DIATRETI, Vasi
L'aggettivo diatretus, traduzione latina del greco διάτρητος, «forato» o «perforato», è usato per indicare la tecnica con cui si realizzava nell'antichità un tipo particolare di vasi in vetro decorati «a giorno». Nessuna delle fonti in cui compare questo termine fa però esplicita menzione al vetro. Il primo riferimento ai diatreta ricorre in un epigramma di Marziale, che allude a costosi vasi potori, dei quali non specifica il materiale (XII, 52, 9-10). Ulpiano {Dig., IX, 29-30), nella difesa di un artigiano il cui «calix diatretus» si era rotto durante la lavorazione a causa di una fessura della forma grezza, non indica il materiale di cui è fatto il vaso: si suppone che si tratti in questo caso di cristallo di rocca o di qualche altra pietra dura, ma non si può escludere l'impiego del vetro poiché una tempratura mal riuscita spesso può lasciare un oggetto danneggiato e soggetto a rompersi all'improvviso. Ugualmente, in un passo del Midraš Rabba (Esth., I, 7), si descrivono i diatreta come vasi potori in «cristallo», un termine che rimane però ambiguo.
Oggi sono denominati vasa diatreta, Diatretgläser, cage cups o coppe a gabbia i vasi di vetro soffiato più pregiati della produzione romana, caratterizzati da un esteso lavoro di intaglio «a giorno», che consiste in una «gabbia» geometrica, un'iscrizione o un fregio figurato. I diatreta erano ottenuti mediante un laborioso processo di intaglio e molatura di un singolo pezzo grezzo a pareti spesse. Il vetraio fondeva o (più probabilmente) soffiava la forma grezza; a volte vi applicava fasce di colore di vetro fuso, appiattite rotolando la massa incandescente su una superficie liscia o «marmo». Il pezzo grezzo veniva poi nuovamente cotto e consegnato al decoratore, il quale realizzava il lavoro a traforo riducendo tra la metà e i due terzi del vetro mediante intaglio, smerigliatura e molatura; in seguito le superfici lavorate venivano lucidate. A lavoro ultimato l'intaglio appariva completamente staccato dal corpo del vaso, a cui era unito per mezzo di ponticelli ben mimetizzati.
Diatreta del I sec. d. C. - Fino a qualche anno fa, era opinione comune che la maggior parte dei vasi d. fosse stata prodotta nel III-IV sec. d.C. Tuttavia nel 1982, scavi condotti a Nimega, in Olanda, portarono alla luce un bicchiere lavorato «a giorno» da mettere sicuramente in relazione con oggetti datati c.a all'80-100 d.C.
Questa scoperta, e inoltre la revisione della datazione del c.d. Bicchiere del Faro e di altri oggetti provenienti da Begrām (v. vol. II, p. 35) hanno portato alla conclusione che alcuni bicchieri di questo tipo venissero realizzati già alla fine del I sec. d.C.
I diatreta rinvenuti a Nimega e a Begrām sono bicchieri conici, simili al gruppo ben conosciuto di bicchieri con sfaccettature tagliate alla ruota che risalgono alla fine del I-inizi II sec. d.C. e che si ritiene provengano dall'Egitto. Il bicchiere di Nimega (alt. 13,5 cm) è decorato da rami di quercia con foglie e ghiande lavorati a traforo, mentre sul vaso di Begrām (alt. c.a 17 cm) sono raffigurate barche e una struttura a forma di torre sormontata da statue, che è stata identificata con il faro di Alessandria.
Diatreta tardoromani. - I vasi d. tardoromani, secondo la classificazione di Harden e Toynbee (Harden, Toynbee, 1959), possono essere divisi in due gruppi: quelli con decorazione figurata e quelli senza. I diatreta del primo gruppo includono la Coppa Cagnola (alt. 11,5 cm) conservata al Museo Civico di Varese e la Coppa di Licurgo al British Museum; la Coppa Cagnola ha la forma di un bicchiere ed è decorata con colonne e maschere tragiche intagliate «a giorno». Al secondo gruppo appartengono la Coppa Trivulzio (alt. 12 cm), che si trova nel Castello Sforzesco a Milano, e la coppa proveniente da Colonia-Braunsfeld (alt. 12,1 cm), al Römisch-Germanisches Museum di Colonia; entrambe presentano strati colorati sovrapposti e il lavoro a traforo è costituito da iscrizioni e «gabbie» composte da file di maglie contigue. A questi esemplari sono da aggiungere due brocchette, un'anfora, due secchielli e alcune coppe emisferiche. Il frammento di una brocchetta al Corning Museum of Glass, ha un'ansa desinente a testa di lupo; il corpo, di colore blu chiaro, è decorato con un elaborato lavoro di intaglio «a giorno». Dell'altra, conservata al Rheinisches Landesmuseum di Treviri, rimane una parte dell'orlo e della parete, con due lettere (A e S) di un'iscrizione latina, e un frammento della gabbia. È probabile che le lettere facessero parte della formula di un brindisi, come quella presente sulla Coppa Trivulzio: [bibe viv]as [multis annis]. Uno dei due secchielli del Tesoro di San Marco a Venezia appartiene al primo gruppo della classificazione di Harden e Toynbee: un altro esemplare, proveniente da Soria in Spagna, non ha invece decorazioni figurate. Il primo (alt. 26,5 cm) è ornato nella parte superiore da un fregio raffigurante due cacciatori a cavallo all'inseguimento di due grandi felini. La parte inferiore del corpo è avvolta da una gabbia mentre la base, costituita da un piede ad anello, ha una rosetta intagliata alla ruota.
Di particolare interesse sono poi quattro recipienti di forma emisferica. La Coppa Maxwell (alt. 10 cm) è poco profonda e presenta un ampio orlo, dal quale per la verità risulta difficile bere. Fra gli altri vasi d. della stessa forma sono da ricordare un grande esemplare incompleto da Hohensülzen, in Germania (ora perduto), e una versione più piccola (alt. 7,1 cm) della coppa «a gabbia» Constable Maxwell, conservata a Corning. Questi vasi sono tutti decorati con «gabbie». Il vaso «dei pesci e delle lumache» (alt. 12 cm), proveniente da Szekszárd in Ungheria, ha un'iscrizione greca al di sotto dell'orlo e animali marini a tutto tondo sulla base.
La Coppa di Licurgo. - La realizzazione dei vasi d. richiedeva dei tours de force da parte degli intagliatori che realizzavano, in alcuni casi, dei veri capolavori. Il più notevole tra questi è la Coppa di Licurgo (alt. 16,5 cm c.a), decorata da un fregio lavorato «a giorno» con sei figure. Imprigionato nei tralci di una vite è raffigurato il mitico re Licurgo, alla cui sinistra sono la menade Ambrosia, seduta a terra, e un satiro con il braccio alzato nell'atto di scagliare un sasso contro l'indifeso Licurgo. Accanto, accompagnato dalla pantera, è raffigurato Dioniso che chiama il suo servitore Pan (v. vol. IV, p. 737).
Secondo la versione trasmessa da Nonno (Dionys., XX), Licurgo attaccò Dioniso e il suo seguito: Ambrosia lanciò una pietra contro l'intruso, ma Licurgo reagì cercando di fracassarle la testa con un sasso. La Terra venne in soccorso della menade trasformandola in una vite, che avviluppò Licurgo e lo strangolò. La Coppa di Licurgo si distingue da tutti gli altri diatreta per il risalto delle sue figure tridimensionali e la loro eccezionale vitalità. Inoltre essa ha anche la particolare proprietà del dicroismo, vale a dire la capacità di mutare colore: con la luce riflessa è verde, quando è controluce diventa rossa. Oggetti dotati di tale straordinaria proprietà non potevano non trovare menzione presso gli autori antichi. Un riferimento è nella Historia Augusta, nella Vita di Saturnino. In essa è riportata una lettera che si suppone scritta dall'imperatore Adriano nel periodo in cui si trovava in Egitto, nella quale descrive un dono fatto a suo cognato Severiano, a Roma. Il passo è però ambiguo: «ti ho inviato coppe variopinte che cambiano colore (calices... allassontes versicolores) regalatemi dal sacerdote di un tempio» (SHA, Quatt. tyr., VIII, 10). La lettera, naturalmente, è apocrifa e le «coppe che cambiano colore» sembrano essere state considerate delle rarità esotiche molto più al tempo dell'autore che in quello di Adriano. Essa comunque testimonia che al tempo in cui fu composta la Historia Augusta, intorno alla fine del IV sec. d.C., i vasi dicroici dovevano essere noti a Roma, almeno per sentito dire. Un altro riferimento ricorre nel romanzo di Achille Tazio. Clitofonte assiste a Tiro a un banchetto dato da suo padre per il giorno di festa dedicato a Dioniso (XI, 3, 1-2) e così descrive il convivio: «Mio padre... ha esposto tutto ciò che era necessario per la cena in modo ricco e sontuoso: ma specialmente una preziosa coppa da usare per le libagioni al dio... Tralci di vite coronavano il suo orlo, come se crescessero dalla coppa stessa: i loro grappoli cadevano in ogni direzione. Quando la coppa era vuota, ciascun chicco d'uva sembrava verde e acerbo, ma quando il vino veniva versato in essa, allora poco a poco i grappoli divenivano rossi e scuri, il raccolto verde si trasformava in frutto maturo. Anche Dioniso era raffigurato, vicino ai grappoli, come viticoltore e vinaio». Anche in questo caso è probabile che lo straordinario fenomeno che suscita la meraviglia di Clitofonte sia imputabile a un vetro dicroico. Un sostegno a tale ipotesi può venire proprio dalla Coppa di Licurgo, sulla quale è possibile fare un'ulteriore considerazione: l'artigiano che eseguì l'intaglio intese utilizzare il cambiamento di colore per simboleggiare la maturazione dei grappoli e la loro trasformazione in vino.
Aspetti funzionali e tecnici. - Molti diatreta a forma di bicchiere presentano iscrizioni con formule conviviali, sia in latino (Coppa Trivulzio) che in greco (Coppa Colonia-Braunsfeld), le quali dimostrano, al di là di ogni dubbio, che i vasi erano utilizzati per bere. Ma oltre ai diatreta per libagioni è naturale supporre che, nelle occasioni più importanti, venissero adoperate anche anfore e brocchette raffinate per mescere vini pregiati. Un'anfora di vetro (alt. 28,5 cm), trovata a Colonia in una tomba del IV sec., presenta sul corpo un motivo a gabbia ottenuto con sfaccettature e intagli lineari e sulle spalle, separati dalle anse, due elementi a forma di lunetta. Si conosce inoltre un frammento lavorato «a giorno», conservato al Römisch-Germanisches Museum a Colonia, che appartiene probabilmente alla spalla di una grande anfora a pareti spesse, caratterizzata da un vetro verde-giallastro con uno strato sovrapposto blu. Sulla parte superiore del frammento, il rivestimento è intagliato secondo la tecnica a cammeo: vi è raffigurato Dioniso sdraiato su una pantera; in quella inferiore si conservano le tracce di sei ponticelli. Evidentemente il vaso doveva avere una duplice decorazione: a cammeo e a gabbia. Per quanto riguarda i secchielli, si è tentato un confronto con un gruppo di recipienti simili realizzati con una lega di argento e rame, datati tra il IV e la metà del VI sec. d.C., decorati con raffigurazioni cristiane e della mitologia pagana, scene di caccia e una venatio. Tali recipienti metallici, però, erano probabilmente usati nelle terme (un uso testimoniato dal mosaico rinvenuto nella stanza 5 della lussuosa villa di Piazza Armerina; è noto inoltre che Costanzo II fu colpito a morte con un secchiello d'argento mentre faceva il bagno), impiego che quasi certamente è da escludere per i secchielli di vetro lavorati «a giorno». È probabile, invece, che questi fossero utilizzati per bere: lo suggerirebbero la scena raffigurata su uno dei due esemplari che si trovano a Venezia (Dioniso e le figlie di Minia), e, fra le fonti letterarie, la Vita di Firmus, in cui si afferma che quel personaggio, formidabile mangiatore ed eccezionale bevitore, in una gara «scolò due secchielli (situlas) pieni di vino e rimase ancora sobrio» (SHA, Quatt. tyr., IV, 4).
La funzione delle coppe emisferiche è suggerita dal vaso di Corning. Questo era fornito di un collare di metallo, il quale dimostra che, nel momento in cui fu sepolto, era destinato a essere sospeso, probabilmente come una lucerna.
Data la rarità dei diatreta e la grande perizia per realizzarli, si suppone che fossero usati da persone di elevata condizione sociale. Questa opinione è avvalorata da un'iscrizione su un bicchiere, rinvenuto a Strasburgo nel 1826 e distrutto nel 1870 durante la guerra francoprussiana, caratterizzato da un corpo incolore e da una gabbia color porpora. L'iscrizione era incompleta, ma può essere reintegrata con certezza come [max]im[ia]ne avgv[ste]: un'invocazione rivolta a Massimiano Erculeo, imperatore dal 286 al 310 d.C. Non sappiamo se il bicchiere fosse stato fatto per essere utilizzato dall'imperatore stesso o per essere da lui regalato; in ogni caso, abbiamo qui una riprova di quali potessero essere gli ambienti in cui i diatreta erano commissionati e posti in circolazione.
Nel XVIII sec. la Coppa Trivulzio attirò l'attenzione di J. J. Winckelmann, il quale ipotizzò che fosse stata fatta intagliando una forma grezza a pareti spesse. Altri studiosi ritenevano che la coppa e la sua gabbia fossero state lavorate separatamente, e che i ponticelli che le uniscono fossero stati fusi alla parete e rifiniti con la molatura. Nel 1930 Fremersdorf pubblicò un resoconto minuzioso di come potevano essere stati intagliati i vasi d., ma nessuno ne rimase convinto. In Germania, Wiedmann (1954) provò a riprodurre vasi con decorazioni a traforo utilizzando la tecnica della sabbiatura, mentre negli Stati Uniti Carder fece delle versioni di diatreta con il metodo della colatura a cera perduta. La questione di come i Romani producessero i vasi d. rimase irrisolta fino agli inizi degli anni '60, quando Brill studiò dei frammenti di un vaso d. proveniente da Corinto. L'esame al microscopio evidenziò che supporto e parete erano intagliati da un unico pezzo di vetro e che non potevano essere stati uniti per mezzo della fusione, poiché in tal caso ciò sarebbe stato evidente nei due elementi aventi differenti tipi di bolle e avrebbe lasciato una giuntura visibile. Nel 1963, due vetrai di Murano riuscirono a intagliare un vaso diatreto. L'anno seguente, Schäfer realizzò una copia del vaso proveniente da Daruvar in Croazia, usando di nuovo ruote da intaglio e abrasivi. All'incirca negli stessi anni, Wiedmann supervisionò la produzione di vasi d. intagliati alla ruota a Gralglashütte, nel Dürnau. Più recentemente, Wenzel ha intagliato una copia della Coppa di Colonia-Braunsfeld: e, negli ultimi cinque anni, Scott ha prodotto varí diatreta, incluse le copie della Coppa Constable Maxwell e del vaso di Hohensülzen: la sua recente pubblicazione è probabilmente il migliore resoconto sulla lavorazione dei diatreta romani. Le analisi chimiche hanno rivelato che il vetro di base dei vasi di Corinto e Atene contiene lo 0,01% di ossido di piombo e gli strati sovrapposti lo 0,9%; il vetro di base di un frammento di un vaso non finito, conservato al Museo Benaki di Atene, contiene lo 0,6% di ossido di piombo e la Coppa di Licurgo lo 0,2%. In un dibattito sul metodo di lavorazione dei pezzi grezzi, Fiorelli Grimstad (1967) ha ipotizzato che l'ossido di piombo veniva aggiunto nella fóndita allo scopo di produrre vetro tenero che sarebbe stato relativamente facile intagliare. In realtà, se è vero che l'aggiunta di ossido di piombo produce un vetro più tenero, va detto che la percentuale necessaria dovrebbe essere considerevolmente superiore allo 0,1-0,9%. Lo confermano le quantità aggiunte agli strati sovrapposti color bianco opaco di due noti vetri a cammeo romani - il Vaso Portland e la Brocca Auldjo - presumibilmente per ammorbidirli, che erano rispettivamente del 12 e 23%. Si può concludere dunque che, almeno a giudicare dalle percentuali testimoniate nelle analisi pubblicate, la presenza di ossido di piombo nei vasi d. non era intenzionale e che i fabbricanti delle forme grezze non fecero alcun tentativo per ammorbidire il vetro.
Il dicroismo presente nella Coppa di Licurgo e in quattro altri vasi d., al contrario, era un effetto voluto, ottenuto aggiungendo piccole quantità d'oro e argento nella fóndita. L'argento fa sì che il vetro diventi verde opaco con la luce riflessa e l'oro, quando si fissa alla giusta temperatura, lo fa diventare rosso in controluce. Sembra, a giudicare dalla parità degli esempi noti, che solo pochi vetrai romani conoscessero a fondo la tecnica per produrre il vetro dicroico. Inclusi i frammenti, conosciamo infatti più di cinquanta vasi d. romani, ma meno di dieci sono dicroici, e fra essi: la Coppa di Licurgo, il secchiello proveniente da Soria in Spagna, i frammenti conservati nell'Antiquarium del Foro Romano a Roma, al British Museum, al Metropolitan Museum of Art e a Corning.
Probabilmente, nell'ambito dei vetri d. tardoromani, il più antico è un frammento proveniente da Atene, decorato con uccelli e fogliame; fu rinvenuto nelle macerie di una casa, che si pensava fosse stata distrutta quando gli Eruli razziarono la città nel 267 d.C. Il bicchiere di Strasburgo è databile tra il 285 e il 310 d.C., mentre il vaso di Hohensülzen fu sotterrato intorno al 300 d.C. e la Coppa di Colonia-Braunsfeld tra il 300 e il 350 d.C., come risulta da rinvenimenti a loro connessi. Il più tardo vaso d. databile è un bicchiere proveniente da Komini nell'ex-Iugoslavia: si è supposto che la sua iscrizione (vivas panelleni bona...) si riferisse a Panhellenios, governatore della Lidia nel 382 d.C. Sebbene per il secchiello del Tesoro di San Marco sia stata proposta una datazione al VI sec., è probabile che la maggior parte (forse tutti) dei diatreta risalga a un periodo compreso tra il 250 e la metà-fine del IV secolo. Non conosciamo i luoghi di produzione. Numerosi rinvenimenti si sono avuti in Renania, in particolare a Colonia (uno dei centri meglio conosciuti della produzione romana del vetro) e a Treviri (che divenne la residenza imperiale nel 286 d.C.), e per questo molti studiosi hanno supposto che nelle due città ci fossero botteghe che producevano vasi diatreti. Tuttavia, esempi ricorrono in tutto il Mediterraneo, da Soria in Spagna a Cizico in Turchia, e il frammento di un vaso d. non finito, al Museo Benaki di Atene, potrebbe provenire dall'Egitto. In realtà, è impossibile attualmente determinare se i diatreta fossero realizzati in pochi centri (come i piatti d'argento) e trasportati poi in varie città dell'impero romano (e oltre) da funzionari appartenenti a famiglie aristocratiche, o se venissero invece fabbricati in numerose località, magari da artigiani itineranti come i loro maestri.
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