame / Lo stridulo scampanio del Louvre che annuncia San Bartolomeo / Le campane arrugginite di Bruges-la-morte / Le campanelle elettriche della Biblioteca pubblica di New York / Le campane cittadine di Venezia / E le campane di Mosca”. Nel mescolare esperienza reale e trasfigurazione fantastica, Cendrars esprime lo sradicamento dell’uomo moderno che è come un oggetto trasportato dalla vitesse, in un accostarsi improvviso e suggestivo di luoghi e memorie. Qualcosa di simile avviene, pur con un forte spirito ludico, nella poesia di Guillaume Apollinaire, che evoca, ad esempio, le onde radio che si diramano dalla Tour Eiffel, o il risuonare simultaneo di orologi in punti distanti d’Europa.
La vita delle metropoli con i suoi ritmi veloci e con i nuovi strumenti della velocità (l’auto, l’aereo) entra prepotentemente nella letteratura. All’inizio del romanzo L’uomo senza qualità, Robert Musil sceglie proprio il centro di Vienna come luogo simbolico dove ambientare un’azione caoticamente moderna, resa con immagini di traffico intenso e di frastuono metropolitano: “Le automobili sbucavano da vie anguste e profonde nelle secche delle piazze luminose. Il nereggiar dei pedoni disegnava cordoni sfioccati. [...] Centinaia di suoni erano attorcigliati in un groviglio metallico di frastuono da cui ora sporgevano ora si ritraevano punte acuminate e spigoli taglienti, e limpide note si staccavano e volavano via”. E quando vuole descrivere l’invasamento provocato dalla musica in una coppia che sta suonando il pianoforte è a immagini di velocità che Musil ricorre, come se il groviglio della passione si potesse esprimere attraverso la perfezione dei meccanismi: “Clarisse e Walter ripartirono come due locomotive lanciate fianco a fianco. Il pezzo che sonavano volava loro incontro come rotaie lampeggianti, spariva nella macchina rombante e restava alle loro spalle, paesaggio sonoro meravigliosamente presente. Durante la corsa vertiginosa i sensi delle due creature eran compressi in una cosa sola; udito, sangue, muscoli travolti senza volontà da un’eguale vicenda; pareti di suoni, luminose, sinuose, costringevano i loro corpi in uno stesso binario, li incurvavano insieme, allargavano e stringevano il petto in un unico respiro”.
In Mrs Dalloway (1925) di Virginia Woolf è ancora il caos cittadino e vorticoso di Londra a costituire lo scenario su cui la protagonista, Clarissa, proietta il suo desiderio di vita, una sintesi di immagini che si raccolgono intorno a lei mentre attraversa Victoria Street: “Negli occhi dei passanti, nella foga del brulichio cittadino, nel muggito e nel frastuono; nel trepestio e nell’ondeggiar di carrozze, automobili, omnibus, furgoni, uomini-sandwich; nelle bande e negli organetti, nella nota trionfante e nello strano altissimo canto di un aereo che ronzava su in cielo era ciò che ella amava: la vita, Londra, e quell’attimo di giugno”.
Il susseguirsi di sensazioni veloci nella realtà cittadina obbliga gli scrittori a restringere i tempi, a concentrare un numero denso di azioni nella pagina, a operare scorci e virate improvvise. Carlo Emilio Gadda, uno scrittore fortemente influenzato da teorie scientifiche e filosofiche, aspira spesso a rappresentare la complessità del reale attraverso l’accumulo e la ridondanza. Ogni particolare del mondo si spiega per Gadda in un diramarsi di rapporti con altri particolari che invadono la pagina scritta. In un racconto degli anni Trenta dal titolo L’incendio di via Keplero, Gadda vuol descrivere, in anticipo sul Georges Perec di La vita: istruzioni per l’uso, un condominio colpito da un incendio, e cogliere le vicende di ogni abitante attraverso una sintesi che riunisce il presente del disastro al passato individuale. Il racconto si apre ironicamente con il ricordo di Marinetti e con la sua ossessione per la simultaneità: “Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco”. Se l’effetto dell’incendio è di provocare l’espulsione simultanea di tutti gli abitanti del caseggiato, la scrittura di Gadda si mette in gara con la rapidità del fuoco per sintetizzare in poche pagine i tanti destini che si intrecciano. Ogni azione è colta nel suo acme di tensione comica e tragica insieme, come nella descrizione dei pompieri che si precipitano sul luogo del disastro: “Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie delle autopompe fuoriuscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito male delle fiamme, nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato un salto, gli riuscì d’abbracciare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala di coda già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio”.
Nei romanzi di Céline, invece, è la ricerca di una tonalità fortemente emotiva a dettare un ritmo ansioso, sincopato, vorticoso, con l’adozione di una tecnica (i famosi tre puntini di sospensione) che ha fatto pensare alla musica jazz o allo scatenamento ritmico tipico di danze primitive, come nota Gianni Celati. Dopo i due imponenti romanzi Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932) e Morte a credito (Mort à crédit, 1936), Céline elabora una prosa fortemente stilizzata che riprende l’argot della malavita in Guignol’s band, di cui basta leggere le prime righe, con la rievocazione dei bombardamenti del 1940, per farsi un’idea di questa nuova prosa dettata da ritmi forsennati: “Braum! Vrum!… È il grande smantellamento! Tutta la strada che sprofonda in riva al fiume!… È Orléans che crolla e il tuono del Grand Café!… Un tavolino vola e fende l’aria!… Uccello di marmo! prilla, spacca in mille pezzi la finestra di fronte!… Tutto il mobilio che traballa, sprizza dalla vetrata, si sparpaglia in pioggia di fuoco!…”. Nell’introduzione al libro, lo scrittore esalta la sua nuova trovata tecnica con dichiarazioni che mettono a fuoco specificamente la sua scelta di poetica: “Il jazz ha sbaraccato il valzer, l’impressionismo ha mandato in pensione la luce da studio, scriverete telegrafico o non scriverete più niente!”.
Rapidità e scrittura
Questa dunque la smania per la velocità che caratterizza la prima parte del secolo. Quando nel 1988 escono le Lezioni americane di Italo Calvino, la rapidità si rivela come uno dei sei valori scelti dallo scrittore appena scomparso per accompagnare la letteratura nel nuovo secolo. Calvino intende la rapidità non più come gli scrittori moderni, cioè in senso mimetico, la gara della scrittura con la tecnica, ma scava nelle letterature antiche e moderne un percorso fatto soprattutto di sensazioni mentali, cortocircuiti logici. L’immagine di un tempo rapido è per lui quella che si rivela non nel romanzo (forma moderna) ma nel racconto, nell’apologo, nel folklore, nell’arguzia popolare (forme premoderne). Soprattutto il racconto orale, che Calvino ha studiato a lungo nel lavoro di raccolta e riscrittura delle Fiabe italiane, mostra quell’economia e quella logica essenziale che lo scrittore riconosce come impulso alla base della sua opera. E non è un mezzo moderno a diventarne l’emblema, ma un antico mezzo di trasporto come il cavallo: il cavallo come emblema della velocità anche mentale marca tutta la storia della letteratura, preannunciando tutta la problematica propria del nostro orizzonte tecnologico. Da Boccaccio a Galileo, da De Quincey a Leopardi, Calvino individua i termini di una rapidità interiore, difficile da misurare, e controcorrente rispetto alla vulgata modernista: “Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini. Ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti o gare, né può disporre i propri risultati in una prospettiva storica. La velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che si possa ricavarne”.
Per questo Calvino si avvicina a una linea di scrittori che hanno praticato forme brevi, che hanno cioè concentrato in poche pagine quanto i narratori esplorano di solito in opere ponderose. Oltre all’argentino Jorge Luis Borges, Calvino ricorda Paul Valéry, l’autore di una biografia concentrata e intellettuale che prende titolo dal suo protagonista, Monsieur Teste, personificazione del dominio della vita mentale sui sentimenti e sulle passioni. E a Teste avvicina un altro bizzarro personaggio della letteratura francese, il signor Piuma, inventato dallo scrittore Henri Michaux (la raccolta di prose Un certain Plume esce nel 1930, e poi è accresciuta fino al 1963). Le avventure del signor Piuma, raccontate in episodi di due o tre pagine al massimo, parlano di un uomo qualunque, comico e patetico, che si muove in un mondo apparentemente realistico ma in realtà trasfigurato e paradossale, ridicolo e inquietante: “In uno stupido momento di distrazione, Plume camminò con i piedi sul soffitto, invece di tenerli per terra. Ahimè, quando se n’accorse, era troppo tardi”.
Agli scrittori di forme brevi possiamo aggiungere Raymond Queneau, anche lui ammirato da Calvino per la sua tensione enciclopedica, per la sperimentazione continua di linguaggi e generi. Queneau scrive nel 1947 Exercices de style (tradotti da Umberto Eco nel 1983), una serie di microracconti dove viene ripetuta per 99 volte la stessa banale storia quotidiana, giocando con la variazione di toni, stili, generi, figure retoriche.
C’è, in questa tensione verso l’essenziale, non solo il fulcro del linguaggio poetico e della ricerca del mot juste cui accenna Calvino. Anche il comico e l’umorismo lavorano volentieri sulla brevità, sull’effetto fulminante della battuta o del “verso” fatto al linguaggio parlato in grado di restituire una intera tranche de vie. Del resto, nel motto di spirito, è proprio la brevità a spiazzare i luoghi comuni della mente e a metterne in moto, rapidamente e piacevolmente, la vitalità; e produttivamente, poiché attiva implicite associazioni e percorsi imprevisti di significato. È un registro di discorso, il comico, al quale gli Esercizi di stile non sono affatto estranei, ma caro anche a tanti altri scrittori del Novecento (e non solo), da Joyce a Céline. E si presenta sia come maschera di un soggetto che ironicamente si mescola e si distingue dalla realtà che descrive, sia come gioco delle combinazioni che la materia prima della lingua (alfabeto, parole, suoni) rende possibile e dai sensi imprevedibili che ne derivano. Basti pensare ad Achille Campanile, e alle sue Tragedie in due battute, in tutto compiute e tanto vicine all’inconsistenza.
E ancora di Queneau nel 1950 esce Petite cosmogonie portative (Piccola cosmogonia portatile, tradotta da Calvino nel 1982), un poema che racconta la nascita dell’universo in sei canti, ispirato al dio Mercurio, protettore del movimento e della rapidità. Queneau riesce a sintetizzare in pochi canti un immenso patrimonio culturale, dove scienza e cultura umanistica si accompagnano in una rappresentazione ludica che sembra voler deridere ogni forma di sapere. La sua prospettiva enciclopedica distrugge ogni forma romanzesca, come si vede dai suoi romanzi fatti interamente di messe in scena di meccanismi e funzioni narrative.
Quando dopo gli anni Settanta il romanzo ricompare con forza sulla scena europea, particolarmente in Inghilterra con scrittori come Martin Amis e Ian McEwan, l’attenzione alla velocità viene tutta spostata sui ritmi della lettura, sull’ipotesi di tornare a racconti dai contenuti ben evidenti ma dall’altrettanto evidente costruzione formale, con un’attenzione specifica alle risorse della scrittura che deve stare al passo con i velocissimi tempi moderni.