Vasubandhu
Filosofo buddista indiano (4°-5° sec.). A V. la tradizione attribuisce tre classi di testi: l’Abhidharmakośa («Tesoro dell’Abhidarma», d’ora in poi AK) e il suo commento (testi filosofici del buddismo Abhidharma), la Triṃśikā, «Trentina», e la Viṃśatikā, «Ventina» (testi filosofici Yogācāra), e alcuni testi religiosi Yogācāra. Lo storico della filosofia indiana Erich Frauwallner ha proposto che si tratti di due personaggi diversi, ipotizzando la datazione 320-380 per il fratello di Asaṅga (➔ Yogācāra) e autore di testi religiosi dello Yogācāra, e quella 400-480 per l’autore dell’AK e delle opere filosofiche Yogācāra. Non esistono elementi definitivi in merito, ma lo studio delle influenze della Triṃśikā su un testo del «primo» V. inducono a pensare che si tratti di un’unica persona, convertitasi dal buddismo Abhidharma a quello Yogācāra. V. fu così probabilmente il filosofo buddista più influente della prima metà del primo millennio. L’AK riorganizzò dogmatica e scolastica e divenne un testo di riferimento fondamentale per ontologia e soteriologia anche nel buddismo Mahāyāna, in India e in Tibet. Esso è la fonte principale per ricostruire la posizione delle varie scuole dell’Abhidharma. Vi si descrive, per es., l’atomismo della scuola Sautrāntika, secondo cui i singoli atomi sono inconoscibili, ma le aggregazioni di atomi possono essere colte dagli organi di senso. Il paradosso è risolto da V. sostenendo che un singolo atomo non è in grado di essere causa di una conoscenza, ma non è contraddittorio sostenere che un gruppo di atomi possa esserlo, così come un uomo da solo non è in grado di trasportare un carro, ma un gruppo di uomini sì. È descritto poi quello che fu probabilmente il maggior contributo dei Sautrāntika, ossia l’opposizione fra prajñāpti-satya (realtà empirica, che ha solo esistenza convenzionale) e paramārtha-satya (realtà assolutamente esistente). Tale opposizione sorge dalla necessità di distinguere il tipo di esistenza di oggetti convenzionali (per es., «vaso») e oggetti assolutamente esistenti (i singoli atomi che compongono il «vaso») e sarà decisiva nel pensiero di Nāgārjuna (➔) e, attraverso lui, di Śaṅkara. Nell’AK si citano anche degli asceti meditanti, detti yogācāra («praticanti di yoga»). Tali asceti sono distinti dai filosofi speculativi, ma le loro idee vengono prese in considerazione nella sistematizzazione filosofica, per es., nell’ordine delle quattro nobili verità (seguendo la pura logica, la causa della sofferenza dovrebbe precedere nell’elenco la sofferenza, ma, risponde V., l’ordine con la sofferenza come primo anello è confermato dalla meditazione degli yogācāra, i quali si concentrano dapprima sulla sofferenza e soltanto successivamente sulla sua causa). Fra le opere che seguono la conversione allo Yogācāra, due operette si concentrano sulle regole del dibattito e, secondo la testimonianza di un commentatore cinese, due opere perdute si occupano di logica. Anche in questi campi, V. fu un innovativo sistematizzatore. Secondo le ricostruzioni di Frauwallner, infatti, V. organizzò la trattazione intorno alla prova e alla sua refutazione – al contrario di quanto accade, per es., nel testo fondamentale del Nyāya, il Nyāyasūtra, e nelle opere buddiste precedenti, (➔ Pramāṇavāda), in cui gran parte dello spazio è lasciato a categorie dialettiche quali l’elencazione dei punti deboli dell’argomentazione. Infine, Viṃśatikā e Triṃśikā sono dedicate alla negazione dell’esistenza di un mondo esterno (➔ Yogācāra). Celeberrimo è l’esordio della prima: «Tutto non è che rappresentazione (vijñāpti)». L’opera procede con la dimostrazione di come l’idea dell’esistenza di un oggetto esterno sia insostenibile. Esso potrebbe infatti essere o un tutto unitario distinto dalle sue parti (come per il Vaiśeṣika), o un aggregato di atomi con spazi vuoti intermedi (come per la scuola Sarvāstivāda del buddismo Abhidharma), o infine un aggregato di atomi senza spazi intermedi (come per il Sautrāntika). La prima ipotesi è scartata perché non ha senso postulare un tutto diverso dalle parti (➔ Abhidharma). Contro la seconda, V. obietta che atomi separati da spazi intermedi dovrebbero sparpagliarsi non appena l’aggregato di cui sono parti venga, per es., scosso al vento. La terza è scartata perché gli atomi sono per definizione senza estensione e la somma di entità senza estensione è necessariamente ancora senza estensione (come nel caso del paradosso di Zenone, anche i Sautrāntika non hanno la risorsa della teoria newtoniana degli infinitesimi).