L'America Latina vive un periodo di forte slancio riformista. La retorica politica in tutti i paesi dell’area riempie la comunicazione con annunci di riforme ‘storiche’ e ‘strutturali’ sui più svariati argomenti. Sembra definitivamente superato il lungo periodo in cui il binomio conservazione/rivoluzione definiva i termini del discorso politico latinoamericano.
Le spinte riformiste dei governi e parlamenti latino-americani trovano la loro principale giustificazione nella necessità di rispondere a due processi piuttosto evidenti. Da un lato, la perdita di consenso dell’intera classe politica che colpisce praticamente chiunque governi e qualsiasi sia il suo segno ideologico e, dall’altro lato, il rallentamento della crescita economica che minaccia di chiudere uno dei cicli economici più positivi dell’America Latina, quello avviato con l’inizio del nuovo millennio.
Questi fattori, però, sono a loro volta indicatori di ragioni più strutturali che spiegano e motivano tale slancio riformista e mostrano le sfide che queste riforme intendono affrontare.
L’ipotesi di questo breve testo è che la nuova fase riformista dell’America Latina poggi le sue basi su due nodi politici che i paesi dell’America Latina non sono riusciti finora a sciogliere. Il primo, di carattere economico, fa riferimento alle difficoltà dei paesi dell’area per inserirsi e trovare un posizionamento più definito e stabile nel processo di globalizzazione. Il secondo nodo, più specificamente politico, riguarda la complessità del ricostruire nuovi patti nazionali fra le forze politiche e le parti sociali, fondati sulla convivenza democratica. I vecchi patti di tipo oligarchico, resi anacronistici dalla fine dei regimi autoritari, militari e non, tardano a essere sostituiti da una nuova istituzionalità democratica inclusiva e partecipativa.
Il processo di globalizzazione ha investito in modo travolgente la maggior parte dei paesi dell’America Latina. Per quasi tutto il secolo scorso, le economie latino-americane erano state caratterizzate sostanzialmente dalle dinamiche dei mercati nazionali, in un quadro di economie tendenzialmente chiuse. Anche nelle fasi di crescita verso l’esterno, l’impronta dei rapporti economici internazionali era stata data dalla capacità delle economie nazionali di beneficiare degli scambi commerciali, mentre nelle fasi di crescita verso l’interno, viceversa, la caratterizzazione di tali rapporti era stata definita dalla capacità delle economie nazionali nell’attrarre investimenti stranieri interessati in occupare spazi in mercati protetti. Queste due modalità d’internazionalizzazione delle economie latino-americane riflettevano le diverse posizioni dei paesi nella divisione internazionale di lavoro, così come la loro diversità di visioni sullo sviluppo che in forma alterna egemonizzavano le varie fasi e i differenti modelli nazionali.
La globalizzazione dei mercati e dei processi produttivi, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ha trovato una America Latina con queste eredità di articolazione internazionale. Il contesto della nuova globalizzazione, però, si presentava molto diverso da quello del passato. La mobilità di merci e capitali si era notevolmente accelerata, e le direzioni di questi flussi, da un lato, venivano decise dai soggetti forti della nuova fase del mercato mondiale (gli Stati Uniti, l’Unione Europea e le allora emergenti potenze asiatiche, con la Cina in testa), dall’altro, tali flussi decretavano la sorte delle diverse economie nazionali periferiche.
La vecchia separazione fra internazionalizzazione commerciale e produttiva, nel perimetro delle economie nazionali, era saltata ma senza tradursi in un superamento delle diverse visioni nazionali sulla crescita e sullo sviluppo.
Una prima sfida per i paesi latino-americani è stata quella di definire se la globalizzazione doveva essere affrontata in alleanza con altri paesi, mediante meccanismi di concertazione regionale, oppure mediante vie nazionali attraverso accordi commerciali con i paesi e i poli trainanti della globalizzazione.
Il nuovo millennio ha trovato così i paesi latino-americani alle prese con due modelli di articolazione con l’economia internazionale. Per un verso, i paesi che hanno scommesso sull’apertura dei mercati nazionali, attraverso gli accordi di libero scambio come meccanismo privilegiato per il loro inserimento nella globalizzazione, ma anche come strumento efficace per garantire la crescita delle loro economie e il benessere della popolazione. La loro scommessa faceva affidamento sull’ipotesi che dal libero commercio sarebbero arrivate sia le risorse finanziarie, grazie alle esportazioni, sia le tecnologie necessarie a rendere competitivo il sistema produttivo, tramite gli investimenti esteri e le importazioni di beni capitali. In questo modo, ‘a cascata’, il benessere si sarebbe diretto verso tutti i settori e tutta la popolazione.
L’altro modello di articolazione con il mercato internazionale, promosso in modo preponderante dal Brasile, concepiva la necessità di creare delle alleanze fra i paesi latino-americani, attraverso processi di concertazione regionale, in modo da inserirsi nella globalizzazione con maggiore capacità negoziale e un più vasto mercato interno. Con lo slogan ‘soli contiamo poco, uniti contiamo molto’ il Mercosur si proponeva come paradigma di questa impostazione. Il commercio internazionale fungeva da meccanismo per accedere al mercato internazionale, mediante accordi fra blocchi regionali, e per rafforzare il mercato interno allargato, anche attraverso gli investimenti esteri. Inoltre, l’inclusione sociale e produttiva doveva avvenire, non tanto e non solo, con il commercio internazionale, ma con politiche industriali che potenziassero il mercato interno.
I paesi aderenti alle due impostazioni descritte mantenevano, però, una grande fluidità su molti altri punti delle loro agende interne e internazionali. Il caso più esemplificativo al riguardo, è forse quello del Cile, il quale ha mantenuto rapporti di tutti i tipi con il Brasile e con gli altri paesi membri del Mercosur. Basti pensare che, nel campo della cooperazione transfrontaliera, il caso Argentina–Cile è stato una delle migliori esperienze nell’ultimo ventennio.
Queste visioni differenti, inoltre, hanno dovuto scontrarsi con le nuove dinamiche delle relazioni internazionali. L’attacco terroristico dell’11 settembre agli Stati Uniti, ha modificato radicalmente le priorità della politica americana. Il ‘ritorno alle Americhe’ preconizzato dall’amministrazione repubblicana, è stato praticamente abbandonato e la stessa agenda con il partner latino-americano privilegiato, cioè il Messico, è stata fortemente ridimensionata.
Anche per il Mercosur, pur in un contesto molto differente, la sponda internazionale è evaporata. Le aspettative che l’Unione Europea diventasse il partner prioritario di questo meccanismo di concertazione regionale si sono dimostrate illusorie. Le nuove priorità dell’Eu, con il processo di allargamento verso i paesi dell’Europa dell’Est e le rigidità per aprire il mercato europeo ai prodotti agricoli, sono stati i principali ostacoli sul percorso della costruzione di patti fra soggetti regionali, come articolazione del mercato mondiale e, più in generale, come meccanismo di governance delle relazioni internazionali.
L’America Latina, nella eterogeneità delle sue voci, si è trovata senza sponde internazionali: la solitudine nel proprio labirinto è diventata una realtà. L’America Latina doveva ‘sotterrare il suo specchio’, cercare le soluzioni al suo interno.
Il nuovo millennio ha sancito questo spartiacque. Una prima risposta è venuta dal Brasile, con la promozione di un’iniziativa per l’America del Sud. Il presupposto era che, in realtà, ci fossero due Americhe Latine: una al sud e una al nord, con due paesi cerniera, la Colombia e il Venezuela. L’iniziativa sudamericana del Brasile partiva da un grande disegno di connettività fisica. La parte nord dell’America Latina, in verità non esisteva come entità autonoma, ma solo come area prioritaria degli Stati Uniti, sia nella lotta al ‘terrorismo’ e al , sia nel processo di delocalizzazione della sua industria. Il Messico, quindi, ha accentuato la propria lontananza dall’America Latina, sganciandosi anche dai suoi partner tradizionali in centroamerica e nei Caraibi (in primis da Cuba), concentrandosi a giocare le carte economiche offerte dal Nafta. Il commercio con l’estero, cioè con gli Stati Uniti, è cresciuto in forma sostenuta ed il Messico è diventato luogo privilegiato per le multinazionali americane, giapponesi ed europee.
Per tutti questi fattori, il primo decennio di questo millennio si è tradotto, per l’insieme dell’America Latina, in uno dei cicli economici più positivi della propria storia. Per la prima volta è diminuita la popolazione in stato di povertà, si sono incrementati i ceti medi e si sono persino ridotte leggermente le diseguaglianze sociali.
La lettura dell’attuale rallentamento della crescita dell’America Latina, quindi, deve essere rapportata, sia a questa nuova base economica prodotta dal ciclo positivo dell’ultimo decennio, sia ai ritardi e contraddizioni nella propria articolazione con l’economia internazionale, la quale continua ad essere incerta e instabile. Il nuovo partner cinese accresce certamente le opportunità, ma mette anche in evidenza le vulnerabilità dei paesi latino-americani.
In questa ottica, il processo di riforme in corso nei paesi latino-americani può essere inteso come un ulteriore tentativo per superare i limiti dei due modelli latino-americani di articolazione con il mercato internazionale (e con il mercato interno). In questo dibattito non è prevalso nessuno. L’abolizione delle barriere doganali, mediante gli accordi di libero scambio, come spinta per aumentare la competitività dei sistemi economici nazionali si è dimostrata chiaramente insufficiente. E anche l’idea di proteggere i settori economici sensibili dalla concorrenza internazionale, in particolare quelli industriali, non si è tradotta in maggiore produttività e in un sensibile aumento delle esportazioni di queste produzioni. Certamente esistono forti differenziazioni fra i paesi, ma questo quadro non si modifica.
I paesi produttori di materie prime, al di là del modello di articolazione adottato, hanno continuato ad avere questi beni come principali voci nella struttura merceologica delle loro esportazioni. Anche nei paesi con maggiore esportazione di beni industriali non si è registrato un aumento complessivo della competitività della loro struttura economica. Le economie latino-americane, in maggiore o minore grado, rimangono caratterizzate dal vecchio ‘dualismo strutturale’. Un piccolo segmento di imprese e territori competitivi è ben inserito nelle dinamiche dell’economia internazionale, mentre il rimanente – e molto più grande – segmento di imprese e territori rimane imprigionato nella scarsa competitività, nell’economia sommersa e nell’informalità.
Su questa ambivalenza il dibattito latino-americano è diventato molto meno ideologico e più pragmatico. Infatti se si vuole trovare un’agenda davvero condivisa da tutti paesi latino-americani, essa è quella delle tematiche delle piccole e medie imprese (Pmi), con un approccio fondato sulle filiere del valore.
È interessante osservare come nei meccanismi più recenti di concertazione regionale fondata sulla liberalizzazione commerciale (è il caso dell’Alleanza del Pacifico), il cuore dell’agenda economica sia incentrato sullo sviluppo delle Pmi e sulla loro incorporazione nelle filiere globali del valore. Il ministro degli esteri del Perù, Ana María Sánchez Vargas, nel vertice della Alianza tenutosi a Lima ha addirittura dichiarato che «le Pmi sono il futuro dell’Alleanza del Pacifico». Una dichiarazione che qualsiasi membro del mercosur farebbe propria.
Tutto ciò chiama in causa, come non si stanca di sottolineare la United Nations Economic Commission For Latin America and the Caribbean (Cepal), una delle principali riforme di cui hanno bisogno i paesi dell’America Latina: quella delle politiche industriali. Questa tematica costituisce una delle fondamentali sfide dell’attuale riformismo latino-americano. Sulle politiche industriali necessarie, gli schieramenti dei paesi si scompongono e nessuno è in grado di proporsi come leader credibile. Aprire un dialogo e uno scambio di esperienze fra tutti i paesi latinoamericani costituisce una strada proficua e necessaria. In questa ricerca, dove l’Eu e l’Italia in particolare possono giocare un loro ruolo, le alleanze internazionali dei paesi latino-americani richiedono una profonda revisione.
Ad uno stadio più avanzato, ma non meno bisognoso di riforme, si rilevano altre due agende fondamentali per la competitività delle economie dei paesi latino-americani: l’agenda energetica e l’agenda infrastrutturale. Si tratta di processi particolarmente onerosi che richiedono il concorso attivo degli investitori stranieri. Inoltre, queste agende sono fondamentali per assumere gli impegni sul cambiamento climatico e la riconversione verso la Green Growth. Riformare le legislazioni e i quadri regolatori nazionali, e armonizzarli a livello regionale, costituisce un primo e fondamentale passo per rilanciare queste agende.
La fase riformista dell’America Latina si manifesta anche nella dimensione politica e istituzionale. In termini molto sintetici, si potrebbe dire che l’attuale riformismo politico latino-americano cerca di offrire delle risposte a due tematiche fondamentali, saldamente ancorate ai sistemi democratici. Da un lato, i problemi legati alla governabilità di un processo di trasformazione economica e sociale senza paragoni negli ultimi cinquant’anni della storia latino-americana, sia in termini di portata che di tempi di attuazione. Dall’altro, l’urgenza dei vari sistemi politici di rappresentare i nuovi attori, emersi soprattutto come conseguenza di queste stesse trasformazioni socio-economiche. La tensione fra governabilità e rappresentanza costituisce il nocciolo delle problematiche nella dialettica democratica latino-americana.
I vari tentativi di riforme istituzionali per prolungare la durata in carica dei capi di stato e di governo, soprattutto modificando i meccanismi di eleggibilità, hanno concentrato l’attenzione del dibattito politico latino-americano sulla governabilità, nonostante sia un punto riguardante un limitato numero di paesi. In realtà, si tratta di un dibattito molto più ampio con implicazioni per la tenuta dei sistemi politici e per la costruzione e consolidamento delle istituzioni democratiche. Certamente una tematica chiave è costituita dalle garanzie per l’alternanza fra le forze politiche. I livelli di stabilità istituzionale dei paesi latino-americani possono essere rapportati al livello di accordo raggiunto fra le forze politiche, in modo implicito o esplicito, sulle regole del gioco e sul grado di condivisione sui punti prioritari dell’agenda economica e politica.
La generale perdita di consenso e di credibilità della classe politica, che coinvolge ormai il mondo intero, si manifesta con particolare vigore in America Latina. Ciò è forse dovuto al fatto che il clima di ‘antipolitica’ si somma alla crisi dei sistemi partitici tradizionali, con l’imperativo di accogliere all’interno degli stessi sistemi politici, gli attori emergenti: i nuovi poveri, i popoli originari, le donne e i giovani dei nuovi ceti medi urbani. Perciò, il quadro politico latino-americano appare confuso e contraddittorio. In effetti, questo processo combina elementi ben radicati nella ‘vecchia politica’ con elementi innovativi al passo con il ‘tempo democratico’ cui si aspira. Ragionando in termini di processo politico, ciò significa che la ricostruzione dei sistemi politici implica anche un importante lavoro di costruzione di cittadinanza. In America Latina non solo è in crisi la politica, ma anche la narrazione di una società civile senza cittadini.
Il dato più significativo del ‘super-ciclo’ latino-americano del decennio scorso è indubbiamente il miglioramento dello sviluppo sociale, in particolare la sensibile riduzione della popolazione povera e l’aumento dei ceti medi, sia in termini reali che in termini percepiti.
La stretta correlazione che si registra tra progresso sociale e ciclo economico ci indica come una parte dell’eccedente ottenuto con gli scambi commerciali, al di là del modello economico adottato, sia stato utilizzato per le politiche sociali. In effetti, il bilancio pubblico mostra un sostanziale incremento, in quasi tutti i paesi latino-americani, della spesa sociale nell’ultimo ventennio. Il rallentamento della crescita, perciò, pone una nuova sfida alle politiche sociali. La loro qualità sarà determinante per limitare gli effetti negativi della riduzione della spesa pubblica.
Il dato di partenza della povertà e i livelli della disuguaglianza in America Latina hanno portato alla prevalenza delle politiche sociali focalizzate, come i trasferimenti monetari condizionati, destinati alle famiglie povere. Nella riflessione che si è aperta sulle riforme del nuovo ciclo latino-americano, le politiche sociali richiedono un’approfondita riflessione. Da un lato, il dibattito riguarda l’importanza che sarà data alle politiche sociali di impronta universalistica per la costruzione di uno stato sociale moderno. In questa direzione, il tema centrale è la discussione sulla fiscalità, cioè se i paesi latino-americani si doteranno o meno di politiche fiscali in grado di supportare uno stato sociale. Dall’altro lato, in relazione alla politica dei trasferimenti monetari condizionati, il dibattito si concentra sulla necessità che queste iniziative riescano a creare sinergie e articolazioni con i processi reali di sviluppo e con quelle politiche pubbliche che permettano la loro sostenibilità, come quelle sul lavoro e quelle sullo sviluppo locale.
Inoltre, il ciclo economico e le trasformazioni sociali dell’ultimo ventennio hanno modificato profondamente l’articolazione territoriale.
Il super ciclo economico latino-americano è dunque riuscito a far avanzare l’agenda sociale e ad incorporare milioni di persone nei circuiti dell’economia, della società e della politica. Ma per l’America Latina il consolidamento democratico e lo sviluppo sono ancora lontani. Le correzioni di percorso sono cruciali e l’attuale fase riformista sarà perciò decisiva.
Una straordinaria condizione favorevole è certamente data dall’assenza di conflitti internazionali e da una sostanziale stabilità interna: il terrorismo non è presente in America Latina. Rimane sfavorevole invece il contesto economico internazionale, soprattutto per il trend della crescita asiatica rallentata.
I paesi latino-americani, in ogni caso, possono concentrare tutti i loro sforzi sull’agenda dello sviluppo e sul consolidamento della democrazia. Come nel processo economico, la fase riformista della politica dovrà affrontare la richiesta di partecipazione di milioni di nuovi attori sociali. L’inclusione politica in America Latina richiede anche la creazione di nuove istituzioni democratiche e l’apertura di canali riconosciuti di dialogo. Tre grandi tematiche possono sintetizzare il dibattito politico attuale.
• La necessità di creare istituzioni terze, legittimate.
L’istituzione delle authority come organismi di arbitrato e di garanzia. Tra le indicazioni positive che Latinobarómetro segnala circa il funzionamento della democrazia in America Latina, si riscontra la percezione pubblica che negli ultimi vent’anni si sia verificata una maggiore trasparenza e pulizia nell’esercizio elettorale. Gli organismi elettorali indipendenti, ma ufficialmente riconosciuti, costituiscono un buon esempio per far progredire la democrazia e lo stato di diritto. L’istituzione di authority potrebbe essere estesa ad altri punti particolarmente sensibili dell’agenda politica che richiedono il ruolo di organismi terzi. Il meccanismo potrebbe essere particolarmente adatto nella lotta alla , come si sta sperimentando in Italia e come si è visto con la Cicig in Guatemala. Ma l’authority potrebbe essere anche importante per sbloccare sistemi economici oligopolistici e carenti di concorrenzialità.
• La costruzione di spazi pubblici, non statali, quali meccanismi di dialogo, consultazione e concertazione, con la società civile.
Nelle democrazie, l’attività parlamentare richiede anche altri fora per svolgere con maggiore efficacia la sua funzione legislativa. A sostegno delle politiche per l’occupazione o delle politiche industriali, in America Latina mancano dei meccanismi rappresentativi di consultazione con le parti sociali, tranne alcune esperienze interessanti come il Consiglio di sviluppo economico e sociale in Brasile. Persino gli organismi corporativi, nati nel secolo scorso, sono scomparsi o non hanno alcuna funzione reale. Tutto ciò offre un ampio spazio al ruolo informale dei gruppi di pressione costituiti dai ‘soliti noti’.
• La costruzione di cittadinanza.
La tradizione oligarchica e la massiccia, rapida irruzione dei nuovi attori sociali nello scenario politico non favoriscono la formazione di cittadini con accesso ai diritti ma con forte assunzione di responsabilità. La costruzione di una istituzionalità democratica top-down non può prescindere da un esercizio democratico permanente, proveniente dal basso e con il concorso attivo delle forze politiche e delle organizzazioni sociali.
di Gianandrea Rossi
Nonostante le molte difficoltà ed incertezze che caratterizzano i percorsi dell’integrazione latino-americana e della normalizzazione dei rapporti del subcontinente con l’emisfero settentrionale, il 2015 sarà ricordato come un anno cruciale per l’integrazione ed il ‘ricongiungimento’ emisferico, e per un nuovo multilateralismo.
La VII Cumbre de Las Americas, svoltasi nell’aprile 2015 a Panamà ha messo in scena il simbolico riavvicinamento dei poli opposti della regione, dopo il simultaneo, storico, annuncio dato a Washington e a L’Avana il 17 dicembre 2014. Il summit, che ha riunito per la prima volta i 35 presidenti dell’area, è stato cornice di importanti incontri tra il presidente Obama e quelli dell’area latino-americana: oltre allo storico faccia a faccia con Raùl Castro, vi è stato quello con Maduro, presidente di un paese che rimane uno dei problemi complicati per Washington, che non a caso ha affidato l’incontro alla sperimentata esperienza del diplomatico statunitense che più conosce l’America Latina: Thomas Shannon.
Il vertice di Panamà è servito ad Obama anche per riannodare i fili con la presidente brasiliana Rousseff, dopo il gelo e le tensioni generatesi con le rivelazioni dello spionaggio della Nsa. In effetti, seppur in un contesto di contrapposizione ‘ideologica’, e non trovando consenso su vari dossier (non è stato possibile concordare neppure la dichiarazione finale), la Cumbre de Panamá, ha rappresentato comunque il momento più alto nelle relazioni emisferiche degli ultimi anni, fortemente legato al progressivo (e tardivo) mutamento di orientamento di Washington.
Nuove prospettive nella ripresa dei rapporti emisferici si sono aperte con l’insediamento del nuovo segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani (Oas) Luis Almagro, forte di un mandato improntato a trasformare l’Oas in uno spazio di dialogo emisferico (coerentemente con le nuove posizioni di molti paesi membri), deciso a giocare un ruolo politico più incisivo (con l’impegno per il reintegro di Cuba o quelle per una soluzione politica nella crisi venezuelana).
Pur tra luci ed ombre, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y del Caribe (Celac), ha tenuto il suo terzo incontro in Costa Rica, confermando l’impegno di tutte le capitali verso un percorso di integrazione e collaborazione politica tra i vari paesi dell’area. All’incontro ha assistito per la prima volta anche l’Alto rappresentante Eu per la politica estera e la sicurezza, Federica Mogherini, ed è stato approvata una dichiarazione articolata in 96 punti, densa di richiami all’agenda di sviluppo regionale e globale: riduzione della povertà, inclusione sociale, e rafforzamento dell’educazione come fattore di sviluppo. La Celac è, comunque, ancora molto debole (per altro soffre la mancanza di un protocollo commerciale condiviso, e il sovrapporsi di diversi percorsi: Mercosur, Alleanza del Pacifico, ecc), senza avere una organizzazione istituzionale. Ciò nonostante si candida a divenire il più importante e rappresentativo foro politico della regione.
Nuovo impulso anche nei rapporti con l’Eu. Lo scorso giugno si è tenuta a Bruxelles la II Cumbre Eu-Celac con un inedito protagonismo personale della nuova Alto rappresentante Eu: Mogherini, oltre a partecipare personalmente alla riunione in Costa Rica, ha impresso una svolta nel dialogo Eu-Cuba, andando a L’Avana e sbloccando i negoziati per un nuovo accordo di associazione. Questo nuovo protagonismo europeo è stato ripagato da un certo rinnovato e reciproco interesse delle capitali di entrambe le sponde dell’Atlantico.
Altro partner con cui la regione ha deciso di avviare una interlocuzione in maniera unitaria è la . Dopo la prima riunione dei ministri degli esteri Celac-Cina, il presidente Xi Jinping ha annunciato 250 miliardi di dollari di investimenti nell’area. Nel 2015, il primo ministro Li Keqiang, si è recato a Brasilia, Bogotà, Lima e Santiago, accompagnato da duecento imprenditori con una agenda fittissima di appuntamenti e accordi, soprattutto nel settore infrastrutture ed energia.
Per quanto riguarda il subcontinente, dalla seconda metà del 2014 si registrano dinamiche contrastanti nelle relazioni regionali. L’Unasur nel 2015 a Quito, in occasione della sua X Cumbre de Presidentes, ha eletto il nuovo segretario generale, l’ex presidente colombiano Samper che, nonostante il proprio attivismo, trova seri ostacoli nella sua azione di mediatore, come nella crisi in Venezuela.
Passi in avanti per il Mercosur, il più antico meccanismo di integrazione nell’area sudamericana che ha sofferto per anni per le asimmetrie esistenti tra i paesi. Con l’ingresso di Venezuela e Bolivia, si rafforza oggi quale asse commerciale radicato nella sponda atlantica. È possibile che il cambio di governo in Argentina possa determinare un’accelerazione nei negoziati di associazione Eu-Mercosur, in stallo da circa un decennio.
Prosegue il percorso di integrazione dell’Alianza del Pacifico (Messico, Colombia, Perù e Cile) avviato tre anni fa: siglato l’accordo quadro che elimina le barriere tariffarie per il commercio tra i quattro paesi per circa il 92% di beni e servizi, agevolando l’integrazione economica e commerciale tra i 214 milioni di persone residenti, che rappresentano il 37% della regione ed attraggono il 45% degli investimenti stranieri; prevista inoltre un’intesa sulla libera circolazione delle persone.
di Marco Bellingeri
I dati disponibili sulla violenza criminale coincidono drammaticamente e possono essere facilmente riassunti, ma non è così per le loro cause. In America Latina e Caraibi, con circa l’8% della popolazione mondiale, avvengono annualmente il 33% degli . Se la media globale secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) è di poco più di 6 omicidi ogni 100.000 abitanti, tale cifra raggiunge nella regione il numero di 20. Nel 2012 il Brasile era primo in numeri assoluti per omicidi con 56.337 vittime, seguito dall’India che ha però una popolazione di almeno di sei volte maggiore. Come conseguenza, fra le 50 città più pericolose al mondo, 22 sono brasiliane ma è Caracas che detiene il primato mondiale fra le capitali, in un Venezuela che nel 2104 ha raggiunto 82 assassini per 100.000 abitanti, circa 25.000 su una popolazione di oltre 31 milioni. Esaminando la triste classifica dei paesi con il maggior numero di omicidi al mondo, Honduras, Venezuela, Belize, El Salvador e Giamaica detengono in ordine i primi posti, mentre, fra i primi 20, ben 15 appartengono alla regione latino-americana e caraibica. Con un maggior dettaglio, appare chiaro che nella vetta non invidiabile della violenza omicida coesistono paesi con un reddito medio assai variabile con alcuni, di notevolissime dimensioni, decisamente appartenenti alla fascia medio-alta, come Panamà, Messico, Venezuela e Brasile e Colombia.
Un aspetto inquietante è che durante lo scorso decennio, caratterizzato dalla crescita più o meno sostenuta dell’intera regione, la violenza criminale, stimata sommariamente in numero di omicidi e furti, è incrementata. Da alcuni decenni, l’irruzione del crimine organizzato, i famosi cartelli della droga, in società socialmente e territorialmente fortemente polarizzate, ha messo a disposizione risorse di dimensioni enormi, tali da poter essere investite nel controllo di intere aree e nella complicità di alcune istituzioni, prime fra tutte quelle municipali, l’anello più debole del pur già incompleto processo di costruzione dello stato una nella regione. Non tutte le modalità della violenza sembrano razionalmente decifrabili. Se quella esercitata in alcuni paesi contro la stampa appare come un’appendice delle attività del crimine organizzato, oltre che della repressione dell’opposizione – come nel caso del Messico – la violenza intra-familiare e di genere sembrano rimandarci alla persistenza di comportamenti tradizionali o a veri e propri atavismi, caratteristiche di società pre-moderne non estinte o almeno non ridimensionate dall’affermazione delle moderne società democratiche.
Un caso estremamente interessante è la persistenza della pratica del linciaggio, un fenomeno che, dalle campagne, dilaga anche nelle periferie urbane. È utile poi riflettere sulla tensione esistente fra le diverse culture della regione, urbane, rurali, etniche ecc. e soprattutto sulle loro infinite forme di meticciato contemporaneo. Il confine fra l’illegalità predominante e quotidiana e la violenza, scelta come risorsa dai criminali come una risposta considerata legittima dalle sue potenziali vittime o come una forma estrema di socializzazione da gruppi generazionali, le famose gang o maras, diviene labile, non protetto dalle pratiche che dovrebbero accompagnare l’imposizione formale e giuridica di un monopolio della forza da parte dello stato. Alcuni indicatori interessanti di questi complessi intrecci emergono dall’analisi delle particolari manifestazioni della violenza nella regione, innanzitutto dal carattere eccessivo dell’uso della brutalità rispetto allo scopo da raggiungere. In parte ciò può essere attribuito all’impunità garantita alla grande maggioranza di chi commette reati anche gravissimi, come l’omicidio. Rimane però oscura l’insufficienza di un freno morale in un ‘continente cattolico’. In mancanza poi di solidi legami di solidarietà fra cittadini, sono la famiglia, ma anche e soprattutto il barrio o il pueblo, termini non traducibili semplicemente in quartiere e villaggio, a delimitare lo spazio fisico e simbolico oltre il quale la violenza viene percepita dall’opinione pubblica latino-americana come il maggior problema quotidiano, oscurando verso l’esterno la violenza domestica e fra bande che spesso ne caratterizza la quotidianità. Nei casi più estremi, quella della guerra asimmetrica fra cartelli e bande, al nemico vengano riservati rituali macabri che ne trasformano i corpi profanati in messaggi, in una vera e propria pedagogia del’orrore, originale sintesi fra ripristino di forme ataviche e contenuti volti a una moderna comunicazione di massa.
Infine, le conseguenze economiche di una realtà così complessa e multiforme come quella della criminalità e della violenza in America Latina e Caraibi non possono che essere contraddittorie. In generale, ma partendo da alcuni di studi caso, è stato calcolato che il costo diretto potrebbe aggirarsi sul 3% del pil regionale. Ma i risultati di un’analisi che tenga conto dei costi impliciti totali potrebbero arrivare fino al 10% se si sommassero quelli degli apparati repressivi, della sicurezza privata e delle perdite totali o parziali di capitale umano. D’altra parte emerge un’alta redditività delle attività imprenditoriali della criminalità organizzata. I due fenomeni, nella loro dimensione contemporanea di distruzione e di costruzione di risorse, concorrono a rafforzare le forme dell’esclusione sociale tradizionalmente esistente, esacerbandone le manifestazioni di segregazione territoriale.
Le aspettative del Messico per il Nafta, in realtà, non erano solo di carattere commerciale, ma lo si vedeva come una grande occasione per negoziare il punto più importante dell’agenda bilaterale: la migrazione dei messicani verso gli Stati Uniti. Al contrario, la nuova dottrina della sicurezza nazionale degli Stati Uniti contro il terrorismo ha comportato sia il rafforzamento della frontiera, con molteplici implicazioni per il flusso di persone e di merci, sia un cambiamento delle priorità equiparando la lotta al narcotraffico alla lotta al terrorismo. Ciò ha significato un aggravamento di questo problema in Messico nella misura in cui l’azione di contrasto statunitense ha indotto al trasferimento dei centri di produzione e commercializzazione della droga e a radicali cambiamenti delle rotte dei traffici illeciti. Mai come in questo caso, il gravissimo problema dell’estensione della criminalità organizzata in Messico ha come origine una co-responsabilità delle politiche statunitensi. Una delle principali vittime dell’11 settembre, dunque, è risultato essere il Messico e buona parte del suo disegno politico legato all’ingresso nel Nafta si è volatilizzato.
Uno dei principali limiti dell’America del Sud era la permanenza dei formidabili ostacoli naturali che impedivano la comunicazione fra tutte le sue parti. Il Sud America era un arcipelago composto da isole continentali divise da foreste, montagne e deserti. Quindi un’azione primaria doveva essere quella di unire fisicamente l’America del Sud. E’ nato così l’Iirsa (Iniziativa per l’integrazione dell’infrastruttura regionale sudamericana), un ambizioso programma infrastrutturale, che ha nell’idea dei corridoi interoceanici, per unire l’Atlantico e il Pacifico, il suo perno principale.
La connettività fisica è un tassello fondamentale per arrivare a livelli di integrazione più complessi. Uno dei suoi principali risultati è stata la costituzione dell’Unasur (Unione delle nazioni sudamericane), un meccanismo di concertazione regionale imperniato fortemente su un’agenda di dialogo politico.
Dopo oltre un decennio di questo processo i risultati non sono ancora chiari. Si è fatto molto sul programma infrastrutturale, ma è ancora lontana una connettività fisica compiuta. L’Unasur, dopo un periodo di grande auge, mostra chiari segni di decadimento. In termini economici, tutto questo disegno ha significato la creazione di un forte polo di attrazione per la Cina e le nuove potenze asiatiche. Il relativo isolamento sudamericano ha permesso l’entrata massiccia dei nuovi attori asiatici, non solo come compratori di materie prime, ma anche come investitori diretti.
In America Latina, la vecchia dicotomia città-campagna, pur mantenendo una residua validità, è stata radicalmente destrutturata. Molti territori di campagna con agricoltura di sussistenza si sono svuotati a causa delle migrazioni interne e internazionali, provocate a loro volta dalla ristrutturazione settoriale del nuovo ciclo economico. Dall’atro canto, sono emersi, o si sono consolidati, nuovi territori produttivi, grazie alle opportunità generate dalle esportazioni dei prodotti agricoli commerciabili. Ma le trasformazioni più evidenti sono avvenute nelle città. Le città come principale spazio economico, sociale e politico dell’America Latina sono diventate anche terreno di significativi esperimenti politici. La riforma politica, che aprì la strada all’elezione diretta delle autorità locali, consolidatasi negli anni Novanta del secolo scorso, permise l’avvio di una straordinaria stagione politica. La década perdida, da questo punto di vista, è stato un periodo di incubazione di una nuova classe politica e di un ampio esercizio di partecipazione cittadina. Una parte delle città latinoamericane rappresentano ancora oggi questi ‘territori della cittadinanza’.
Il processo di decentramento ha rappresentato però anche l’altra faccia di una medesima medaglia. Un mondo di ‘cacicchi’ locali che, grazie alla maggiore autonomia ottenuta, hanno ripristinato i poteri più tradizionali. La più debole istituzionalità del contesto, la minore presenza dello stato e i bassi livelli di partecipazione politica della popolazione hanno reso più agevole l’occupazione di territori da parte dei poteri informali della criminalità. Questi territori dell’insicurezza convivono, a volte anche in contiguità geografica, con i territori della cittadinanza. Rimangono, infine, i territori dell’esclusione, della povertà e della miseria. A volte, per necessità congiunturali, si incrociano con gli altri territori, ma esclusi dai cicli economici e dalle dinamiche della politica nazionale, continuano a non importare a nessuno. Sono i territori degli indigeni e degli afroamericani.
I poveri in povertà sono passate dal 48% della popolazione nel 1990, al 28% nel 2012. Ciò ha significato che più di 40 milioni di persone sono uscite dalla povertà. Inoltre, in poco più di quindici anni (1990-2007), le persone appartenenti a famiglie di ceto medio sono aumentate di 56 milioni nei 10 paesi in cui si concentra l’80% della popolazione regionale. Ciò ha elevato il numero di persone appartenenti a famiglie di classe media a 128 milioni. Tra i principali fattori che spiegano questa tendenza e l’elevata convergenza dei paesi latino-americani su quest’agenda vi è stata la ripresa delle politiche sociali di tipo universalistico, dopo il loro abbandono durante il ‘decennio perso’. In particolare, l’espansione dell’istruzione, verificatasi nell’ultimo ventennio, ha fatto sentire i suoi effetti. Altrettanto importanti sono state le politiche del lavoro (aumento del salario minimo, ripristino dei contratti collettivi, ruolo del sindacato), che hanno permesso di ridurre il gap salariale fra manodopera qualificata e non qualificata. Infine, un ruolo fondamentale l’hanno avuto le politiche sociali dirette agli strati più poveri della popolazione, mediante i trasferimenti monetari condizionati. Queste politiche sono state determinanti ai fini non solo della diminuzione della povertà, ma anche della riduzione delle disuguaglianze. Come ha osservato Nora Lustig, «forse il fattore più rilevante per spiegare [questa] generalizzazione […] è la scoperta della ‘tecnologia’ che li ha resi possibili’: cioè l’individuazione della metodologia e degli strumenti che hanno consentito una loro diffusione su grande scala». Oggi, quasi 133 milioni di persone partecipano a questi programmi. Quindici anni fa, nel 2000, raggiungevano appena 30 milioni di persone. Un dato importante di questo processo di crescita sociale è che tuttavia non si sono registrati miglioramenti significativi nella situazione dei popoli originari e delle popolazioni afroamericane. Il debito storico verso queste popolazioni, la nuova America Latina, salvo limitati casi, non lo ha ancora saldato.
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