PORTLAND, Vaso (v. vol. VI, p. 386)
Il Vaso P. è formato da due oggetti distinti: il vaso stesso, che è stato rotto e manca della parte più bassa del corpo e della base originale, e la base a disco, con la quale è stato restaurato. È un'anfora alta attualmente cm 24,8, in vetro trasparente di color blu molto scuro con un rivestimento bianco opaco; ha un orlo rovesciato con bordo arrotondato, a doppia scanalatura intagliata a ruota al di sotto del bordo interno. Il collo cilindrico si allarga alla base; la spalla è arrotondata, e al di sotto il corpo del vaso si restringe fino alla base. Le anse si estendono dalla metà del collo alla spalla. Il vaso in origine aveva due zone decorate: un ampio fregio figurato dalla spalla fino alla parte più bassa del corpo e, al di sotto di questo, un secondo fregio più stretto, di cui non rimane quasi nulla. Il fregio superiore è diviso in due parti uguali (lati I e II) da maschere di Pan immediatamente al di sotto delle anse. Il lato I è decorato con quattro figure: un giovane uomo nudo (A), che tiene un drappo nella mano destra, incede verso destra davanti a due pilastri quadrati che sostengono un architrave, dietro al quale è un arbusto; il suo braccio sinistro è intrecciato con il braccio destro di una donna (C). Eros (D), che afferra un arco e una torcia, vola verso destra e volge lo sguardo indietro verso il giovane. La donna (C) siede su una bassa roccia con la testa volta indietro per guardare l'uomo; con la mano sinistra tiene un essere serpentiforme che si allunga verso il suo volto. Alla sua destra si trova un albero al di là del quale è un uomo barbato (D) visto di tre quarti con il volto di profilo verso sinistra, il mento poggiato sulla mano, con il piede destro posto su una pila di pietre situata alla base dell'albero. Tra questi e una delle maschere si trova un altro albero.
Il lato II è decorato con tre figure. Un giovane (E), nudo a eccezione di un drappo tra le cosce, siede su un rialzo roccioso guardando verso destra. Un pilastro con un capitello quadrato è posto dietro di lui a sinistra. Al centro, una donna semidrappeggiata (F), distesa sullo stesso piano roccioso al quale si appoggia un blocco di pietra lavorata, tiene con la mano sinistra una torcia con la punta rivolta verso il basso, mentre la mano destra è portata sul capo. Segue verso destra un'altra figura femminile semidrappeggiata (G) che, seduta su un rialzo di pietre distinto dal precedente, tiene uno scettro con la mano sinistra.
Il fregio inferiore è quasi completamente perso. La disposizione dei frammenti conservati suggerisce, tuttavia, che la decorazione era disposta asimmetricamente, probabilmente con alberi o fogliame che si estendevano fino al margine superiore.
Forse già nell'antichità il vaso fu restaurato e la parete fu tagliata al livello della linea di base del fregio superiore. Questa linea di taglio divenne così la base del manufatto, che fu integrato con un disco di vetro-cammeo come fondo.
Che il disco di fondo non appartenesse al vaso originale è testimoniato dalla diversa colorazione (un blu più chiaro rispetto a quello del vaso) e dal differente stile dell'insieme. Il fondo attuale, che può essere stato ritagliato da un pannello vitreo più grande, è decorato con la parte superiore della figura di un giovane, volto verso destra. La testa è di profilo e la mano destra è alzata con l'indice nell'atto di toccare le labbra, in atteggiamento di dubbio o apprensione. Egli indossa un cappello frigio, una tunica a maniche corte sopra una veste a maniche lunghe e un mantello. Sopra e dietro la figura si trova del fogliame.
Storia. - La prima testimonianza nota del Vaso P. è quella fornita dal provenzale Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637), che lo vide nella collezione del cardinale Del Monte a Roma nell'inverno del 1600-1601. Il luogo di rinvenimento è incerto, sebbene Pietro Santi Bartoli (Gli antichi Sepolcri, Roma 1697) sostenesse che era stato trovato nel mausoleo conosciuto come il Monte del Grano, 4 km fuori delle Mura Aureliane, vicino alla Via Tuscolana.
Nel 1622, de Peiresc e P. P. Rubens idearono un progetto di pubblicazione di tutti i più bei cammei antichi: il de Peiresc doveva sfruttare la sua rete di amici antiquari per raccogliere materiale per la pubblicazione. Quando, nel 1624, egli scrisse ad Alessandro Del Monte (uno degli eredi del Cardinale), chiedendo il permesso di pubblicare il vaso, Alessandro lo informò che Cassiano Dal Pozzo (1588-1675) intendeva includerlo nella sua collezione di disegni di antichità. La notizia del progetto fece sfumare i piani del Rubens e del de Peiresc ma non scoraggiò il loro interesse per il vaso e de Peiresc chiese ripetutamente opinioni ai suoi corrispondenti sull'identità delle figure.
Dopo la morte del cardinale Del Monte nel 1626, il suo erede Alessandro vendette il vaso al cardinale Antonio Barberini. L'oggetto rimase in possesso della famiglia Barberini per più di 150 anni e in questo periodo è conosciuto a volte come «Vaso Barberini».
Durante la prima metà del XVII sec., il vaso venne disegnato da un grande numero di artisti legati al Dal Pozzo, il cui progetto, un'enorme compilazione conosciuta come Museum Chartaceum, mirava alla registrazione di tutti i resti della civiltà romana. Sono conosciuti 14 disegni del vaso del XVII sec., divisi tra la Bibliothèque Nationale di Parigi, il British Museum di Londra, la Royal Library a Windsor e la Galleria degli Uffizî di Firenze. Tra le versioni che furono pubblicate nel XVIII sec. ci sono quelle di Girolamo Teti (Hieronymus Tetius, Aedes Barberinae, Roma 1642), di M. de la Chausse (Romanum Museum sive Thesaurus Eruditae Antiquitatis, Roma 1690) e del Bartoli.
Dalla metà del XVIII sec. a causa del declino delle fortune dei Barberini, molte antichità di loro proprietà furono vendute. Qualche tempo prima del 1782, la principessa Cordelia Barberini Colonna vendette il vaso a James Byres (1733- 1817), uno scozzese che viveva a Roma, appassionato di cultura classica. Byres commissionò all'intagliatore di gemme Giovanni Pichler un calco del vaso, dal quale James Tassie fece sessanta modelli in gesso (alcuni dei quali sopravvivono), al fine di interessare potenziali acquirenti del vaso.
Nel 1782 o immediatamente dopo, Byres vendette a Sir William Hamilton per mille sterline il vaso che, dal 1783, fu a Londra. Hamilton, tuttavia, non fu in grado di pagarlo e nell'anno seguente lo vendette alla seconda duchessa di Portland. Questa morì nel 1785 e la sua collezione fu messa all'asta nel 1786. Il vaso fu acquistato dal terzo duca di Portland, figlio dell'ultimo proprietario, e rimase in possesso dei duchi di Portland fino al 1945.
Il vaso aveva attratto l'attenzione del maestro vasaio Josiah Wedgwood (1730-95), che ottenne dal terzo duca di Portland, che lo aveva appena acquistato, il permesso di prenderlo in prestito e portarlo nella manifattura da lui denominata Etruria per farne delle copie. La prima produzione di copie, in ceramica tipo diaspro nero, comparve nel 1789-90: successivamente ne furono fatte altre, di varie dimensioni e con diverse rifiniture, la più recente delle quali è del 1990.
Il Vaso P. divenne presto famoso; tra le frequenti descrizioni e illustrazioni che lo riguardano, la più considerevole è quella di Erasmus Darwin (The Botanic Garden, Londra 1731-1802) che, nel lungo poema inteso a divulgare la nuova classificazione botanica di Linneo, ne incluse una nota interpretativa, illustrata con quattro incisioni non firmate, apparentemente attribuibili a William Blake.
Tra il 1786 e il 1809, venne danneggiato e, presumibilmente come precauzione contro ulteriori danni, il quarto duca di Portland nel 1810 lo diede in prestito al British Museum. Nel 1845, tuttavia, William Lloyd, uno scenografo teatrale disoccupato, entrato nel museo, ruppe il vaso in circa duecento pezzi; esso venne in seguito restaurato da John Doubleday.
La fama del vaso, e delle repliche di Wedgwood, ebbero un ruolo notevolissimo nell'instaurazione della lavorazione del vetro-cammeo in Inghilterra. Il principale promotore di questo revival fu il vetraio Benjamin Richardson che offrì una somma di mille sterline a chiunque fosse in grado di riprodurre il vaso con la tecnica del vetro-cammeo.
La sfida di Richardson fu raccolta da due dei suoi dipendenti, Philip Pargeter, che fece il pezzo grezzo, e John Northwood, che intagliò la decorazione tra il 1873 e il 1876. La copia di Northwood determinò una grande richiesta e creò una moda per il vetro-cammeo che durò fino alla fine del secolo.
Nel 1929, il sesto duca di Portland offrì il vaso all'asta, ma non riuscì a raggiungere il prezzo minimo. Fu ceduto di nuovo al British Museum come prestito nel 1932, finché nel 1945 venne acquistato dallo stesso museo londinese; è stato restaurato in due successive occasioni, nel 1947 e nel 1989.
Tecnica. - Il Vaso P. fu ottenuto mediante il metodo della soffiatura come è indicato dalle variazioni nello spessore della parete, che sono caratteristiche dei contenitori soffiati sagomati a forma di vaso; dalla forma delle bolle nel vetro, molte delle quali assumono un aspetto allungato quando il bolo incandescente si dilata gonfiandosi e dal bordo superiore dello strato di rivestimento, dal quale si deduce che il bolo incandescente era immerso in un crogiolo di vetro bianco fuso, e ciò non si sarebbe verificato se il vaso fosse stato colato in uno stampo.
Le variazioni nello spessore della parete, la forma e la posizione delle bolle deformate mostrano che manca una considerevole quantità di vetro dalla parte inferiore del vaso, che la parete continuava in basso per un tratto al di sotto dell'attuale linea bianca di base e che il fondo non era piatto, come nella Brocca Auldjo. La forma del Vaso P., quindi, originariamente assomigliava al «Vaso Blu», un'anfora di vetro-cammeo da Pompei, ora a Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Esperimenti condotti da W. Gudenrath suggeriscono che il vaso fu ottenuto raccogliendo nella canna per soffiare l'intera quantità di vetro blu richiesta per il corpo, soffiandolo in parte e modellandolo a forma di cilindro. Il cilindro fu poi immerso in un crogiolo di vetro bianco per raccogliere lo strato esterno, e rotolato su una lastra liscia per assicurare la distribuzione uniforme dello strato aggiunto; quindi venne soffiato e manipolato fino a raggiungere una forma ellissoidale con una protuberanza alla base. A questo punto il pezzo grezzo fu trasferito dalla canna a un puntello, così che spalla, collo e bocca poterono essere modellati. Gli ultimi stadi nel processo di modellatura consistettero nell'applicazione delle anse, dopo aver riscaldato nuovamente il pezzo grezzo per ridurre la tensione, e nella temperatura. La lavorazione continuò usando utensili a mano e una ruota alimentata con abrasivo, con cui il decoratore rimosse la maggior parte dello strato bianco esterno, risparmiando l'ornato in basso rilievo. Il processo richiedeva non solo abilità ma anche una grande quantità di tempo: Northwood dedicò tre anni di intensa attività per finire la prima copia del vaso in vetro-cammeo, nel 1876.
Data e luogo di lavorazione. - Il Vaso P. può essere datato entro un ampio arco di tempo che va dalla metà del I sec. a.C. (quando il vetro soffiato fu scoperto) al tardo I sec. d.C. (quando i prodotti di vetro colorato cessarono di essere di moda). Una datazione più precisa dipende dall'analisi stilistica della decorazione: le scene sul vaso sono reminiscenze del secondo stile della pittura parietale romana e ciò mostra che esso è più vicino alla metà del I sec. a.C. che al tardo I sec. d.C.; E. Simon e D. E. L. Haynes propendono per una datazione al periodo augusteo (31 a.C.- 14 d.C.). L'assenza di figure sovrapposte e disegnate in prospettiva, caratteristica che ricorre nella Gemma Augustea, datata intorno al 10 d.C., precisa che la datazione del vaso precede gli ultimi anni del regno di Augusto. Infatti la Simon confronta lo stile e la fisionomia delle figure del vaso con figure su monete del secondo triumvirato, emesse subito dopo la battaglia di Azio nel 31 a.C. Il Vaso P. quindi, si daterebbe nella decade 30-20 a.C. o appena dopo.
Paralleli stilistici suggeriscono una fabbrica italiana, e questa conclusione è sostenuta dal numero relativamente grande di vetri-cammeo che sono, stati rinvenuti nella penisola. Dei quindici principali oggetti conosciuti, nove furono scoperti in Italia: il Vaso P., il «Vaso delle Stagioni» e il «Pannello Carpegna» si dice siano stati trovati a Roma o nelle vicinanze; altri provengono da Pompei; un esemplare fu trovato a Torrita di Siena in Toscana. Esiste la possibilità di attribuire il Vaso P. a una specifica bottega di Roma. M.-L. Vollenweider, notando la somiglianza tra la figura A del Vaso P. e la figura di Diomede su una corniola nella collezione del duca di Devonshire, firmata da Dioskourides - (v. vol. III, p. 133, s.v. Dioskourides, 4°) noto per aver eseguito un sigillo per Augusto nel 20 a.C. - proponeva lo stesso artista quale incisore anche del Vaso Portland.
Interpretazione. - Nel 1635, Rubens riconobbe Paride nella figura sul disco di base ma era incerto sulle scene del corpo del vaso, e non era il solo, in quanto almeno cinquanta differenti interpretazioni sono state proposte da allora. Nel 1633, Capitalli le interpretò come raffiguranti l'unione di Olimpia, madre di Alessandro Magno, e Giove in forma di serpente. Due anni più tardi de Peiresc e Gassendi preferirono scorgervi la riconciliazione di Achille e Agamennone. La maggior parte delle teorie successive ha identificato le scene o con figure storiche o con episodi mitologici.
Le tre esegesi moderne più dettagliate sono quelle della Simon, di Haynes, di Painter e Whitehouse. E. Simon ritiene che i due lati mostrino eventi distinti dell'unione di Azia, la madre di Augusto, e Apollo. L'attribuzione ad Apollo del concepimento di Ottaviano faceva parte della propaganda di Giulio Cesare a vantaggio della sua famiglia e del suo successore adottato. Secondo la tradizione, Azia prese parte a una veglia nel Tempio di Apollo, durante la quale il dio la visitò in forma di serpente e la rese gravida (Suet., Aug., 194, 4). Per la Simon, il lato II rappresenta il primo incontro di Azia e Apollo: la figura E sarebbe Apollo, la F rappresenterebbe Azia e la G Venere Genitrice. Il lato I mostra la successiva unione: la figura A sarebbe Apollo, reso con le fattezze di Augusto, la figura C Azia rappresentata con Apollo in forma di serpente e la D sarebbe infine Chronos.
Secondo Haynes, i due lati rappresentano una singola scena della storia di Peleo e Tetide. Nella versione raccontata da Catullo (XLIV, 19-20), le figlie di Nereo emersero dalle onde per guardare come navigavano gli Argonauti in cerca del vello d'oro. Tetide e Peleo si innamorarono a prima vista. Per Haynes, Tetide (F) era emersa dal mare e giaceva su una roccia posta nel suo santuario; Peleo (A) in sua attesa avanza incoraggiato da Cupido e dalla madre di Tetide (C), che afferra un drago del mare o kètos. La figura D sarebbe un dio del mare, la E Hermes, che attende le nozze di Peleo e Tetide, e la G Venere.
L'interpretazione di Painter e Whitehouse, come quella della Simon, presume che i due lati mostrino scene differenti che si riferiscono alle origini e al destino di Roma.
Il lato I rappresenterebbe la nascita di Ottaviano e l'età d'oro che egli inaugurò, mostrando l'unione di Azia e Apollo con Ottaviano a sinistra e Nettuno, la divinità che assisté quest'ultimo nella battaglia di Azio, a destra. Il lato II rappresenterebbe la nascita di Paride e la distruzione di Troia, senza la quale Roma non sarebbe esistita. La figura F sarebbe Ecuba, che sognava di originare una torcia che desse fuoco alla città (Apollod., Bibl., III, 12, 3 e Hyg., Fab., XCI), la E sarebbe Paride e la figura H Venere. In base a questa spiegazione, il vaso esprimerebbe lo stesso messaggio politico (il sorgere di una nuova età d'oro) dell'Eneide di Virgilio, del Carmen Saeculare di Orazio e delle Elegie di Properzio (IV, 6).
Bibl.: D. E. L. Haynes, The Portland Vase, Londra 19752; D. B. Harden, H. Hellenkemper, Κ. Painter, D. Whitehouse (ed.), Vetri dei Cesari (cat.), Milano 1987, pp. 53-84; Ν. Williams, The Breaking and Remaking of the Portland Vase, Londra 1989; I. C. Freestone, W. Gudenrath, K. Painter, D. White- house, The Portland Vase, in JGS, XXXII, 1990, pp. 12-188.
Storia: C. C. Vermeule, The Portland Vase before 1650, in Third Annual Wedgwood International Seminar, Boston 1958, pp. 59-70; N. T. de Grummond, Rubens, Peiresc and the Portland Vase, in Southeastern College Art Conference Review, VII, 1, 1974, pp. 6-11; J. K. Rakow, L. S. Rakow, The Glass Replicas of the Portland Vase, in JGS, XXIV, 1982, pp. 49-56; A. Dawson, Masterpieces of Wedgwood in the British Museum, Londra 1984, pp. 112-125; D. Jaffé, Peiresc, Rubens, dal Pozzo and the «Portland Vase», in The Burlington Magazine, XXXI, 1990, pp. 24-84.
Tecnica: D. E. L. Haynes, op. cit., pp. 21-23; D. B. Harden, New Light on the History and Technique of the Portland and Auldjo Cameo Vessels, in JGS, XXV, 1983, pp. 45-54; M. Bimson, I. C. Freestone, An Analytical Study of the Relationship between the Portland Vase and Other Roman Cameo Glass Vessels, ibid., pp. 55-64; I. C. Freestone, Laboratory Studies of the Portland Vase, in JGS, XXXII, 1990, pp. 103-107; W. Gudenrath, D. Whitehouse, The Manufacture of the Vase and Its Ancient Repair, ibid., pp. 108-121.
Data e luogo di lavorazione: D. E. L. Haynes, op. cit., pp. 23-25; M. L. Vollenweider, Die Steinschneidekunst und ihre Künstler in spätrepublikanischer und augusteischer Zeit, Baden-Baden 1966, pp. 60-64; D. E. L. Haynes, The Portland Vase again, in JHS, LXXXVIII, 1968, pp. 58-72; Κ. Painter, D. Whitehouse, Style, Date, and Place of Manufacture, in JGS, XXXII, 1990, pp. 122-125; iid., The Place of the Vase in Roman Glassmaking, ibid., pp. 126-129.
Interpretazione: D. E. L. Haynes, op. cit., pp. 16-21; E. B. Harrison, The Portland Vase: Thinking it over, in L. Bonfante, H. von Heintze (ed.), Essays in Archaeology and the Humanities. In Memoriam Otto J. Brendel, Magonza 1976, pp. 131-142; J. F. Hind, Greek and Roman Epic Scenes on the Portland Vase, in JHS, XCIX, 1979, pp. 20-25; E. Simon, Augustus. Kunst und Leben in Rom um die Zeitenwende, Monaco 1986, pp. 162-165; Κ. Painter, D. Whitehouse, The Interpretation of the Scenes, in JGS, XXXII, 1990, pp. 130-136.