vecchiezza (vegliezza)
1. ‛ Vecchiezza ', già attestato nel Duecento (Albertano volgare), non soffre in antico (e in D. stesso) la concorrenza di ‛ vecchiaia ', che l'ha poi soppiantato a dispetto di chi (come il Tommaseo) riluttava a considerarli perfetti sinonimi. Per tal motivo sarebbe illegittimo dedurre dal circoscritto impiego di questo astratto (appena due volte nel Convivio e altrettante nel Fiore) che lo scrittore vi avvertisse un limite prosastico: si pensi del resto alla larga assunzione che si verifica nei Rerum vulgarium fragmenta.
Allude a una precisa fonte filosofica - in ordine all'affermazione che giovinezza non è altro se non accrescimento della nostra vita - Cv IV XXIII 8, come a quello [libro] dove [Aristotele] tratta di Giovinezza e di Vecchiezza; altro puntuale riferimento alla stessa opera, in XXVIII 4 Aristotile in quello De Iuventute et Senectute dice che " sanza tristizia è la morte ch'è ne la vecchiezza ", ove rende fedelmente " sine dolore est quae in senectute mors ".
Contrapposto alla giovanezza nei rimpianti della Vecchia, in Fiore CXLIX 12 eranmi falliti i dolzi isguardi, / ché 'n sua balia mi tenea vecchiezza; o ancora in CLIV 14 ella non si truovi soffrattosa, / quando vecchiezza vien poi che l'adesa: stando al Parodi, " quando avvien poi che vecchiaia le si avvicina " (sul modulo ‛ vecchiezza viene... ' s'intonerà un fortunato serventese di Antonio Pucci).
2. ‛ Vegliezza ', hapax dantesco di matrice transalpina per il tema se non per il suffisso (con sviluppo popolare italiano di -itia), risulta assente perfino in Fiore e Detto e circoscritto al Convivio, non nuovo a simili francesismi. Per giunta, con supplemento di rarità, vi serve a tradurre - come ‛ vecchiezza ', ma in rapporto a opera di Aristotele - il titolo del De Senectute ciceroniano: così in II VIII 9 questo par volere Tullio, spezialmente in quello libello de la Vegliea.