Veda
Insieme di testi sacri indiani. Il V. si articola in varie parti: le Saṃhitā (R̥gveda, Yajurveda, Sāmaveda, cui si somma più tardi l’Atharvaveda), i Brāhmaṇa, gli Āraṇyaka e le Upaniṣad (dette, per via della loro posizione, vedānta, ossia «fine del V.»). Dal punto di vista storico e linguistico, tali classi di testi sono separate da intervalli di secoli e rappresentano punti di vista anche assai diversi. La filologia odierna colloca il più antico testo vedico, il R̥gveda, tra la seconda metà del 2° millennio a.C. e l’inizio del 1°, ma l’assenza di dati archeologici impedisce di confermare tali datazioni e le scuole filosofiche e religiose indiane non prendono in alcuna considerazione la stratificazione cronologica del V., interpretandola in modo sincronico, e considerando questi testi come un’unità che affronta da vari punti di vista un unico tema, il sacrificio. Ciò fa sì che i testi di Grammatica (Vyākaraṇa) come il Mahābhāṣya di Patañjali descrivano il sanscrito come diviso in due livelli, da una parte il linguaggio vedico, dall’altra quello della comunicazione ordinaria (loka). Tale divisione ha un’efficacia sociolinguistica dal momento che la classe sacerdotale utilizza il V. per la celebrazione di sacrifici, pur non parlando normalmente in vedico. L’interpretazione unitaria del V. si basa sul fatto che dalle Saṃhitā sono tratti i mantra, ossia le formule pronunciate durante i sacrifici, i Brāhmaṇa descrivono invece i sacrifici stessi e gli Āraṇyaka e le Upaniṣad presentano un’interiorizzazione del sacrificio attraverso, in primis, il controllo del respiro. Secondo la Mīmāṃsā, il V. si compone principalmente di formule rituali (mantra), passaggi narrativi (arthavāda) e prescrizioni. Solo queste ultime hanno un valore epistemologico autonomo, mentre gli arthavāda sono ancillari alle prescrizioni e possono essere compresi solo assieme a queste. Per es., passi come «Vāyu è il più rapido fra gli dei» non parlerebbero di un dio effettivamente esistente e andrebbero compresi come complementi della prescrizione di offrire a Vāyu un certo sacrificio, essendo rassicurati che il risultato connesso nel V. al sacrificio verrà ottenuto celermente. Tramite tale principio ermeneutico, la Mīmāṃsā può conciliare, fra l’altro, le proprie posizioni realiste con l’apparente illusionismo di vari passi delle Upaniṣad. Secondo la Mīmāṃsā e il Vedānta, il V. trae la propria validità dal non dipendere da un autore personale, sia egli un uomo o Dio stesso, e non poter quindi essere condizionato dai suoi difetti (➔ Kumārila). Il Nyāya, invece, lega il valore epistemologico del V. al suo essere stato pronunciato da un autore affidabile, Dio stesso. Il V. è collettivamente noto come śruti e considerato il fondamento dell’autorità dei testi indicati come smr̥ti («memoria»), ossia Itihāsa (fra cui il Mahābhārata), Purāṇa, ecc. L’elenco delle smr̥ti varia a seconda delle scuole e alcune scuole teiste aggiungono anche i propri testi sacri alla śruti.