Vedi ATTICI, Vasi dell'anno: 1958 - 1973 - 1994
ATTICI, Vasi (v. vol. ι, p. 893 e S, p. 99)
Gli studi recenti sui vasi a., oltre a operare una revisione critica delle attribuzioni, esaminano l'opera dei varî ceramografi alla luce di nuove ricerche storico-religiose e sociologiche, raggiungendo risultati interpretativi sempre più soddisfacenti. È noto come la ceramica attica si colleghi al culto dei morti e al fenomeno religioso e mitico con accenti umani di grande freschezza e fantasia ed è noto pure come quasi nessuna fonte letteraria parli diffusamente di questo genere artigianale a eccezione di Ateneo (XI) e Polluce (Onomast., X 31, 66-69, 70-75) che si limitano a fornire dettagli sulle forme vascolari, ma certamente ignorano chi ha lavorato nel Ceramico.
Lo stile a figure nere. Mentre lo stile geometrico nella sua fase tarda (prima metà dell'VIII sec. a.C.) aveva affrontato i primi problemi connessi alla rappresentazione della figura umana con semplici episodi perlopiù funerari e la ricca produzione orientalizzante protoattica aveva attinto al repertorio mitico, lo stile a figure nere costituisce la più significativa realizzazione figurativa dell'epoca di Solone, di Pisistrato e dei suoi figli, di ben diversa efficacia rispetto a quella corinzia, pressoché coeva, ma stancamente ripetitiva e in via di esaurimento. Si considera agli inizî di questo stile il più singolare dei primi pittori vascolari attici, Sophilos, che per quanto riguarda la decorazione ha profonde radici corinzie, mentre l'attenzione al mito (nozze di Peleo e Teti; Achille che assiste ai giuochi in onore di Patroclo), all'atletismo e alle corse, lo collega al suo quasi contemporaneo Kleitias. Secondo Bakis, Sophilos opera nel primo trentennio del VI sec. a.C. mentre Kleitias sembra al culmine della sua attività un poco più tardi. L'affinità fra i due artisti è riscontrabile soprattutto sul piano iconografico, mentre dal punto di vista stilistico, Sophilos è più vicino al Pittore della Gorgone, al Pittore Corintizzante e alla tradizione corinzia più genuina.
La recente ripresa da parte del Williams dello studio del dìnos londinese di Sophilos, con la scena figurata principale delle nozze di Peleo e Teti, ha portato a interessanti novità in campo esegetico. La raffigurazione di Demetra e di Dioniso al posto dei genitori dei due sposi è problematica: il ruolo di Demetra come madre è confermato dal mito, mentre per Dioniso si è richiamata l'attenzione sulla sua presenza accanto a Demetra nel viaggio nell'oltretomba; infatti la vicinanza delle due divinità nei Piccoli Misteri è ovvia. Per quanto riguarda la scena raffigurata da Sophilos si può ipotizzare l'influsso di una fonte letteraria, ossia il molto spesso citato Stesicoro, che lo Stewart ha nuovamente considerato in un recente studio. Si rinnova l'ipotesi di contatti ateniesi con la pittura corinzia sia in virtù della frequente presenza in Atene di commercianti corinzi durante l'età soloniana, sia mediante la conoscenza diretta che Sophilos (al pari di Kleitias) poteva aver avuto nella stessa città dello stretto. Di certo la frequentissima comparsa di iscrizioni con i nomi dei personaggi, sia a Corinto che nelle pitture vascolari ateniesi di questo periodo, e cioè nei primi venti o trent'anni del VI sec., costituisce un ulteriore elemento di riflessione. Ma d'altronde conosciamo ancora così poco la pittura arcaica di questa età che appare difficile, senza prove, ammettere una visione diretta. Lo studio del dìnos condotto dal Williams, apre dunque la strada a nuove prospettive nella ricerca su Sophilos e su Kleitias: il materiale considerato rivela una tradizione iconografica ancora assai incerta, mentre ribadisce un più consistente richiamo a fonti letterarie.
Una recentissima e puntuale analisi della Brownlee, basata sul confronto tra la scena del dìnos di Farsalo e il testo dell'Iliade (XXIII, 448-451, 487-489, 495-499), sembra confermare la preponderante influenza di descrizioni letterarie. Kleitias è anche decoratore di coppe e opera proprio nei decenni in cui appaiono sia le coppe di Siana che, intorno alla metà del secolo, i «maestri miniaturisti». Le coppe del tipo Gordion sembrano uscite dall'officina del vasaio Ergotimos (v. l'esemplare firmato), e per la loro eleganza si discostano dalla struttura delle coppe di Siana mentre sono più vicine ai maestri miniaturisti. In quei decenni, appena prima della metà del VI sec., fanno la loro comparsa coppe con la rappresentazione di tre danzatori (alcune volte con una danzatrice al centro) che pure in Attica ebbero qualche sviluppo e che alcuni studiosi ritennero derivate, erroneamente, da farse corinzie.
Una recente riconsiderazione della problematica connessa alla produzione delle coppe di Siana vi ha visto il richiamo sociale che ha costituito per i giovani la fondazione delle Panatenee databile, come sappiamo, all'Olimpiade del 566 a.C. Proprio su queste coppe si trova in nuce quell'interesse per miti arcaici di tipo guerriero, come la partenza di divinità per la lotta contro i Giganti, e, ancor più il giudizio di Paride, la nascita di Atena, o le scene di battaglia a schiere contrapposte, riferibili a miti troiani. Anche in questo caso l'ispirazione, secondo il parere di P. E. Arias, condiviso da molti, è letteraria più che iconografica ed è tipica dell'età pisistratea.
Il più noto pittore vascolare a figure nere del VI sec. è certamente Exekias, che opera con il suo laboratorio tra il 550 e il 525. In questi ultimi tre decenni si sono messi in luce alcuni aspetti dell'artista che lo inseriscono con maggiore evidenza nella storia dell'Attica. Nel lavoro di K. P. Stähler dedicato quasi esclusivamente alla struttura tettonica dei vasi di Exekias e soprattutto alle firme del pittore e vasaio, viene compiuta un'analisi molto attenta dell'epigrafia e della tecnica delle firme che non costituiscono indicazioni casuali, ma sono frutto della precisa volontà di autenticare i propri prodotti. Uno spostamento di obiettivi scientifici è stato realizzato in due studi di J. Boardman. Egli in un articolo del 1977 analizza il patrimonio figurativo del pittore individuando due categorie, una legata alla vecchia corrente iconografica comprendente motivi come il giudizio di Paride, storie troiane non tutte risalenti all'Iliade, ma anche ai poemi ciclici perduti; l'altra, invece, pervasa da elementi che rinnovano i miti troiani o le storie di divinità in gigantomachie e, soprattutto, in scene atletiche, di nozze, cultuali in genere, imprese di Eracle, di Teseo, dalle quali emergono, secondo Boardman, preoccupazioni di carattere politico legate agli eventi contemporanei e indirizzate contro i tiranni, avvertibili anche in Erodoto (I, 62-63) quando Pisistrato insieme con i figli, torna ad Atene nel 546 a.C. È nel nome di Exekias il Boardman trova echi di altri nomi quali quello di Exekestides (padre di Solone), tipico di Salamina, l'isola di Aiace: eroe del quale diverse volte il pittore rievoca le sorti.
Altrove (Bordman, 11, p. 222 ss.) distingue cinque motivi fondamentali che stanno alla base dei mutamenti iconografici spesso rilevati nei miti tradizionali. È per dare esempi concreti analizza il caso di Eracle e di Atena, ambedue ampiamente presenti nella pòlis della seconda metà del VI sec., in una simbiosi che non manca di suggestione perché tesa ad attribuire al potere insito nella forza dell'eroe, simboleggiante l'uomo per eccellenza, il più alto significato divino della città. La presenza di Aiace e dei Dioscuri, il primo eroe di Salamina (e quindi appartenente alla vecchia tradizione soloniana), i secondi di tradizione chiaramente spartana, starebbe forse a rappresentare la sottile ostilità contro la tirannia pisistratea. È certamente un nuovo metodo di analisi iconografica applicato alla pittura vascolare e rivolto anche ad altre espressioni pittoriche come quelle della ceramica italiota (come sostenuto in alcuni studi recenti). Esso non manca, quando è usato con prudenza (come in questo caso), di additare nuovi orizzonti alla non facile esegesi vascolare.
Ormai sono 130 e più i vasi attribuiti al Pittore di Amasis (v.) rispetto ai poco più di novanta a suo tempo assegnatigli dal Beazley. L'approfondimento è stato sollecitato da studi recenti sulla personalità del pittore da parte di von Bothmer, Boardman, Ridgway e Mertens, da un convegno tenuto nel 1986 presso il Paul Getty Museum e da una mostra organizzata per l'occasione, anche se fra i problemi non ancora risolti resta ancora quello del nome. L'identità fra pittore e vasaio è generalmente ammessa (l'epòiesen assume un significato di creazione che non può sempre valere come termine tecnico solo per indicare la fabbricazione della forma del vaso). Diversa opinione esprime, comunque, a questo riguardo D. von Bothmer. Un'interpretazione complessiva dell'iconografia da parte del Boardman ha ricondotto anche il problema della scelta dei temi da parte del pittore a una valutazione critica della sua imagerie.
L'atmosfera lievemente manieristica che percorre la produzione di Amasis spiega la vicinanza di due pittori, quello dei Gomiti in fuori e l'Affettato. Fra i pittori legati all'Oriente greco dovrebbe annoverarsi anche Lydos (ho lydos dice un'iscrizione vascolare). La sua probabile posizione sociale di schiavo non significa nulla dal punto di vista formale; ci conferma soltanto che l'artigiano apparteneva a quel complesso di vasai e pittori legati a un mestiere di tipo inferiore.
Occorre a questo punto sottolineare un aspetto delle raffigurazioni di questi pittori, non sufficientemente chiarito. Recentemente la Scheibler ha ripreso in considerazione i numerosi gruppi di anfore di Amasis e di altri pittori minori coevi, raffiguranti scene definite generiche. Si tratta di piccoli gruppi di giovani efebi, più o meno imberbi, armati di lance e di archi, che attorniano personaggi anziani talora, ma non sempre, seduti. L'oscillazione fra personaggi più o meno mitici (anche divinità) ma privi di indicazioni sicure, induce all'ipotesi che si tratti di cerimonie riguardanti i giovani. Se è vero che la efebia non esisteva ancora, è certo, come dimostrano appunto queste frequentissime scene della prima età pisistratea, che tali rappresentazioni non possono sempre essere ritenute mitiche. Così avviene per una bellissima scena dell'anfora della Collezione Ludwig di Basilea, nella quale non si deve intendere la figura centrale seduta e barbata come Zeus, ma come un dignitoso magistrato verso il quale convergono gli efebi che sono alle estremità, mentre davanti a lui è un araldo (chiaramente ispirato agli schemi ben noti di Hermes). Ormai si impone un'esegesi «laica» di alcune scene di questo tipo, nelle quali i pittori non dimenticano gli schemi della tradizione mitica.
Occorre qui accennare ad altri tre pittori, cioè al Pittore di Antimenes, a Psiax, e al Pittore di Andokides. Come facilmente si vede nei prodotti di Lydos soprattutto, e nella consistente serie di pittori minori a figure nere, prevalgono spesso le immagini di profilo: la tecnica è presto in crisi. La monotonia di questo linguaggio (per dirla con una nota espressione del Pottier, «le dessin par ombre portée»), costituisce indubbiamente una delle ragioni più forti del cambiamento necessario che avverrà nel decennio compreso fra il 530 e il 520.
Il Pittore di Antimenes (affine a Psiax che Beazley chiamava «fratello di Antimenes ...») è un artigiano fecondissimo, cui sono attribuiti più di cento vasi, senza contare quelli prodotti nella sua bottega. Ricco di inventiva per quanto riguarda il colore (aggiunte di paonazzo nelle vesti e di bianco sul nudo femminile), è creatore anche di quelle anfore a fondo risparmiato sulle quali sono raffigurate le maschere dionisiache così frequenti nei decenni intorno al 530-20, forse con uno specifico riferimento alle Grandi e poi Piccole Dionisie di questo periodo. Come Psiax, il Pittore di Antimenes (denominato da un kalòs di una nota idria di Leida) possiede uno spirito particolarmente attento ad alcuni aspetti del mito che rivelano una sottile ironia, chiaro indizio di una certa crisi intellettuale. Psiax firma due volte e collabora con vasai contemporanei fra cui il Pittore di Andokides.
Il Pittore di Andokides, così chiamato dal nome che compare con la formula epòiesen ben otto volte e più, è colui che per primo affiancò al vecchio stile a figure nere, ormai coltivato stancamente, il nuovo a figure rosse. Prodromi dell'esaurirsi dell'interesse verso la vecchia tecnica erano stati avvertiti anche dal Pittore di Amasis: sullo stesso vaso, è stato notato, egli impiega sia la rappresentazione di volti e personaggi di profilo sia quella tradizionale a figure nere con volti neri. È questo forse il segno che il pittore tentava ormai di affrancarsi dalle vecchie soluzioni. Su una coppa lo stesso pittore usa la tecnica a figure nere per il medaglione centrale, e lo stile a figure rosse all'esterno, anche se in questo caso l'opinione prevalente è che l'iscrizione ama che compare non si riferisca in realtà ad Amasis, in quanto difficile risulta riconoscere qui il suo stile. Il Pittore di Andokides è anche il creatore di un tipo di anfora che, pur avendo raggiunto espressioni grandiose in Exekias, costituisce un tentativo di variazione della tettonica di questi vasi: per la forma tesa verso l'alto, per il rafforzamento generale dato al piede, queste anfore troveranno fedeli seguaci nei pittori c.d. pionieri e cioè Phintias, Euthymides, Euphronios, fino al Pittore di Kleophrades. Il pittore, nonostante recenti tentativi, resta uno dei cardini per stabilire l'inizio cronologico del nuovo stile intorno al 25 a.C., secondo la valida dimostrazione di Langlotz. È anche ovvio che negli ultimi decenni del VI sec. alcuni pittori, come quello di Priamo o quello Rycroft, continuino con vigore a coltivare la vecchia tecnica cercando di affrontare temi nuovi. Le scene di vendemmia con Satiri, di caccia, di Ninfe immerse in un giuoco entro un paesaggio lacustre, dimostrano bene questa tensione descrittiva nuova.
Lo stile a figure rosse. - La fase arcaica e severa. - Non si può ritenere, come è stato detto, che l'importante mutamento di tecniche che si verifica nell'ultimo quarto del VI sec. sia dovuto a influenze esterne, e cioè all'imitazione di tecniche di lavorazione dei metalli sperimentate in artigianati affini, come quello della toreutica in oggetti aurei (Vickers). È soprattutto la scarsa possibilità offerta dalla ormai ampiamente collaudata tecnica a figure nere sia per quello che riguarda la scelta cromatica sia per l'utilizzazione dello spazio che ha indotto gli artigiani del Ceramico a cercare nuove vie. E, del resto, questo è dimostrato dalla crescente attenzione rivolta, proprio nella seconda metà del VI sec., ai panneggi. Fra i pittori che adoperano ormai la doppia tecnica a figure nere e rosse è il Pittore di Andokides. Sembra invece ormai dimostrato che il Pittore di Lysippides, per il quale si era sostenuta la tesi di collaborazione con quello di Andokides, debba essere ritenuto una personalità diversa. Anche le scene a figure rosse su vasi bilingui di questo pittore non si riconoscono più come prodotti di quello di Andokides. Certamente le scene mitiche a figure rosse di quest'ultimo sembrano, malgrado un'esagerata ipervalutazione delle anfore di Parigi (con scena di lotta e citaredo) e di Berlino (pugilatori e contesa fra Apollo ed Eracle per il tripode), privilegiare i problemi cromatici, riempiendo con libertà le superfici di colore paonazzo e dando un risalto ai dettagli decorativi in nero (rosette, punti, stelle), ma soprattutto offrendo alla struttura delle figure maschili quel rilievo plastico che la scultura contemporanea coltivava nei kouroi. Risultano evidenti richiami alle figure quasi scultoree di Exekias. Infatti nella nuova tecnica a figure rosse la notazione anatomica diventa più sicura.
Non viene qui affrontato né il problema del mutamento della tecnica né tanto meno quello della cronologia, ma semplicemente riaffermata la cronologia tradizionale esposta in uno studio del Langlotz. Si intende invece sottolineare la differenza di impostazione stilistica delle figure rosse che subito inizia nel decennio fra il 520 e il 510 a.C., con i maestri che Beazley ha voluto indicare come «pionieri». Se è vero che al vasaio di Andokides risale il merito di avere dato alla forma dell'anfora (che già con Exekias era stata oggetto di scrupolosa attenzione) una sensibile linea curva e una riduzione di volume, che saranno subito recepite dal Pittore di Euthymides, da Phintias e da Euphronios, tuttavia le scene che i «pionieri» (dei quali il Pittore di Andokides è il notevole inizio) attingono dal patrimonio mitico del loro tempo saranno sentite con una sensibilità che qui non è ancora presente. I temi non sono molto diversi, ma la narrazione assume nella loro opera una drammaticità che il maestro ancora non aveva raggiunto. Si aggiunga che con loro ha inizio una nuova grande stagione delle coppe. Le ragioni di questa fioritura delle coppe più o meno sottili, dalla sagoma elegante indagata con finezza dal Bloesch, sono state sufficientemente approfondite. La frequente celebrazione dei simposi in questo scorcio di secolo, a suo tempo messa in evidenza dal Webster, e l'usanza delle acclamazioni degli amasi, che fin dalla grande analisi dello Hartwig ebbe giusto rilievo, sono note.
Fra i pittori bilingui che affollano la tradizione del Ceramico intorno ai due ultimi decenni del VI sec. non si devono tralasciare gli artisti del grande Gruppo di Leagros, così denominato dallo stratega della flotta ateniese che morì in battaglia a Drabesco, in Tracia, nel conflitto contro gli Edoni (Herodot., IX, 75; Thuc., I, 51). Si è calcolato che quest'ultimo, considerato coetaneo di Temistocle, sia nato intorno al 525 e sia scomparso a c.a 60 anni. La rigida definizione dei kalòi, acclamati sui vasi, dello Hartwig, non è più accolta. Non possono essere qui riassunti tutti gli argomenti sui kalòi, ma si rimanda alla voce specifica (v. vol. IV, p. 515), assai importante, e alla trattazione del problema sia da parte del Robinson (datata al 1937 ma ancor oggi accurata e acuta) che da parte del Webster; questi soprattutto mira a ricostruire la posizione sociale dei kalòi identificandoli con i «patroni» e cioè con i rappresentanti delle famiglie aristrocratiche. E se oggi, dopo il 1970, anno della pubblicazione del libro del Webster, qualche cifra in esso esposta può essere cambiata, è certo che il numero dei kalòi diminuisce con il V sec.; calcolato in 66 nel periodo 530-500, 51 in quello 500-475, un po' meno, 33 nel 475-50, 22 nel 450-425, e infine soltanto uno nel 425-400. La frequenza delle rappresentazioni degli efebi a cavallo è, indubbiamente, il segno di una certa aristocrazia legata alla bottega del vasaio che non trova invece rispondenza nella gioventù dell'ultimo quarto del V secolo.
Il Gruppo di Leagros a figure nere è stato anche in certo modo contestato in quanto la sua unità è poco chiara e le divisioni che il Beazley ha fatto non sono ancora accettate. E tuttavia, fra i tanti piccoli pittori bilingui si distinguono quello di Nikoxenos e quello di Eucharides, il primo considerato dal Beazley un predecessore del secondo. Per quanto riguarda lo stile a figure nere questo è ammissibile, ma per le figure rosse appare ormai evidente che quella del Pittore di Eucharides è una personalità ben più consistente di quanto apparisse all'epoca del Beazley. Il Pittore di Eucharides, tuttavia, nell'anfora di Amburgo con l'uccisione di Atteone, fatta conoscere dallo Hoffmann, appare sempre più uno fra i primi manieristi del secondo decennio del V sec., di poco forse anteriore a Myson. La conferma viene dall'anfora già nota di Copenaghen col nome dell'amasio Eucharides e soprattutto dall'anfora del Louvre con Apollo e Tityos; questa tradizione nelle figure rosse di panneggi stereotipati e con aspirazioni di grandezza monumentale, è suggerita forse da reminiscenze plastiche di frontoni arcaici. Ma sono i pittori citati come pionieri che contribuiscono in modo decisivo alla struttura narrativa della grande ceramica classica in questo periodo.
La critica non ha ancora elementi sufficienti per stabilire una cronologia relativa della serie rappresentata da Euphronios, Euthymides, Phintias, Epiktetos. Grande interesse si è creato intorno al primo, grazie alle recenti mostre che hanno stimolato studi puntuali. La cronologia relativa del pittore, anche se ancora non troppo determinata, attribuisce alla prima fase di attività il cratere a calice G 103 del Louvre da Caere, dove è raffigurata la lotta fra Eracle e Anteo (che si ripete anche su un altro cratere frammentario G 110 del Louvre di poco anteriore) con una violenza e una concentrazione di forme che è caratteristica predominante dell'artista. Alla concentrazione spasmodica di questo lato, accompagnata dalla concitata rappresentazione di figure femminili in fuga, corrisponde sul lato posteriore quella di una gara musicale in cui un flautista, Polykles, sta per salire sulla pedana per esibirsi. Un rendimento lievemente lezioso dei panneggi sembra richiamare, come ha già notato Langlotz, i rilievi dell'acropoli con scene sia di omaggio a divinità che di sacrificio. Il discorso su Euphronios potrebbe continuare a lungo, ma due fatti è necessario sottolineare. Il pittore decora vasi di grandi dimensioni e coppe di vasai come Euxitheos (crateri del Louvre G 33, di New York) e Kachrylion (coppa di Monaco con Eracle e Gerione, frammento di coppa del Louvre con Amazzone). Sui vasi di Euphronios, Leagros è acclamato con altri, ma è lui indubbiamente il più importante e il favorito. È una conferma che Euphronios opera soprattutto nell'ambiente il cui nucleo centrale è composto dalla jeunesse dorée della Atene dei figli di Pisistrato. Altro dato significativo è la frequenza delle rappresentazioni di giovani efebi in palestra, in diversi atteggiamenti che mostrano chiare relazioni con la scultura contemporanea; la struttura del gruppo di Eracle e Anteo, e la cura delle riproduzioni dei kouroi della palestra tradiscono l'interesse del pittore per la rappresentazione plastica.
È stato anche osservato che Eracle e Anteo sembrano ispirati a un gruppo frontonale, ed è vero. Basti pensare ai frammenti dei gruppi arcaici dell'acropoli studiati anni or sono dallo Schuchhardt. A queste considerazioni possono aggiungersi anche gli interessi cromatici del maestro che non esita, accanto alla netta linea di contorno della parte densa di pigmento dei panneggi e della parte campita in nero del fondo, ad adoperare anche il paonazzo e il rosso in diverse gradazioni. Il tema del trasporto di Sarpedonte da parte di Hypnos e Thanatos, raffigurato sul lato A del cratere di New York, era consueto negli anni intorno alla fine del VI e all'inizio del V sec. a.C. Lo dimostra quell'ignoto e non mediocre pittore che ha decorato quasi contemporaneamente un cratere a calice di Pezzino (presso Agrigento) con la scena, forse simbolicamente trasferita all'esaltazione di un valoroso combattente greco, in cui il corpo di un eroe (forse Patroclo) viene trasportato da due personaggi anonimi barbati, avvolto in una lussuosa coperta, mentre un giovane (Achille, al posto di Hermes) rende l'estremo saluto alle spoglie. il simbolico corteo è pervaso da una sorta di realismo trasfigurato che doveva sfumare in una situazione di ben più pungente attualità.
E di tutto questo, oggi si può affermare senza esitazioni, è responsabile la creazione apparsa sul cratere di New York. Su una coppa già nella Collezione Hemt esiste, pure di Euphronios e firmata, una scena assai simile di trasporto dell'eroe Sarpedonte; su un'altra coppa di Malibu, attribuitagli dal von Bothmer, il tema di Aiace che porta sulle spalle il cadavere di Achille, conferma l'interesse per il soggetto funerario ben noto sin dal vaso François. La coppa con Sarpedonte si considera oggi una delle prime opere di Euphronios e del vasaio Kachrylion. Euphronios è anche il vasaio di molti pittori a lui contemporanei. Fra le sue realizzazioni ceramiche si deve forse, a detta del Villard, attribuirgli la forma delle anfore con anse tortili, in quanto cinque su otto esemplari del periodo sono stati prodotti nella sua bottega.
Anche se il rivale di Euphronios, Euthymides, proclama orgogliosamente su un'anfora di Monaco che Euphronios non creò mai un vaso come il suo, «ώς ουδέποτε Εύφρόνιος», è certo che l'artigiano rivale, forse, non ha dato alla sua officina quell'impulso che Euphronios ha dimostrato ormai ampiamente di aver raggiunto. Anche lui è creatore di anfore in abbondanza, anche lui presenta scene di atleti e di armamento di guerrieri, mentre nelle scene mitiche, non numerose (Ettore ed Ecuba, Teseo e forse la ninfa Koronìs, lotta di Teseo contro Klytos), sembra più attento del suo contemporaneo all'immersione nello spazio delle figure, con un timido accenno anche allo scorcio, piuttosto che alle notazioni anatomiche, assai più precise in Euphronios. L'insistenza con la quale appaiono gli episèmata dei grandi scudi ha fatto pensare a eventuali contatti con gli Alcmeonidi. Come amasî sono acclamati Leagros e Megakles, zio di Pericle.
Phintias firma quattro vasi come pittore, e presenta un repertorio che non si discosta molto da quello dei suoi predecessori: due lotte fra Apollo ed Eracle per il tripode, Dioniso con satiri e menadi (uno dei satiri, dal volto pesante, è raffigurato in un vaso di Monaco). L'anfora di Tarquinia con la scena dionisiaca è forse fra le più antiche creazioni del pittore che rivela ancora in quelle figure, e soprattutto nel Dioniso, una forte aderenza ad Andokides, mentre negli altri vasi si avvicina di più a Euphronios. In un vecchio studio, ormai superato, lo Hoppin prese in esame le scene fino ad allora note individuando un particolare filone stilistico che, a suo parere, andava appunto da questi maestri fino al Pittore di Kleophrades (e, quindi, al Pittore di Berlino). È certo che con questi tre artisti e con tanti altri che il Beazley ha individuato (i pittori di Dikaios, di Gales, Smikros, ecc.), si profilano le principali caratteristiche del nuovo stile, e cioè una severa attenzione all'anatomia del nudo, un primissimo acuto inizio delle raffigurazioni dei corpi di scorcio, immersi nello spazio, della narrazione mitica, e, infine, una cura assolutamente nuova per la linea di contorno dei corpi.
La recente mostra della produzione di Euphronios ha avuto, fra tanti meriti, quello di mettere in risalto la figura di un suo immediato predecessore e contemporaneo, il pittore Oltos. Già il Johnson, nel passato, aveva segnalato le affinità di Oltos con Euphronios; la ripubblicazione della coppa del Louvre G 17 con la scena di danzatore con lira nel medaglione centrale, e con gli episodi di Eracle che si reca da Euristeo portando il cinghiale sulle spalle e della quadriga di Odisseo con Hermes, ha consentito maggiori confronti fra le figure di Callifobe e di Stenelo e certe figure in fuga del cratere del Louvre con Anteo. E se la straordinaria coppa di Tarquinia con l'assemblea degli dèi dimostra, ancora poco prima dei pionieri citati, una capacità di rendere diversi atteggiamenti dei personaggi con sensibilità attenta all'evento al quale assistono, non c'è dubbio che oggi siamo in grado di apprezzare meglio l'attività di Euphronios proprio attraverso Oltos, che sembra abbia dato lo spunto al discepolo nell'evocazione di miti greci non comuni.
Più si conosce Euphronios e più si constata che il suo contemporaneo, Onesimos, è anche il suo più attento discepolo, come già aveva evidenziato il Furtwängler. Le scene delle fatiche di Teseo sulla kỳlix G 104 del Louvre, firmata da Euphronios come vasaio, le figure del tondo centrale con l'eroe, Atena e Anfitrite, illustrano nella maniera più esauriente lo stile del pittore. Il dibattito sul problema del Pittore di Panaitios e del gruppo di coppe definito protopanaitian dal Beazley, oggi sembra attenuarsi in una più tranquilla attribuzione a Onesimos di un numero considerevole di coppe pertinenti a tale gruppo. E nella coppa B2 del Louvre sarà diffìcile negare il richiamo, sia pure banalizzato da un'imitazione pedissequa, al cavaliere denominato Leagros della coppa di Monaco. La grande coppa di Malibu, in passato notevolmente restaurata, con scena di Ilioupèrsis, firmata da Euphronios come vasaio (largh. mass, cm 46,5), conferma l'importanza di Onesimos nel decennio 500-490, periodo che coincide con la fase centrale dell'attività del suo maestro quale vasaio. Ma Onesimos spiega anche, meglio di ogni altro, il passaggio da Euphronios a Epiktetos. Un giovane efebo su una kỳlix di Berlino dove è rappresentato fra due cavalli rivela, nella struttura semplicissima del nudo di prospetto e nella testa di profilo dagli occhi allungati, molte affinità con i caratteri di Epiktetos.
Il nome di questo ceramografo fecondissimo, è stato detto, allude a un'origine, servile; l'ipotesi è verosimile in quanto l'etimologia del nome è collegata alla condizione sociale degli artigiani del Ceramico. Ma certamente l'ambiente dal quale traggono ispirazione le figure singole delle sue creazioni non è servile ma aristocratico. Lo dimostrano non solo i motivi di palestra, ma anche l'abbondanza delle officine vascolari che il pittore serve come decoratore (Hischylos, Nikosthenes, Pamphaios, Python e Pistoxenos). L'amasio acclamato, se pure raramente, è Ipparco, un nome celebre per quest'epoca, che ha fatto pensare al figlio di Pisistrato assassinato nel 514 a.C. E tuttavia, è forse preferibile identificarlo con l'omonimo arconte del 496, perché appare difficile attribuire quella coppa all'ultimo decennio del VI sec. a.C. La vasta produzione di Epiktetos sembra infatti che occupi i primi due decenni del V, ed è costituita quasi tutta da kỳlikes·, fanno eccezione dieci piatti o poco più, uno skỳphos, due kàntharoi, un cratere a calice e un'oinochòe. Preferisce pochissime figure solitarie, sia sulle coppe che nei tondi centrali dei piatti. Una sensibilità acuta per i contorni delle figure, una sicurezza di linea, una voluta mancanza di dettagli dei panneggi (sia che si tratti di figure maschili che femminili) rivelano una personalità indubbiamente legata, più che a Euphronios, a Euthymides, di cui non sembra condividere però la predilizione per la narrazione mitologica. Le sue figure, satiri e menadi, flautisti, etère, colte nei movimenti più caratteristici, rivelano anche un legame con la vecchia tecnica a figure nere che certamente ha coltivato, nell'ultimo decennio del VI sec., nei piatti e nei tondi centrali delle kỳlikes. È uno dei primi ad avvertire il fascino della rappresentazione di figure isolate che attrarrà un pittore di ben altre qualità artistiche, ossia quello di Berlino. Rapido interprete di difficili movimenti e atteggiamenti di personaggi attinti dalla mitologia ma anche, e soprattutto, dall'ambiente delle palestre, dei comasti o anche degli opliti della sua epoca, di frequente raffigura guerrieri armati di pelta, lo scudo amazzonico di tradizione orientale, forse conosciuto per contatti tra la Ionia e la Persia. A tal proposito si è visto in ciò una modifica delle tecniche belliche, con l'adozione di un corpo di peltasti che, come ausiliari, avrebbero avuto la funzione di supporto per i guerrieri con armi di offesa più diretta. Attento realizzatore della posizione di scorcio, Epiktetos continua, nella struttura delle coppe, la tradizione artigiana della scuola di Exekias.
Ma la famiglia dei pittori di kỳlikes non si arresta qui. Una triade occupa il primo trentennio del V sec. e domina il mercato delle coppe: quella costituita dal Pittore di Brygos, da Makron e da Douris; il primo è forse il più geniale. A lui si attribuiscono cinque coppe firmate dal ceramista, ma anche skyphoi, kàntharoi, lèkythoi, rhytà, oinochòai, e un piatto. Tuttavia, la sua fama è assicurata dalle coppe. Il suo nome potrebbe presupporre un'origine frigia, tenendo conto anche della variazione consonantica di phi in beta in alcune regioni greche, come p.es. la Tracia (invece di Phryges, Bryges). La sicurezza che egli abbia dipinto tutte le coppe che gli sono state attribuite non sembra ancora raggiunta, anche se la maggior parte di esse deve essergli ascritta; lo denunciano in parti- colar modo le cinque coppe con la formula dell'epòiesen. Altre coppe (nove) sembrano di pittori assai vicini (come il Pittore di Castelgiorgio e il Pittore di Briseide). Dopo Euphronios, è certamente il più originale creatore di scene figurate; in quel periodo vi furono altri artigiani attivi e originali, ma la vivacità e l'inventiva di alcune scene sono veramente uniche.
Un tentativo di disporre cronologicamente le opere più significative del Pittore di Brygos è stato compiuto, dopo la Richter, anche dal Cambitoglou che colloca nel periodo più arcaico, il decennio intorno al 490, la coppa di Londra E 68 con scene di banchettanti, quella di Würzburg con comasti all'esterno e all'interno il celebre tondo con l'efebo che rimette il vino, nonché lo skỳphos di Vienna con riscatto di Ettore, per taluni richiami anche ai panneggi femminili di Euthymides.
È stata tuttavia notata la fedeltà al testo omerico (//., XXIV, 411-413; 477-479) per quanto riguarda l'episodio del riscatto di Ettore e della supplica di Priamo ad Achille sullo skỳphos viennese. La potenza espressiva si concentra tutta, nelle scene dionisiache e nei kòmoi, in movimenti agitati e complessi in cui l'ebbrezza è resa in maniera assai vicina a quella offerta dalle composizioni del Pittore di Kleophrades suo contemporaneo. Nella tarda attività il pittore diventa più sommario e superficiale, come dimostra la menade danzante col braccio sinistro teso in una kỳlix berlinese, e soprattutto il tondo centrale di una coppa di Manchester con raffigurazione di un comasta ebbro con le braccia rivolte verso il basso sotto il mantello. Ma anche in questa occasione il pittore non manca di concentrare,; sia pure con minore attenzione ai dettagli del panneggio, l'effetto principale nell'equilibrio instabile del personaggio. L'inventiva del Pittore di Brygos non si limita alle scene di ebbrezza pur famose, ma affronta anche temi mitologici estremamente rari e curiosi, per i quali non sembra estraneo un richiamo al teatro. In due casi, almeno, si avvertono echi del dramma satiresco: sulla coppa del Vaticano con l'episodio dei buoi rubati ad Apollo dall'intraprendente Hermes, tenero fanciullo accovacciato col suo piccolo petaso entro la culla, mentre la madre Maia lo indica allo stupefatto Apollo che trafelato accorre a reclamare per il furto subito. L'altro episodio è quello, forse più noto figurativamente, di Hera assalita dai sileni. Sulla coppa E65 di Londra la dea è difesa dall'assalto di quattro sileni da Hermes con il caduceo e da Eracle in brache scitiche che accorre roteando la clava. Sul lato opposto l'assalto è condotto in un santuario contro Iride alata e messaggera divina e l'ara è interpretata dalla Bieber come un particolare della scenografia di un dramma satiresco.
Concludendo la rassegna delle sue creazioni, occorre ricordare la coppa 2293 di Berlino nel cui tondo centrale appare Selene su una quadriga di prospetto, e sono raffigurate la luna piena in alto (che taglia, in parte, il bordo decorato) e le stelle poco al di sopra del capo della dea. All'esterno una complessa scena di gigantomachia. Qui il Pittore di Brygos, come più tardi, al tempo di Fidia, faranno i ceramisti della metà e seconda metà del V sec., si ispira a descrizioni della lotta fra dei e giganti già adottate in campo letterario a partire dal VII e VI sec. ed elaborate figurativamente su monumenti arcaici (come il fregio del Tesoro dei Sifni a Delfi). Nella coppa berlinese è probabile che la quadriga della dea vada verso il basso, secondo una convenzione che ricomparirà sul frontone orientale del Partenone. L'interesse per questo pittore è determinato anche dal fatto che egli, insieme ad alcuni suoi contemporanei, appare come il più colto e acuto illustratore degli ambienti culturali ateniesi dei primi tre decenni del V sec., e cioè della nuova democrazia ateniese fra Clistene e Cimone.
Il secondo pittore di coppe è Makron. La sua firma compare accanto a quella del vasaio Hieron su uno skỳphos di Boston e, forse (ma il nome è frammentario) su una coppa di Atene. Comunque molte delle coppe firmate da Hieron sono attribuibili con sicurezza a Makron per motivi stilistici. Uno stile che, indubbiamente, ricorda quello del Pittore di Brygos, anche per gli abbondanti episodi dionisiaci, per la forma delle coppe e per la scelta dei pochi soggetti mitologici, che paiono conservare tutto il sapore letterario di quell'età degli amasi e della gioventù degli inizi del V secolo. Lo skỳphos firmato di Boston (da Suessula) affronta il tema del ratto di Elena perpetrato alla presenza di Afrodite e di Eros; il tema del ratto ha un vigore simile a quello che il Pittore di Brygos infonde nelle sue creazioni più riuscite. Lo skỳphos londinese E 140 da Capua conserva la memoria della fondazione dei misteri eleusini nell'apparizione di Trittolemo sul carro alato che compie il rituale della libazione con Persefone, mentre Demetra sta dietro di lui con le spighe e la torcia. Assiste la personificazione di Eleusi, nelle sembianze di una giovinetta velata. Sotto le anse, da un lato è situata la figura di Posidone protettore di Eumolpo, il sacerdote eleusino nonché cantore e musico, fiancheggiato infatti da un cigno. La Simon ritiene di poter vedere nella presenza di Posidone e, soprattutto, di Demetra, con i delfini riprodotti sull'imàtion della dea, l'allusione alla battaglia di Salamina in cui i Greci furono protetti, appunto, dal dio del mare e da Demetra. La coppa di Berlino da Vulci mostra una scena del culto di Dioniso Leneo, il cui idolo ligneo è riprodotto accanto all'ara, mentre tre menadi danzano in estasi, ebbre. Sotto l'ansa di sinistra è un cratere a colonnette e, sul retro, una menade con uno skỳphos danzante con un Sileno, raffigurato a figure nere fra palmette. Lo spirito del Pittore di Brygos è certamente presente, e le menadi ebbre ricordano quelle del Pittore di Kleophrades. Infine la coppa a Villa Giulia con scene di kòmos con danzatori, flautista e citaredo, rievoca quella stessa atmosfera dionisiaca così frequente nell'officina: il dio medesimo danza con cornucopia e tirso nel tondo centrale. Gli amasî del pittore sono Hippodamas, Praxiteles, Antiphanes addirittura designato come kàllistos, mentre non mancano nomi di donne come Rhodopis, Nauklea e Melitta. La produzione scende nel decennio 480-470; la creazione di figure panneggiate in stile severo è forse l'aspetto più originale di questo pittore.
Il terzo pittore vascolare, altrettanto importante per capire la cultura figurativa degli artigiani del Ceramico al fiorire della democrazia ateniese, è Douris. Questi riassume le caratteristiche tecniche e figurative della pittura vascolare del primo trentennio del V sec., crea più di 250 coppe e pochissimi skyphoi e lèkythoi. I vasai di cui decora i prodotti sono Python, Kleophrades, Kalliades, e perfino Euphronios nella fase tarda della sua attività di vasaio. Firma una trentina di vasi come pittore, uno come vasaio (aryballos di Atene) e un altro come vasaio e pittore (kànharos di Bruxelles). I suoi amasî noti anche da altri ceramisti, sono numerosi: oltre a Chairestratos e Hippodamas, si ricorda Polyphrasmon (forse il figlio del tragediografo Frinico, ben noto per avere gareggiato con Eschilo). Un'onomastica che si ripete nella produzione di pittori e vasai dell'epoca e che ha dato luogo a tentativi di identificazione con personaggi noti del tempo. Ma alcuni studiosi sono scettici riguardo tali tentativi in quanto si tratta di nomi piuttosto diffusi nella prima metà del V sec. a.C.
La produzione del pittore propone sia vicende mitologiche che scene di vita quotidiana: colloqui fra giovani efebi, kòmoi, temi derivati dalla scuola, un'attenzione, insomma, più spiccata alla vita associata dell'Atene prepericlea. Fra le coppe più famose è la G 115 del Louvre dove, nell'interno, è raffigurata la deposizione, o meglio, la rimozione del corpo del defunto eroe etiopico Memnon da parte della madre Eos, l'aurora, che presto lo solleverà per portarlo in patria e seppellirlo. Opera del vasaio Kalliades essa rivela lo stile già maturo del pittore, attento ai dettagli essenziali del racconto, teso a rendere i panneggi secondo gli schemi dello stile severo avanzato e nello stesso tempo a esprimere una contenuta commozione. All'esterno, due episodi della lotta fra eroi greci e troiani: da un lato Aiace ed Ettore protetti dalla presenza di Atena e Apollo; dall'altro Menelao e Alessandro (Paride) protetti da Hera e, secondo una recente ipotesi, da Afrodite (manca il nome della dea). Gli schemi di lotta sono desunti dalle amazzonomachie e dalle gigantomachie; ma la presenza delle divinità protettrici sembra suggerire un'aderenza anche ai testi dei poemi omerici che tradisce l'atmosfera colta dell'ambiente in cui opera il pittore. Il tema dell'amazzonomachia che viene proposto di frequente nella ceramica sia a figure nere che successiva, è invece affrontato raramente da Douris. Una di queste occasioni è costituita dal complesso kàntharos di Bruxelles ove Eracle, al centro, sta per abbattere l'avversaria, mentre un'altra cerca di colpirlo con l'arco e una terza lo fronteggia invano con la spada; dall'altro lato il compagno di Eracle, Telamone, assale un'amazzone caduta in ginocchio mentre ne accorrono altre due. È questo l'unico kàntharos eseguito dal pittore, che ripete per due volte il suo nome, con l'indicazione dell'esecuzione come pittore e come vasaio (ègrapsen, epòiesen) di cui sembra particolarmente orgoglioso. Su un aryballos ateniese invece si firma una sola volta come vasaio.
Si ricordano qui altre due coppe del periodo più tardo. La prima è quella famosa del Vaticano da Caere con Atena nel medaglione centrale in atto di osservare Giasone che esce dalle fauci del drago, motivo rarissimo e unico in Douris. La figura sottile e implacabile di Atena che indossa un chitone a fittissime pieghe e un elegante himàtion sul quale spiccano gli elementi decorativi dell'egida, contrasta con l'immagine del mostro da cui esce il corpo arcuato di Giasone. Sul lato esterno sono raffigurati giovani a colloquio in atteggiamenti affettuosi. Alcuni di essi recano un ramo che termina in palmetta. L'altra coppa del Cabinet des Médailles, con Hera e Prometeo al centro, all'esterno il ritorno di Efesto all'Olimpo accompagnato da sileni, da una menade volteggiante al centro e dal dio Dioniso che lo trae a sé in atteggiamento premuroso, mentre sul lato opposto è reso un animatissimo kòmos con gruppi danzanti di suonatori e bevitori, appartiene alla fase finale della produzione e rivela un mutamento di stile, quasi un ritorno a un certo manierismo. Le scene di educazione musicale e di lettura (coppa di Berlino), di danza e in genere di vita quotidiana attestano la ricchezza di motivi attinti dal pittore anche al di fuori dell'ambito religioso e dell'evocazione mitica.
Due grandi artigiani concludono la fase dello stile severo in Grecia: il Pittore di Kleophrades e il Pittore di Berlino, dei quali non si conosce con sicurezza il vero nome. Infatti per il primo, come si vedrà, è stata avanzata un'ipotesi che non ha ricevuto, almeno per ora, unanimità di consensi. Il tentativo di denominazione più precisa fa capo allo Hartwig che, in base all'esame dell'epigrafe sulla coppa tarquiniese del Louvre con Amazzonomachia di Eracle, dedusse che vi fosse indicato il nome del padre di Kleophrades, Amasis, e addirittura propose di chiamare il nostro pittore Amasis II. Naturalmente, per spiegare questo incerto patronimico si andò alla ricerca di caratteristiche ioniche nella maniera del pittore che, francamente, non si riescono a rintracciare. L'epigrafe della coppa di Parigi risulta divisa in due grandi frammenti (535 e 699) nel punto in cui rivela una lacuna dopo ΑΜΑΣ. Nella storia della ricerca sul Pittore di Kleophrades, iniziata abbastanza presto con lo Hartwig e lo Hoppin, è stato sempre sottolineato il legame con Euthymides, fino a confondere talvolta le opere dei due maestri. Anche in questo caso il Beazley, nell'importante monografia su Kleophrades ha chiarito ogni possibile dubbio.
Le forme predilette dal pittore sono, come per Euthymides, anfore, un'anfora a punta, crateri a calice e con volute, pelìkai, stàmnoi, una loutrophòros, psyktères, skyphoi, un numero limitato di coppe. I temi mitici sono abbondanti, ma compaiono anche scene di palestra, di atletica, secondo il gusto del tempo. Tre elementi fondamentali caratterizzano i prodotti migliori; l'esattezza del disegno, la grandiosità delle figure e delle scene e un'intensità tragica che ancora non era stata raggiunta su grandi vasi, ma che richiama il Pittore di Brygos. Le sue rappresentazioni drammatiche sembrano continuare una tradizione compositiva che gli viene dalla più schietta tradizione dell'officina di Euphronios, ma che egli traduce con un'abilità nel disegno più aderente alla valorizzazione delle strutture plastiche tipica del periodo che va da Temistocle a Cimone, e soprattutto vicina alle prime imprese di una pittura parietale appena agli albori. Il Pittore dei Niobidi, grande traduttore sui vasi di scene certamente polignotee, non si comprende senza il precedente del Pittore di Kleophrades nel quale tuttavia si avverte la tensione drammatica insita in questa genuina e, ormai, libera interpretazione di certe tendenze dell'arcaismo, pervasa ancora da un certo scabro primitivismo. I grandi occhi dalle pupille spalancate di Dioniso, dei sileni, delle menadi, degli eroi, con l'iride resa da un cerchio e con vernice condensata di color bruno-marrone, sono ancora sulla direttrice di Euphronios, ma rivelano un'intensità inusitata.
Il capolavoro, l'anfora a punta di Monaco 2344, presenta insospettate finezze cromatiche nella trattazione dei capelli, in paonazzo diluito con pennellate brune, di un'estatica menade dalle labbra appena dischiuse, mentre l'ardita rappresentazione di prospetto del sileno dal volto selvaggiamente grinzoso, è un significativo precedente dei centauri delle metope partenoniche. Sul collo di quest'anfora sono episodi di palestra, di atleti che si preparano col disco o col giavellotto, un tema prediletto da questo pittore anche nella sua fase più tarda, e in seguito presente nelle opere del Pittore di Berlino.
Numerose sono le scene concernenti le fatiche di Eracle e Teseo; il Pittore di Kleophrades conserva elementi dello stile a figure nere che ancora coltiva; tanto è vero che non solo produce anfore panatenaiche in quella tecnica (famose quelle di una ben nota tomba di Taranto), ma conserva anche nella decorazione di vasi a figure rosse certi elementi propri della vecchia soluzione stilistica inseriti volutamente, p.es., sul cratere a calice tarquiniese con scena di lanciatore di disco e di lanciatore di giavellotto istruiti dal maestro. Anche il Pittore di Berlino, suo diretto continuatore, decorerà anfore panatenaiche.
Ma l'idria Vivenzio, ora a Napoli, rappresenta una scena di Ilioupèrsis unica nel suo genere perché fonde la narrazione dell'evento (e cioè l'assalto e la profanazione del Santuario di Atena Iliàs) con la violenza su Cassandra e su Priamo (che si copre con le braccia il capo in atteggiamento disperato, come le altre figure dolenti all'estremità destra). La presenza di Aithra, madre di Teseo, accanto ai figli Akamas e Demophon, è un rarissimo episodio che collega volutamente la drammaticità tradizionale dell'avvenimento con il perpetuarsi di culti tipicamente attici. Forse non è mai stato sottolineato il collegamento tra la distruzione di Ilio e l'Attica, e quindi è legittima l'ipotesi che questa scena sia stata ispirata da una pittura parietale della tarda età cimoniana. Altre caratteristiche di questo pittore emergono dalla stupenda, anche se frammentaria, loutrophòros del Louvre dall'Attica, che sul collo del lato principale rappresenta due lamentatrici, una delle quali porta una loutrophòros, mentre al di sotto sono quattro donne che attorniano il letto funebre sul quale è steso un giovane defunto dagli occhi chiusi. Straordinaria è anche qui l'intensità commossa delle figure intorno al letto, sottolineata anche dalla maestosità dei panneggi. I dettagli decorativi in nero sono particolarmente interessanti e la sinuosa linea verticale e orizzontale in bianco ricorda chiaramente il serpente, che anche nelle anfore di stile geometrico appariva simbolo funerario. Una scena in nero di cavalieri in corsa serve a ricordare forse episodi convenzionali di addio al defunto. Le rosette in colore bianco (colore anch'esso funerario) accentuano l'aspetto rituale di queste scene.
L'ipotesi che il pittore si chiamasse Epiktetos è stata sostenuta da G. M. A. Richter nel 1936 sulla base di una pelìke di Berlino in cui, per due volte, il nome Epiktetos è ripetuto accanto alla rappresentazione di una dea. Ormai quest'ipotesi, per quanto seducente, deve essere abbandonata: l'iscrizione, infatti, come ha dimostrato U. Gehrig, è moderna. Risulta chiaro invece come la ricerca della Schnitzler, del 1955, abbia tentato di esaminare in maniera più concreta l'aspetto artistico del pittore, la cui formazione, secondo tale studio, sembra doversi considerare più peloponnesiaca che attica e, quindi, egli potrebbe essere un corinzio. La Schnitzler evidenzia gli elementi di confronto esistenti fra le figure giovanili di Kleophrades e la scultura peloponnesiaca, richiamando l'Apollo di Olimpia e i centauri del frontone occidentale del Tempio di Zeus, nonché il gruppo fittile di Zeus e Ganimede anch'esso a Olimpia. I richiami culturali proposti dalla Schnitzler non sono inoltre da sottovalutare per comprendere la particolare struttura delle figure rese da Kleophrades con slancio davvero originale.
Il pittore a lui più vicino, si è detto, è il Pittore di Berlino. L'identificazione parte da una modesta anfora dell'artigiano dove è raffigurato un citaredo. Il Beazley, in un articolo ormai di importanza storica per l'impostazione del suo metodo di ascendenza morelliana, ne definiva magistralmente lo stile partendo dall'analisi del citaredo su un'anfora della Collezione Hearst (ora a New York) confrontato dapprima con la nota anfora di Berlino 2160 da Vulci e in seguito con una lunga serie di opere (ben 135). La conclusione è che «la delicata grazia delle sue figure non ha nulla di pesante o di gonfio: il loro fascino è come quello della gioventù e del tempo primaverile». La sua attività, che oggi si tende a far risalire anche all'ultimo decennio del VI sec., arriva fino al 470 a.C. circa o poco dopo. Le forme predilette sono i crateri di ogni tipo, da quello a calice a quello a campana, anfore a collo, di tipo nolano, pelìkai, poche coppe, crateri con volute, stàmnoi oinochòai, idrie, kelèbai, anfore panatenaiche, lèkythoi. Un pittore ancora legato all'arcaismo attraverso le interpretazioni sia di pionieri come Phintias, sia di evoluti rappresentanti di una notevole libertà stilistica ed espressiva come il Pittore di Kleophrades. Più che allo stile di Epiktetos (richiamato non tanto per lo studio della muscolatura quanto per la preferenza accordata alle figure isolate), la sua ricerca degli effetti del movimento atletico o dionisiaco è stata appunto avvicinata a quella di Euthymides e di Phintias. Lo studio del nudo, dei muscoli, dei tendini, delle vene diventa quasi ossessivo; e non per nulla si è richiamata l'attenzione sulla scultura coeva al pittore, i kouroi e le korai della tarda età severa. Tra gli amasi acclamati ricorrono i nomi di Sokrates, Nikostratos, Krates, Alkmeon.
Le sue figure divine campeggiano spesso isolate o soltanto impiantate su un piccolo elegante fregio a decorazione geometrica. E sono Atena, Zeus, Apollo, Artemide, Eracle, Dioniso, Demetra, Sileno, Centauro. Sull'anfora di Berlino da un lato è il dio Hermes in primo piano, col petaso alato, i calzari alati,l'oinochòe in una mano e il kerykèion nell'altra; al suo fianco il satiro Oreimachos che tiene la cetra nella sinistra e ne tocca le corde. In mezzo a loro un cerbiatto a evocare un ambiente montano e selvaggio. Dall'altro il satiro Orochares tiene il bàrbiton o cetra con la sinistra e con la destra regge il vacillante kàntharos che dal suo atteggiamento poco stabile dobbiamo supporre pieno. Sottili allusioni che hanno fatto pensare che qui si voglia evocare il ben noto ritorno di Efesto all'Olimpo. Il fatto che i singoli personaggi, valorizzati nel loro isolamento, alludano sempre a una vicenda più complessa è confermato dall'analisi di molte scene raffigurate dal pittore, veri e propri estratti di narrazioni mitiche. Ciò vale per il cratere tarquiniese con Europa e il toro da un lato e Europa inseguita da Zeus sul lato opposto, e per il cratere G 715 del Louvre con Zeus da un lato che insegue e Ganimede dall'altro che corre col suo cerchio; e, infine, non è da escludere affatto che le due figure isolate di Atena da un lato e di Eracle dall'altro sul cratere di Basilea, si riferiscano all'apoteosi dell'eroe. Nella trattazione dei dettagli anatomici (gambe, muscoli, tendini, vene, braccia relativamente sottili) viene usato spesso il rosso diluito e viene sfumato, come aveva del resto già fatto il Pittore di Kleophrades, il colore nella massa dei capelli (così è per la testa di Ganimede). La delicatezza delle sue lèkythoi è diventata un elemento distintivo della sua officina; su di esse, data anche la loro piccola dimensione, il pittore disegna delicate figure di Nikai, satiri, efebi, danzatrici, divinità con fiaccola, ecc. Tali lèkythoi (e anche quelle dei suoi seguaci) sono particolarmente diffuse in Sicilia a Gela.
Alla fine della sua densa attività non sempre la qualità rimane di alto livello; è un fatto che si constata anche in molti prodotti di notevoli pittori del Ceramico (Pittore di Achille, Pittore di Pentesilea, ecc.). La massa della produzione rende necessaria l'introduzione di aiuti per soddisfare le esigenze sempre crescenti dei clienti.
Prima di abbandonare questi due o tre decenni iniziali del V sec., teatro di eventi politici e culturali essenziali, sarà opportuno ricordare come in questi anni si affermi una forma di esasperato manierismo sorprendente in un'epoca caratterizzata da tanta tensione creativa. Rappresentanti di questa corrente formale non sono tanto i molti ceramisti minori dell'epoca, ma due figure di rilievo, e cioè Myson e il Pittore di Pan. Il primo firma quale pittore e vasaio una kelèbe con Atena e un efebo dalla quale sono derivate le attribuzioni del Beazley giunte oggi a più di 50. La più celebre, per il suo carattere storico è la kelèbe da Vulci G 197 del Louvre, che raffigura il re Creso (il cui nome è dipinto) incoronato e seduto su un trono riccamente ornato. Lo schiavo dal corto chitone annodato ai fianchi che si china ad attizzare il fuoco è denominato Euthymos. Dell'episodio del re lidio che voleva in tal modo espiare la sconfitta inflittagli da Ciro nel 547, esistono diverse versioni, una riferita da Erodoto (1, 86) e un'altra che risale a Pindaro e Bacchilide (Carm., III, 23 ss.). L'iscrizione dei nomi ha fatto pensare alla possibile connessione fra la scena e una fonte letteraria; certamente non Bacchilide, la cui ode è databile verso il 468. E d'altra parte nella raffigurazione non esiste alcuna allusione (come ci si potrebbe attendere) né al santuario di Delfi, di cui il re fu generoso patrono, né ad Apollo che secondo altra versione, lo avrebbe salvato da sicura morte. Si può ipotizzare dunque l'esistenza di una fonte non ancora individuata (non è da escludere forse Stesicoro) alla base di questa scena, semplice ma toccante, che mostra il proposito suicida di Creso. Sull'altro lato è il ratto di Antiope, regina delle amazzoni, da parte di Teseo. Una Amazzonomachia in cui il costume attico ha prevalenza assoluta anche su quello solito delle amazzoni (si noti l'elmo dell'eroina) e dove i panneggi preziosamente elaborati appaiono leziosi; più ancora, i profili dei volti delle amazzoni e degli eroi (Teseo e Piritoo, Creso) conservano i caratteri dei pionieri, specialmente di Phintias. Altri manieristi sono il Pittore di Diogenes, quello di Syleus, Gailatin e molti altri. Ma il fenomeno del manierismo, e cioè l'accentuazione di certi caratteri stilistici di sapore arcaico, è più complesso ed evidente nel Pittore di Pan.
Questi è un fecondissimo decoratore di vasi di dimensioni medie e grandi: crateri a calice, a campana, a colonnette, idrie, pelìkai, psyktères, oinochòai, lèkythoi, skyphoi, poche coppe, un kàntharos. Viene chiamato così dal cratere a campana di Boston, proveniente da Cuma, con anse a orecchia rivolte obliquamente verso il basso. La forma è ancora arcaizzante, e anche per questo sembra che il vaso sia da collocare al più tardi al 470 a.C. Su un lato la scena di Pan che, con fallo eretto, rincorre un pastore con copricapo a cuffia, di pelo, che fugge indossando una corta exomìs di pelle dalle larghe pieghe; sul fondo a destra un'erma assai probabilmente di Priapo. Una versione del mito, che sembra di origine siceliota (e se ne ipotizza la prima testimonianza in un'opera di Stesicoro) parla di una ninfa che lo avrebbe generato da Hermes e depositato presso l'Imera. Il dio ha un copricapo a testa di capro e protende le braccia per afferrare il pastore che guarda indietro intimorito brandendo invano una frusta che userà come difesa. Sul lato opposto Artemide (siamo sempre in ambiente pastorale), che indossa un lungo chitone sul quale è gettato un corto himàtion, punta una delle sue micidiali frecce dall'arco teso; un volto quasi infantile, incorniciato da lunghi capelli raccolti sulle spalle e sporgenti ai lati del volto al di sotto di una sottile tenia, in uno schema che ritroviamo in teste peloponnesiache, e corinzie in genere, di stile severo. Atteone assalito da quattro cani è caduto in ginocchio, e il suo chitone con orli neri assai accentuati a linea spezzata scivola mostrando il corpo quasi adolescenziale nudo. In questa rappresentazione nessun accenno alla metamorfosi del cacciatore in cervo: il pittore resta fedele a una tradizione arcaica che ben presto si evolverà. Il bel nudo del giovane si scopre a poco a poco, e ha (fatta eccezione per il diverso sesso) quasi la parvenza del torso di Cassandra sull'idria Vivenzio del Pittore di Kleophrades. Una lèkythos da Gela, pure a Boston, rappresenta un cacciatore armato di spada e akòntia o giavellotti, che, a passi veloci, sta dirigendosi a destra col suo cane al fianco. Effettuando un confronto con uno skỳphos frammentario ateniese in cui è raffigurata la stessa scena, ma dove si può cogliere il particolare di una mano nell'atto di afferrare la spalla del cacciatore (probabile indizio di una scena di inseguimento), il Beazley ha dedotto che in entrambi i casi è stato riproposto il medesimo schema figurativo con Cefalo inseguito da Eos. Frequente è la presenza di cani da caccia nella produzione del pittore. Opera del Pittore di Pan è anche un famoso psyktèr, portato da Agrigento a Monaco nel secolo scorso; in esso Apollo e Idas si contendono Marpessa, alla presenza di Artemide, Hermes, Zeus, probabilmente Leto (e non Hera) e del padre di Marpessa, il dio fluviale dell'Etolia, Euenos. Fra Apollo, che sta per scoccare l'arco, e Artemide è una piccola cerva che volge il muso. Ancora un mito legato al tema della caccia, o, comunque, a leggende di origine settentrionale; così è per l'inseguimento di una donna tracia sulla kelèbe, pure agrigentina, di Monaco. Una trattazione minuta e indistinta di panneggi ampi a sottili pieghe, ma con grandi orli serpeggianti rivela quanto questo pittore si concentri in effetti decorativi di maniera, in cui la severità delle forme è ormai soltanto un ricordo. Ecco perché si debbono porre questi due ultimi vasi fra le opere più tarde, databili fra il 460 e il 450 a.C.
La prima fase classica. - Anche se è sempre prudente, quando si affronta la storia di un artigianato greco ancora affidato a elementi talora incerti dovuti alla labilità delle cronologie, non costruire assiomi stilistici che potrebbero essere smentiti dalle scoperte ulteriori, la produzione del Pittore di Pan si può considerare l'ultima manifestazione nella ceramica attica dello stile severo. Si è parlato dell'aspetto manieristico delle sue espressioni figurative; e si vedrà come anche alla fine del V sec. si afferma, per breve tempo, un nuovo manierismo, che sorge dal grande ceppo dell'arte di Fidia e della sua scuola. Ma il Pittore di Pan rappresenta, appunto per quell'altalenante ritorno alla severità dello stile e l'insistenza nel proporre elementi decorativi e strutturali del corpo umano (caratteristici, a livello formale, della «maniera»), l'ultimo traguardo di quel gusto severo. Ultimo, ma non per questo non coevo di altri pittori che negli stessi anni, fra il 470 e il 450 a.C. si dirigono verso altre mete, senza cioè ripiegarsi su se medesimi esagerando o elaborando schemi del vecchio stile arcaico, dal quale non osano staccarsi. Le sequenze stilistiche di Beazley (per le quali v. più avanti), hanno il merito di aver lasciato un margine temporale che a mano a mano verrà restringendosi col procedere delle scoperte, soprattutto stratigrafiche, nelle grandi città e necropoli della Grecia classica. Ecco perché si insiste per ora nel considerare il Pittore di Pan legato allo stile severo, e quasi uno spartiacque rispetto al grande fiume dello stile classico; mentre altri artisti, suoi quasi contemporanei, esprimono diversamente i loro ideali formali e disegnativi secondo principi che siamo soliti definire classici, ossia raggiungendo equilibri e armonie fino a questo momento inusitati.
Il Pittore di Altamura e il Pittore dei Niobidi. - Mentre il principale pittore, quello dei Niobidi (così denominato dal cratere a calice G 341 del Louvre), sembra essere attivo nel ventennio fra il 470 e il 450 a.C. (secondo le recenti e minute considerazioni del Prange), il Pittore di Altamura (distinto in un secondo tempo dal precedente) avrebbe operato nel decennio 470-460 a.C. La sua attività si dividerebbe in tre fasi. Il Pittore di Blenheim (chiamato così da un cratere a volute della Collezione Blenheim di Marlborough) si collocherebbe tra il Pittore di Altamura e il Pittore dei Niobidi. Il Beazley anzi pensava che i pochi vasi a lui attribuiti, sei in tutto, fossero addirittura del tardo periodo del Pittore di Altamura, la cui produzione, all'epoca dello studioso composta da 78 vasi, ne comprende oggi 108. Mentre la produzione del Pittore dei Niobidi è oggi costituita da 130 vasi, rispetto ai 101 individuati dal Beazley. Come si vede, diversi rinvenimenti hanno mutato il rapporto proporzionale tra i prodotti di questi pittori; ma non sembra, anche dopo la diligentissima, analitica e quasi estenuante ricerca del Prange, che il giudizio su questa officina abbia subito grandi variazioni. Si deve ancora aggiungere un gruppo imponente di vasi, 105, della maniera del pittore principale e di artigiani a lui assai vicini (e cioè i Pittori di Bologna 279, dei Satiri Lanosi, il Pittore di Ginevra, il Pittore della Idria di Berlino, il Pittore Spreckel). In generale prevalgono vasi di grandi dimensioni, e cioè crateri con volute a calice, a campana, pelìkai, stàmnoi, anfore, idrie, oinochòai, due loutrophòroi, un dìnas, pochi vasi piccoli, tre lekanìdes. I grandi crateri a volute variano da 45 cm di altezza a 83 cm.
Le considerazioni che si possono trarre da un esame della produzione sono molteplici. Anzitutto la conferma che qualche cosa è profondamente mutato nei contenuti figurativi; la dimensione considerevole dei vasi e la grandiosità delle scene rivelano una derivazione da un nuovo tipo di pittura, caratteristica di Atene dopo Maratona e Salamina. Beazley e, ben prima di lui, agli inizi del secolo scorso, Goethe e poi il Robert e tanti studiosi contemporanei, hanno cercato di identificare le fonti figurative delle scene mitologiche così frequenti nell'iconografia della ceramica del tempo. Delle grandi raffigurazioni dell'Amazzonomachia, della Centauromachia, della Ilioupèrsis, che decoravano le pareti degli edifici più celebri di Atene dei tempi di Cimone e di Pericle, si può cogliere qualche eco nelle scene dei crateri del Pittore dei Niobidi. Ma ancora la ricerca sul terreno non ha offerto (e probabilmente non sarà più possibile ottenerli) i dati cronologici che tanto sarebbero stati auspicabili sulla Lesche degli Cnidì dipinta da Polygnotos di Taso a Delfi con scene della Ilioupèrsis e dell'Odissea. Ma soprattutto ad Atene, la Stoà Poikìle e il Thesèion restano tuttora fertile terreno per congetture e per tentativi di ricostruzione delle megalografie parietali di Polygnotos e di Mikon. Si pensi agli sforzi interessanti, ma senza grandi risultati, del Barrow. Del Pittore di Altamura si ricorda il cratere a volute con la consegna del piccolo Dioniso da parte di Zeus alle ninfe di Nysa perché lo custodiscano nascondendolo a Hera, mentre una ninfa con pantera sulla spalla sinistra potrebbe essere identificata con Dione, che fu nutrice del piccolo dio. Lo stile è solenne, e nello stesso tempo illeggiadrito dai gesti preziosi delle figure femminili tutte comprese del carattere sacro del momento: uno stile ancora severo nelle linee dei panneggi dorici. L'altro cratere dello stesso pittore e proveniente anch'esso dalla necropoli di Spina (ma da una tomba diversa) rappresenta una scena dionisiaca interessante. È stato detto, con scarsa verosimiglianza, che il dio, seduto solennemente con tirso, sarebbe Dioniso, e che il fanciullo, sulle sue ginocchia e con kàntharos, rappresenterebbe il piccolo Oinopion, simbolo della vite e del vino. Probabilmente la Simon ha offerto la più giusta interpretazione: non è il poco significativo Oinopion, della cui comparsa le probabili Ilizie che assistono non avevano ragione di meravigliarsi, ma è Dioniso stesso che viene accolto da Zeus nel momento della sua stupefacente nascita. Zeus siede sulla pelle ferina e tiene il tirso, simboli che consegnerà al bambino balzato sulle sue ginocchia. Si tratta dunque di una prolessi divina. Anche qui i caratteri stilistici richiamano - nei volti, nei panneggi, nelle strutture - quella tradizione severizzante tipica della scuola del Pittore di Berlino, nella cui officina ha iniziato la sua attività il Pittore dei Niobidi. Ma la distinzione fra il Pittore di Altamura e quello dei Niobidi appare ancora perfettamente plausibile, soprattutto per l'intensità del carattere monumentale (si potrebbe dire «parietale») delle scene di quest'ultimo.
Magico ancora nelle sue complicazioni esegetiche resta il cratere a calice G 341 del Louvre, proveniente da Orvieto, dal quale il Pittore dei Niobidi ha ricevuto il nome. I Niobidi appaiono su un lato del cratere perseguitati dalle frecce implacabili dei figli di Leto che sono al centro, in alto. Alla destra di Apollo, raffigurato nella classica posa di un arciere in atto di scoccare il dardo, uno scheletrico albero suggerisce l'ambiente montano entro cui si svolge la vendetta della coppia divina, il Citerone. Anche Artemide imita il fratello, ma è colta ancora nell'atto di estrarre la freccia dalla faretra. Al di là dell'albero, un giovane figlio di Niobe sta per crollare colpito alle costole da un dardo. A un livello inferiore una fanciulla con diadema, raggiunta da una freccia nella schiena, è distesa sul pendio, quasi di prospetto; ha gli occhi ormai chiusi per il dolore e stende le braccia quasi parallelamente sul terreno come per cercare di alleviare la sofferenza; volutamente esagerata è la tensione del braccio sinistro che sottolinea questo spasimo. Forse nessuna situazione così umanamente tragica è stata resa con tanta intensità e verità come questa, pure nell'esagerata sproporzione del braccio ormai inerte. Un'altra freccia ha raggiunto un giovane nel dorso facendolo crollare lungo il pendio; ha già gli occhi chiusi, e col braccio sinistro allungato sul terreno sembra quasi cercare riposo. Dietro Artemide un altro giovane tenta di proteggersi col panneggio, ma, raggiunto al petto, sta per crollare. Un elemento fondamentale di questa raffigurazione drammatica dove la morte è incombente, è la straordinaria resa analitica di certi elementi; le partizioni tradizionali dell'addome, i panneggi avvolti intorno ai corpi già quasi inerti, i volti dagli occhi chiusi ormai nel sonno eterno, tutto contribuisce a creare una sensazione tragica che avrà nell'Ellenismo una resa naturalistica ben diversa. Ma il fatto che intorno al 460 a.C. questo pittore vascolare abbia potuto realizzare con pochi esatti tratti lineari una scena così corale di dolore ed emozione drammatica perseguendo una ricerca di effetti di scorcio difficili e complessi, ha quasi del miracoloso. E induce a credere che alla base sia la creazione di un grande artista, che poi Fidia riprenderà nei rilievi del trono di Zeus.
La scena del lato opposto, anch'essa su diversi livelli per rendere l'impressione di un ambiente naturale mosso e ricco di effetti di scorcio, è meno chiara dal punto di vista esegetico e ancor più ricca di incognite.
In alto, da sinistra, un guerriero con pìlos visibile solo a metà, si trova al di là della linea ondulata di una collina; seguono a destra la figura snella e giovanile di Atena, con elmo e peplo dorico ornato dell'egida con gorgòneion sul petto; un eroe con elmo a paragnatidi chiuse, schinieri, corto chitone, appoggiato a una lancia, che sale su un rilievo sul terreno, rivolto verso la figura centrale, quella maestosa di Eracle nudo con pelle leonina e arco sulla spalla sinistra, clava nella destra abbassata, coronato di alloro. Segue un giovane con lancia e scudo sulla spalla sinistra, che porge un elmo con il braccio teso. Concludono la scena superiore due personaggi: il primo con petaso sul capo, barbato, si appoggia alla lancia e punta il piede destro su un rilievo del terreno; il secondo con pìlos sul capo e lancia trattiene un cavaliere con le briglie. Nel piano inferiore, da sinistra, un guerriero con lancia tenuta nella sinistra e puntata a terra, petaso sulla schiena, mano destra puntata sul fianco, guarda un altro guerriero al di sotto di lui che solleva la testa barbata e coperta dall'elmo; porta sulla spalla sinistra uno scudo con serpente quale epìsema. A destra in basso, al centro, un eroe glabro, semisdraiato sta per sollevarsi dal suolo puntandosi sulle lance lunghissime che tiene nella sinistra alzata, mentre la destra dalle dita allargate gli serve da ultimo appoggio. Dietro le spalle, imo scudo con una grande margherita come epìsema. Le punte delle lance di questo personaggio si inseriscono nello spazio fra Eracle e il guerriero con lo scudo del livello superiore. Infine al centro, poco più in alto rispetto al precedente personaggio, un altro giovane imberbe, con la chioma abbastanza corta, tipicamente acconciata intorno alle guance (diremmo efebica, propria dei kouroi), sta contemplando il suo compagno che si solleva dal terreno: in un atteggiamento di riposo trattiene con le mani la gamba destra quasi a sottolineare l'impossibilità di sollevarsi, a differenza del suo compagno teso nello sforzo. Si è qui privilegiata la descrizione in quanto fondamentale per capire la discussa esegesi di questa eccezionale e si può dire, unica celebrazione di un evento che si pone fra storia e soprannaturale (contemporanea presenza di Atena ed Eracle e dei due personaggi così fortemente caratterizzati, quello che sta per sollevarsi e quello che si tiene le mani serrate intorno al ginocchio).
Alcune fra le vecchie esegesi vorrebbero vedere in questa figurazione gli Argonauti quando, durante la loro sosta a Lemno, vengono spinti da Eracle a proseguire nella ricerca del famoso vello d'oro; un tema simile era presente nel Santuario dei Dioscuri ad Atene, e si diceva opera del pittore Mikon ateniese (Paus., I,18,1). Altra esegesi vuole invece vedere nell'episodio qui evocato una cerimonia di espiazione per l'uccisione da parte degli Argonauti di Cizico re dei Dolioni (Apoll. Rhod., I, 1030-1039). Una terza ipotesi invece sposta l'attenzione sulla battaglia di Maratona come descritta da Pausania e attribuita ai pittori Mikon e Panainos nel Santuario di Atena ed Eracle, integrata con la minuta descrizione che il periegeta fa delle pitture polignotee della Lesche degli Cnidî a Delfi (x, 10,1). In base a questa interpretazione la Simon, dopo la Harrison la quale riteneva che nella Nèkyia i due guerrieri ai lati di Ettore fossero Aiace e Achille, avanza l'ipotesi che il personaggio che parla con Polydeukes, munito di scudo con serpente, sia Menestheus, uno dei primi re attici (Hom., II., 11, 552). La scena nel suo insieme, con la presenza dei Dioscuri e di qualcuno dei discendenti di Neleo, sarebbe non l'evocazione di un evento preciso, ma una rappresentazione simbolica non priva di allusioni politiche che riportano, appunto, al particolare momento della restaurazione di valori tradizionali programmata dalla politica ateniese in una fase di equilibrio fra Sparta (la presenza dei Dioscuri è certa) e Atene (Teseo, il ritorno delle sue ossa da Sciro, il simbolo di una riconfermata autonomia e potenza attica è lì ad attestarlo). La presenza di Aiace potrebbe alludere alla battaglia di Salamina e quella del guerriero con pìlos che emerge dalla collina all'estremità sinistra (come sostenuto dalla Harrison con prove di carattere topografico assai persuasive), costituirebbe un riferimento ai Plateesi che parteciparono alla battaglia di Salamina. In questo senso si dovrebbe vedere qui l'evocazione di una pittura parietale, in cui i diversi elementi della politica cimoniana, pur rifacendosi a un evento bellico famoso (la battaglia di Maratona o di Salamina) erano fusi entro un contesto teso a richiamare nella sostanza gli Ateniesi a un equilibrio nazionale, rappresentato dall'armonia politica fra Atene e Sparta. La loro grande tradizione mitica era accennata dalla presenza di Menestheus, ma nello stesso tempo l'insieme figurativo si riferiva a un evento che poteva unire tutti, appunto le battaglie di Maratona e di Salamina.
Quanto al personaggio al centro della scena, in basso, che si solleva puntellandosi alle due lance, e a quello che si tiene il ginocchio e che guarda intensamente il suo compagno, l'identificazione proposta con Teseo e con Piritoo appare come una delle intuizioni più accettabili, non solo per l'amicizia che li unisce, nota a tutti, ma per l'attenzione così sottolineata ai loro gesti che coincidono perfettamente con la descrizione minuziosa delle pitture della Lesche degli Cnidî nel libro X di Pausania.
Infine, ultima ma importante considerazione, questa scena unica nel suo genere, mette sotto i nostri occhi con evidenza mai raggiunta prima, il sistema della pittura polignotea quale era attestato appunto dal complesso pittorico di Delfi; le espressioni di Pausania sulla disposizione dei personaggi (sopra, sotto, accanto, ecc.) confermano in maniera inequivocabile come la struttura su più livelli costituisca un essenziale elemento narrativo polignoteo, tale da stimolare nelle officine del Ceramico un modo nuovo di affrontare la realtà mitica; così avviene nel Pittore dei Niobidi, o nel Pittore di Bologna 279, o, ancora, nel Pittore dei Satiri Villosi.
Altri temi mitologici di grande respiro affrontati dall'artista sono quelli dell'Amazzonomachia, della Centauromachia, della Ilioupèrsis. Per l'Amazzonomachia i crateri di Spina, di Napoli, di Gela ora ad Agrigento, mostrano ancor prima della famosa coppa del Pittore di Pentesilea, la presenza di gruppi in lotta mutuati dalla tradizione della grande ceramica a figure nere (lotta di Eracle con l'amazzone di Exekias), ma rinnovati da alcuni elementi che esprimono una concezione grandiosa delle figure. Come appare dal grande cratere di Spina della tomba 11 c con Amazzonomachia, esiste anche una tradizione che rinnova gli schemi della lotta fra due o tre avversari (da una parte due eroi greci, Teseo e il suo fidatissimo amico, Piritoo, oppure un eroe greco contro due amazzoni, una delle quali può essere Pentesilea o Antiope). Ma i nomi delle eroine oscillano e la presenza consistente di tali nomi sul cratere a calice di Valle Trebba a Spina, è un caso relativamente raro. L'elemento nuovo è dato dalla raffigurazione di una porta entro un imponente muro di cinta sull'altro cratere di Valle Pega a Spina. Attraverso questa porta entra un'amazzone. Sia questo muro un'evocazione di quello che le fonti poetiche come Aristofane e storiche come Plutarco ricordano quale Amazònion, o, con allusione più concreta, si tratti dell'accampamento persiano sul lato occidentale della fatale collina dell'acropoli, è certo che Polygnotos e soprattutto Mikon avevano rappresentato l'Amazzonomachia nel Thesèion e poi nella Stoà Poikìle. E la rarissima raffigurazione qui tramandata è un documento prezioso della cura con cui il pittore ha analizzato l'evento, evidentemente ricalcato da un'importante fonte pittorica. L'interesse per la lotta fra greci e barbari in genere è anche nell'allievo o compagno del Pittore dei Niobidi, il Pittore di Bologna 279, il cui cratere conserva la scena di una intricatissima battaglia riguardante il mito dei Sette contro Tebe da un lato, e dall'altro una scena di purificazione che, probabilmente, risale a un'adunanza ad Atene degli epigoni dei Sette a Tebe. Comunque, la densa scena di combattimento fra eroi che si ritrova su un altro cratere di Basilea tramanda una rappresentazione di amazzonomachia indubbiamente assai complicata e confusa, così come confusa è la scena dei Sette a Tebe con Anfiarao del cratere con volute di Spina. Indubbiamente lo stile del maestro principale, il Pittore dei Niobidi, è assai più esatto e chiaro; è stato detto che, al confronto col quasi contemporaneo Pittore di Kleophrades, il Pittore dei Niobidi è freddo. Con tale opinione si può concordare ricordando però che questi e i seguaci dal disegno monumentale, come il Pittore di Villa Giulia, sono vicini alle megalografie dei grandi maestri della pittura.
Direttamente legato al Pittore dei Niobidi, ma più vicino di lui al Pittore di Berlino per la preferenza accordata alle scene isolate di personaggi del mito, è il Pittore di Achille.
Il Pittore di Achille e i seguaci. - Il Pittore di Achille è un fecondissimo artigiano che decora c.a 200 vasi e oltre un centinaio di lèkythoi a fondo bianco. La sua produzione è assai diffusa, dalla Grecia all'Etruria, alla Sicilia (anche le lèkythoi) e all'Asia Minore e la sua popolarità è confermata dalla ricchezza di nomi degli amasi. Oltre alle anfore di tipo B, di una certa snellezza, si notano crateri a campana, anfore a collo, anfore nolane, idrie, stàmnoi pelìkai, un cratere a calice di forma ancora alquanto rigida, poche anfore a figure nere panatenaiche; queste ultime devono intendersi non tanto come una forma di nostalgia per la vecchia tecnica, quanto piuttosto come prova ulteriore della sua fama e, al tempo stesso, come testimonianza della diffusione nei decenni fra il 460 e il 440 a.C. delle gare atletiche e della moda di offrire come premio vasi di tipo tradizionale, moda di cui egli doveva essere evidentemente rappresentante autorevole. Anche la ricca serie delle lèkythoi è significativa e il legame con il Pittore di Berlino emerge per un'altra caratteristica, ossia la scarsa predilezione per le scene complicate. Si è giustamente pensato per la raffigurazione di Achille sull'anfora vaticana, all'evocazione di una partenza dell'eroe; e nella figura femminile che regge un'oinochòe è stata vista una libazione da parte di Briseide che, appunto, gli porge la phiàle con la sinistra. Assai tipica è la forma del cratere a calice di Spina con amazzoni, Teseo e Piritoo, ancora piuttosto rigida. I temi figurati sono alquanto comuni: Dioniso con un satiro, Euforbo col piccolo Edipo, Eos e Tithonos; scene brevi e allusive a un significato mitico semplice.
L'Achille dell'anfora citata, p.es., ha subito richiamato negli studiosi la figura bilanciata del Doriforo; tanto da sembrare un riferimento colto all'opera più famosa di Policleto, esempio di perfezione classica. Il Pittore di Achille dunque, che, come vedremo, ha alcuni seguaci di grande efficacia, documenta per la prima volta in modo impressionante la traduzione nel disegno ceramico dei modelli plastici del suo tempo, sia nelle figure maschili equilibrate e bilanciate, che nelle femminili, dove l'armonia dei panneggi e delle espressioni calme e serene si coglie specialmente sulle lèkythoi. Alcune di esse (p.es. due di Lugano con scene di congedo tra un uomo e una donna, e con colori che vanno dall'azzurro al marrone bruno e chiaro) tentano anche di esprimere poeticamente la tristezza del commiato, come nella lèkythos dove è raffigurata la defunta come una Musa col nome helikon iscritto, quasi a definire il luogo in cui essa è andata. La classificazione in tre periodi dell'attività del pittore, già a suo tempo delineata dal Beazley in un lavoro fondamentale, induce a ritenere che le lèkythoi a fondo bianco più belle risalgano al periodo più antico della sua attività, e cioè al 460-445; e che l'anfora vaticana appartenga invece alla metà del secolo. La folta schiera di nomi dei kalòi aiuta naturalmente, con i riferimenti studiati a suo tempo dal Robinson, a fissare la fine dell'attività al 440- 435 a.C. circa. Occorrerà non dimenticare che col Pittore di Achille e con alcuni dei suoi allievi, fra i quali non ultimo, come si vedrà, è il Pittore della Phiale, ha inizio quella splendida espressione della pittura vascolare greca che conserva un'eco della pittura parietale classica coeva all'arte fidiaca e alla pittura di Agatarco di Samo, creatore quest'ultimo di alcune scenografie per le tragedie di Eschilo e teorico della prospettiva.
Un pittore che si colloca nel periodo di passaggio dallo stile severo a quello ormai decisamente classico è Hermonax. Firma come pittore una decina di vasi, molti stàmnoi e pelìkai, anfore a collo e nolane, idrie, oinochòai, un cratere a campana, lekànai, lèkythoi, coppe. Gli sono attribuiti circa 160 vasi. Non si può dire, come per il Pittore di Pan, che sia un manierista; è ancora immerso nell'atmosfera dello stile severo, come dimostrano le barbe dense dei suoi personaggi e gli occhi studiati nella loro massima apertura: ma le pupille sono ancora a cerchi neri pieni e non hanno invece il cerchio vuoto come nel Pittore di Pentesilea. Temi mitologici diversissimi, usuali in quest'epoca, si ripetono, in particolare le scene di ratto con Eos e Tithonos, Zeus ed Egina, Borea e Orizia. Sia sullo stàmnos vulcente di Monaco che su una delle pelìkai ceretane di Villa Giulia i miti scelti (nascita di Erittonio da Efesto e Ge alla presenza di Zeus, ratto di Orizia da parte di Borea) mostrano una rinnovata consapevolezza nella fruizione delle leggende attiche, dopo la profonda crisi dell'invasione persiana. I temi spesso denunciano nei pittori vascolari una celebrazione stimolata dalla rivalutazione di culti attici antichissimi, e forse dovuta a sottili ragioni di propaganda politica. Così, mentre la nascita di Erittonio e la serie più antica dei re dell'Attica vengono rievocate in monumenti ateniesi che testimoniano il rinato senso del patriottismo attico, il ratto di Orizia vuole riecheggiare il vento più gradito ai Greci dell'Attica che soffiò a loro favore sia nella sconfitta dei Persiani al monte Athos che nella battaglia di Salamina. E, ancora, Orizia si collega alla celebre tradizione dei re attici, quale figlia di Eretteo. L'anfora a punta di Monaco, che ha consentito l'identificazione del Pittore di Orizia, conferma la grande diffusione di questo mito. Strettamente le- gato all'officina del Pittore di Berlino, Hermonax rappresenta un momento di riflessione nella pittura vascolare attenta alla rinascita degli interessi plastici testimoniata dalla scuola di Olimpia. In base ai panneggi delle figure femminili più o meno fuggenti, e alla struttura delle figure maschili, sempre di una certa maestà severa, si può stabilire che l'attività di Hermonax si svolse fra il 470 e il 450 al massimo.
Egli decora poche coppe oltre ai vasi citati e non esce dall'ambito più corrente di questo stile.
Molto più prolifico invece è il Pittore di Boreas. Interessa non soltanto l'arricchimento della sua produzione, dopo le scoperte a Spina e altrove, ma anche il fatto che egli si pone, insieme con il Pittore di Firenze, fra la fine dello stile severo e quello classico o nobile. Anche qui i miti del tempo (inseguimento di Peleo e Teti, Eracle e Nereo, Zeus ed Egina) acquistano vasto respiro su vasi di una certa grandezza. Un esempio assai significativo dello stile e delle fonti letterarie che stanno a monte della personalità del nostro artigiano, è offerto dal grande cratere con volute di Spina a Ferrara (alto cm 83). La forma del cratere non è lontana da quella di simili crateri bronzei, con spalle alte e lieve rastremazione verso il basso. Ancora, dunque, legato alla tradizione severa sotto questo aspetto, il cratere ci tramanda una versione veramente rara del noto episodio della partenza di Neottolemo da Sciro, e di quella di Achille da Ftia, se, come sembra, si può accettare l'esegesi assai accurata dell'Alfieri. Siamo del parere che i due episodi appartengano allo stesso ambito eroico della famiglia di Achille, e non rappresentino due momenti relativi alle vicende della corazza achillea. L'ipotesi che qui si conservi il ricordo di un episodio tratto dalla tragedia sofoclea degli Skyrioi è anch'essa accettabile. Meno forse quella che il personaggio del lato Β possa essere identificato con l'ombra di Achille, una sorta di preludio al dramma narrato da Sofocle.
Il Pittore di Pistoxenos e il Pittore di Pentesilea. - Contemporaneo o quasi del Pittore di Berlino, al quale si collega piuttosto strettamente per certe consonanze del disegno espressivo ancora sensibile a schemi arcaici, è il Pittore di Pentesilea. A partire dal Beazley si è proceduto a sottolineare il distacco dal suo grande collega e rivale, il Pittore di Pistoxenos. Quest'ultimo, al quale oggi si attribuiscono una quarantina di vasi, coppe, uno skỳphos, una pisside e un rocchetto a fondo bianco, si rivela, esattamente come il Pittore di Pentesilea, un appassionato creatore di scene a colori di una certa vivacità; è, inoltre, il primo, dopò il Pittore di Brygos, a continuare sulla linea di una delicata policromia. Sia nella kylix di Londra con Afrodite che vola sull'oca (il suo simbolo preferito) tenendo nella destra un ramo, sia nella coppa tarantina da Locri con l'accostamento drammatico delle teste della menade e del satiro (nome iscritto bubax), sia sulla coppa ateniese con una donna tracia e la testa di Orfeo, ovvero sulla coppa di Berlino con Achille e una fanciulla, il pittore, che è alle sue prime esperienze pittoriche (i colori prediletti sono giallo e bruno diluiti per le linee fondamentali, nonché sfumature di azzurro e di rosso), sottolinea l'accostamento delle teste in un contrasto che accentua il significato psicologico della contesa. Per quanto riguarda lo skỳphos in cui Eracle si presenta con Ificle a lezione dal cantore tracio Lino, si è ormai molto esitanti nell'accogliere l'ipotesi, precedentemente formulata, che si tratti di una descrizione da un dramma satiresco di Sofocle.
Sono attribuiti al Pittore di Pentesilea oltre un centinaio di vasi. Da quando nel 1955 furono scoperte due importantissime kỳlikes (ancora quasi inedite!) del pittore, quella di Monaco da Vulci, così celebre per il suo rifarsi alla tradizione che attesta un improvviso mutamento dei sentimenti dell'eroe nei confronti dell'amazzone, non è più l'unico esempio dell'eccezionale capacità tecnica del pittore. La coppa di Spina costituisce, per le dimensioni fuori del comune che hanno causato, durante la cottura e la costruzione complessa - come si vide nel corso del restauro - grandi difficoltà di realizzazione non completamente risolte, e compromesso l'equilibrio precario dell'enorme fragile piede, un pezzo quasi unico. La coppa che misura 72 cm di larghezza fra le anse, è certamente un capolavoro nella produzione del pittore sia per varietà delle rappresentazioni figurate che per la cura espressiva delle situazioni narrate nei singoli episodi; la narrazione si svolge anche all'interno della kylix, intorno a un centro, pur esso figurato. In una fascia circolare che circoscrive la coppia dei Dioscuri a cavallo presso un'ara, si svolgono le scene con le note imprese di Teseo a partire da quella contro Sinis, figlio di Posidone, per passare a quella contro Procuste, contro Kerkyon, all'uccisione della scrofa di Crommione, alla lotta contro Scirone, al sacrifizio del toro maratonio davanti al re Pandione, al riconoscimento da parte di Egeo del figlio Teseo, avvenuto in virtù della spada che il giovane eroe ostenta nella mano destra. La serie degli episodi si conclude con la lotta contro il Minotauro che l'eroe uccide dopo averlo immobilizzato per le corna. I Dioscuri al centro, uno dei quali è già sceso dal cavallo, sono ormai giunti, adorni delle sacre bende, alla fine del loro pellegrinaggio nell'agora ateniese, e più precisamente nel Pritaneo, fondato, secondo la tradizione, da Teseo. È stato giustamente rilevato come la presenza dei Dioscuri, di chiara derivazione spartana, unita alla celebrazione dell'eroe ateniese, voglia essere un simbolo di pace e di concordia tra Sparta e Atene dopo le guerre persiane, secondo i precetti della politica cimoniana. All'esterno, gli episodi della Aithiopìs epica si riassumono nelle due fasi principali. La morte di Memnone, per mano di Achille, è commentata da tre fanciulli in pianto, uno con le mani alla fronte, un altro che si avvolge il panneggio intorno al corpo e fissa esterrefatto il defunto, il terzo che si strappa i capelli. La scelta di una situazione così drammatica denota un'ispirazione poetica tragica. Dall'altro lato è raffigurata la lotta fra Odisseo e Aiace per il possesso delle armi di Achille, tema assai noto anche nella ceramica attica a figure nere, ma qui reso con la solita particolare attenzione dal pittore, come testimonia la presenza di sei personaggi, tre per parte, dei quali due trattengono gli eroi protagonisti della vicenda, mentre gli altri sembrano commentare e partecipare in modo verbale al contrasto. Questi dettagli sottolineano in maniera evidente l'influenza del teatro. Su tale aspetto non si è ancora indagato a sufficienza. Ma è chiaro che questo pittore rivela, assai più dei contemporanei, un'intensa drammatizzazione del mito. Così avviene nella coppa di Monaco con Apollo e Tityos alla presenza forse di Leto che protegge il dio, e nella coppa di Spina con Zeus che insegue Ganimede, dove lo slancio dell'inseguimento è accentuato dal bellissimo corpo del giovinetto. Nella presenza viva di corpi disegnati tenendo presente la scultura contemporanea di tardo stile severo, dai kouroi alle sculture di Olimpia, il pittore dimostra una sensibilità plastica che supera quella del Pittore dei Niobidi, interprete attento ma non certamente drammatico del mito. Infine, un'altra qualità che denuncia nell'attività dell'intera officina una particolare sensibilità formale è l'attenzione verso le conquiste della tecnica pittorica; si deve al Pittore di Pentesilea una tra le più deliziose pissidi a colori, di New York, col giudizio di Paride al quale assistono Eros e Afrodite, nella quale la grazia delle piccole figure richiama il quasi contemporaneo miniaturista Sotades. L'accentuazione espressiva è confermata specialmente dall'esecuzione degli occhi che sono disegnati, nelle opere più significative, con pupille dal grande cerchio vuoto, e con minuzia attenta nelle ciglia e sopracciglia; elementi disegnativi che tradiscono una qualità pittorica che la grande arte del tempo andava imponendo agli artigiani del Ceramico.
Il Pittore della Phiale di Boston. - Si tratta di un pittore della cerchia del Pittore di Achille, ormai ampiamente recuperato dalla critica, cui in tempi recenti lo Oakley, pur procedendo ad alcuni mutamenti, arrivava ad attribuire 154 vasi. La sua attività si svolge nel terzo venticinquennio del V sec., fra il 450 e il 425 a.C. e cioè una decina di anni dopo la nuova fondazione di Camarina, avvenuta nel 461 a.C., e la realizzazione del celebre deposito ceramico di Delo, riferibile, secondo la testimonianza di Tucidide (III, 104), al seppellimento dei morti di Delo nella grande fossa di Rheneia. È questo uno dei non molti casi nei quali eventi storici sicuramente databili aiutano a fondare una cronologia accettabile della ceramica figurata greca. Le forme dei suoi vasi (anfore nolane in gran numero, anfore, lèkythoi abbondanti, pelìkai, crateri a calice e a campana, idrie, stàmnoi, oinochòai, kỳlikes, skyphoi, pissidi, loutrophòroi) riflettono la tettonica vascolare del tempo, ma con un'aggiunta interessante che è quella della tecnica a fondo bianco, sia nelle lèkythoi che nei crateri a calice. Il cratere agrigentino con Perseo e Andromeda e quello del Vaticano con Hermes che reca il piccolo Dioniso alle ninfe di Nysa e a Papposileno (mentre dall'altro lato sono tre Muse) sembrano ispirarsi in qualche modo al teatro di Sofocle (Dionysìskos). Qualcuno ha ricordato, per queste e per altre scene figurate mitiche, la tradizione dei pìnakes dipinti. Oltre alle scene di inseguimento di donne da parte di Hermes, di Apollo e forse di Teseo, il pittore affronta altri temi come quello di Perseo e le figlie di Phorkys (le c.d. Graie), Danae e Perseo, Cadmo, Eos e Cefalo, Borea e Orizia, le fatiche di Teseo, Trittolemo, Apollo e Artemide, forse Bendis, l'apparizione o scoperta di Erittonio, scene dionisiache varie, scene di danza, di musica, di giochi (astragali e cottabi), funerarie, atletiche o domestiche. Tranne la scena di Eos e Cefalo, che ricalca quella del Pittore di Achille, in generale egli sceglie argomenti alquanto diversi da quelli del maestro; le scene di inseguimento ricordano anche quelle di altri ceramografi con il Pittore di Berlino, Hermonax o il Pittore di Providence. Un'evidente influenza del teatro, specialmente di Sofocle, è intuibile. Una minutissima analisi ha condotto lo Oakley ad affermare che il Pittore della Phiale di Boston è più indipendente dal Pittore di Achille di quanto questi lo sia rispetto al Pittore di Berlino. In realtà tutti gli artigiani di questi decenni si copiano con varianti sottili basate spesso su un labirinto di confronti. È possibile, p.es., che ogni tanto il nostro abbia presenti i rilievi fidiaci, qualche volta anche le metope; ma se si analizzano le opere dei suoi contemporanei o quasi, si può osservare che in esse questi contatti sono ben più considerevoli.
Polygnotos il ceramografo e il suo gruppo. - È molto difficile, arrivati a questo punto, fare ordine nella successione dei diversi artigiani che affollano i decenni intorno alla metà del secolo e subito dopo. Punto centrale sembra ancora l'officina del ceramografo Polygnotos. Generalmente si può dire che i tre temi fondamentali desumibili dai 5 vasi da lui firmati sono il kòmos, le scene di Amazzonomachia, l'epifania di Trittolemo. Le forme predilette e tipiche del suo tempo sono gli stàmnoi, le idrie, i crateri a campana; ma si trovano anche altre forme, p.es. dìnoi, louthrophòroi, ecc. Polygnotos ha uno stile che si confonde notevolmente con quello di tanti contemporanei; la linea grafica, pur desunta dal Pittore dei Niobidi, si ammorbidisce alquanto e nei profili e nei panneggi; ma il carattere ancora lievemente severo si perde in una cristallina purezza alla quale contribuisce la conoscenza della scultura contemporanea fidiaca. A Polygnotos forse sarà anche da attribuire il cratere con volute di Valle Trebba a Spina con corteo di tipo dionisiaco (sacerdotessa con lìknon sul capo) che si dirige verso una solenne edicola con colonne entro la quale compie la libazione una coppia divina, quasi certamente Dioniso-Hades e Persefone. Non si può ignorare un riferimento ai pìnakes locresi, anche se oggi che conosciamo la diffusione del culto di Cibele in Magna Grecia, il richiamo a questa divinità (per la presenza del leone sul braccio teso della dea) non è del tutto da escludersi. Un eclettismo cultuale che corrisponde, nel pittore, a un eclettismo formale rende la sua opera ancora più problematica. Il nucleo stilistico è qui legato a un ammorbidimento formale che non si incontra nei suoi compagni di lavoro. Il Beazley ha distinto, anche in questo caso, gruppi e sottogruppi, uno dei quali, a suo parere, quello di Peleo, comprende non soltanto il pittore omonimo, ma anche il Pittore di Ettore, il Pittore di Lykaon, il Pittore di Epimedes (dal nome del kalòs acclamato sullo stàmnos di Londra con Teseo e le Amazzoni), il Pittore della Pantoxena, il Pittore di Christie. Il più importante è il Pittore di Peleo. Di questo pittore venne trovato a Spina (Valle Trebba) un cratere a volute frammentario, con le cerimonie funebri in onore di Pelia e la lotta fra Amykos e Polydeukes (i nomi sono iscritti), che conferma gli interessi verso leggende e culti eroici della Grecia settentrionale. Uno stile grandioso che richiama anche motivi fidiaci e che si adegua all'atmosfera bellica del tempo. Frequenti sono le allusioni alla partenza dalle loro case di giovani armati.
Ancora più monumentale forse ê lo stile del Pittore di Kleophon. Beazley gli attribuisce 68 vasi e altri, quasi quaranta, alla sua maniera e il patrimonio dei vasi assegnatigli si è ora accresciuto, anche se non di molto. Il giudizio di Beazley era entusiasta; egli trovava ampiezza, semplicità di strutture non prive di grazia e «a touch of grandeur». Non si può negare che il pittore e i suoi seguaci siano fra i più vicini alla corrente artistica fidiaca. Una ricerca assai accurata di una ventina di anni or sono compiuta da Florens Felten, ha cercato di attirare l'attenzione su un'analoga tendenza, ravvisabile nell'opera del pittore di alcune lèkythoi assai note, detto Pittore di Thanatos, e formatosi nella grande officina del Pittore di Achille. Il Felten con un'analisi assai minuta, estende lo sguardo alle numerose lèkythoi non solo di Eretria ma anche a quelle importate in Puglia e in Sicilia (è ben noto che a Gela le lèkythoi sono abbondanti), e trova nello stile del Pittore di Thanatos e di artisti affini quegli elementi di tipo «partenonico» che erano stati già rilevati da altri studiosi, ma in modo sporàdico e limitato. La nuova attenzione verso le rappresentazioni funerarie, con un puntuale confronto fra quelle dipinte su ceramiche a figure rosse e scene pittoriche funerarie su vasi a fondo bianco, ha condotto il Felten a offrire un'interpretazione innovativa di questo pittore capace di lavorare in ambedue le tecniche, come precedentemente il Pittore di Achille. Il cratere di Spina con la scena sacra del corteo sacrificale verso il Santuario di Apollo (sul quale il Gualandi si è fermato a lungo) costituisce oggi il punto focale per la valutazione di questo artigiano di alto livello. Fino a quale punto si possa credere a una derivazione diretta di queste immagini dal fregio fidiaco non si può ancora stabilire. Il Gualandi ha anzi dimostrato in maniera analitica quanto frequenti siano stati i prestiti fra i fregi partenonici e la ceramica coeva. Qui la scena è una vera e propria pythaìs, dato che si svolge in un santuario apollineo. Sull'altro lato, il ritorno di Efesto dall'Olimpo col corteo dionisiaco non arricchisce molto le nostre conoscenze sull'iconografia di questo episodio (a Monaco esiste un'altra rappresentazione dello stesso evento attribuita al Pittore di Kleophon); lo studio attento degli atteggiamenti delle menadi, la capacità di rendere in modo aggraziato ma non lezioso le teste e le chiome, la sottile atmosfera di ebbrezza che si respira nelle sue composizioni, sono gli elementi caratterizzanti questo pittore la cui produzione non sembra possa scendere cronologicamente oltre il 430-25 a.C.
Al Pittore del Deinos, un tempo detto di Atalanta, denominato, con termine ripreso dagli inglesi, dal dìnos di Berlino con Dioniso semisdraiato, Beazley attribuiva 46 vasi, e ne assegnava 27 alla sua maniera. Il cratere con volute di Bologna, con il solito ritorno di Efesto e col corteo di Dioniso e Arianna, lo stàmnos di Napoli, con le menadi che circondano l'èidolon di Dioniso, costituiscono la testimonianza più monumentale di questo collaboratore del Pittore di Kleophon, assai sensibile al fascino del maestro ma certamente meno sensibile all'ispirazione fidiaca o, comunque, meno incline alla resa plastica. La tendenza ad arricchire gli effetti cromatici con aggiunta di bianco e di giallo negli ornamenti delle figure lievemente leziose, preannuncia il manierismo dei successori. Il cratere a calice di Bologna con Atalanta e Ippomene, quello della Collezione Kanellopoulos con Meleagro e il suo piccolo figlio Partenopeo, confermano un interesse per miti diversi da quelli attici. Questa caratteristica si accentua a mano a mano che, alla fine del V sec., l'Attica si volge a più stretti rapporti con le regioni settentrionali del mondo greco, la Tracia soprattutto.
Il pittore Polion rivela nella struttura del racconto mitico la tendenza a disporre su diversi piani le figure, nonché il suo interesse per il teatro. Il cratere di Spina, col cantore tracio Tamiri e con la rappresentazione di un coro teatrale, pare rafforzare l'impressione di contatti con elementi fondamentalmente drammatici. L'altro cratere di New York, col carro di Apollo e quello col carro dei venti satiri arricchiscono ulteriormente la serie di questi riferimenti. Ancora vicino a Polion è il Pittore di Cadmo, «fratello» del Pittore del Pothos e collaboratore forse di Polion, così denominato dal mitico fondatore di Tebe raffigurato su un'idria berlinese. In più occasioni egli propone inoltre un mito che divenne famoso nell'ellenismo, ma che affonda le sue radici nella scultura della fine dello stile severo, cioè la punizione di Marsia da parte di Apollo. Per cinque volte infatti lo raffigura su crateri a campana e a calice, per tre volte sceglie invece vicende desunte dalle fatiche di Teseo. Simposî, scene dionisiache, kòmoi sono temi abbastanza frequenti. Ma egli predilige soprattutto episodi cari allo stile severo del quale sembra mantenere ancora una certa grandiosa compostezza in questo penultimo decennio del V secolo. Altre quattro scene con Apollo e Marsia si ritrovano nel contemporaneo Pittore del Pothos (da una figura di Eros resa su un cratere a campana di Providence); ma è questi un artigiano più modesto del Pittore di Cadmo, e certamente non mostra quella freschezza nell'interpretazione del mito che è invece presente nell'opera del suo maggiore «fratello».
Fino a qual punto è giusto parlare di manierismo nei pittori vascolari attivi verso la fine del V sec. a.C.? Se si possedessero anche gli originali pittorici della grande pittura parietale e già di «cavalletto» dello scorcio del V sec., forse sarebbe lecito. Ma in queste condizioni, anche se attraverso il particolarissimo artigianato delle lèkythoi a fondo bianco, si può avere un'idea dei colori, estremamente sobri, adoperati e pur se esistono opere di pittori ceramici già sulla soglia del IV sec. a.C. che documentano una più ampia utilizzazione del colore e timide conquiste di elementi tecnici quali la prospettiva e lo scorcio, tuttavia il termine «manierismo» può sembrare non sempre esatto. Nei pittori di Peleo, di Kleophon, e in genere, per intenderci, nei «fidiaci», si possono scorgere elementi di uno stile legato sempre di più alla rappresentazione plastica della figura umana. Invece i due o tre pittori notevoli di questa fase detta manieristica (il Pittore di Eretria e qualcuno fra i suoi collaboratori, il Pittore di Meidias) sembrano attratti da una realtà figurativa ridotta, in cui l'esiguità delle strutture conduce, sì, a una certa maniera, ma senza che questo termine assuma il significato di decadenza o di stanchezza creativa.
Il primo di questi «manieristi» si ritiene sia il Pittore di Shuvalov, così chiamato dall'attribuzione di un'anfora della collezione omonima del museo di San Pietroburgo. Il Beazley più volte, fino dal 1925, era stato attirato dai piccoli vasi di questo maestro, in buona parte oinochòai e chòes che i devoti del culto dionisiaco, frequentatori della festa delle Antesterie, portavano con sé e dedicavano in occasione dell'inizio della primavera. Le sue attribuzioni erano 83 nel 1963; la Lezzi-Hafter ha arricchito molto la conoscenza del pittore introducendo nel catalogo le numerose scoperte di Spina (come aveva già fatto poco prima, in maniera più limitata, il Massei). Oggi, secondo le ultime ricerche, la personalità del pittore si presenta estremamente più complessa. Le attribuzioni al maestro si sono accresciute fino a raggiungere 101 esemplari, ivi comprese opere assegnate ad alcuni pittori quasi identici all'artista maggiore. Il nucleo centrale di quelle attribuite a questo maestro lo individua come proveniente dalla grande schiera polignotea, malgrado la sua predilezione per le forme piccole. I temi dionisiaci sono frequenti, imiti a soggetti di cicli mitici concernenti Teseo, Perseo, Polinice ed Erifile (collana di Harmonia), Apollo e le Muse, Eros e Afrodite, scene di palestra, scene domestiche. L'attività dell'officina (ormai, dopo la Lezzi-Hafter si può definire in tal modo) si snoda fra il 440 e il 410 a.C.; ma non mancano precedenti che si collocano alla metà del V secolo. Il pittore e il suo gruppo indubbiamente risentono della diffusione dello stile fidiaco nella struttura delle figure panneggiate, come accade nell'officina di Polygnotos il ceramografo. Manierista sobrio, diverso da quelli che seguono, ama figure piccole su vasi piccoli; predilige pochi personaggi su brevi superfici; e così le amazzonomachie, non frequenti, si riducono a due, tre, al massimo quattro protagonisti.
Ben più elegante, aggraziato, e vero manierista è il Pittore di Eretria. Si deve alla Isler-Kerényi, poi alla Lezzi-Hafter una precisazione cronologica che delimita l'attività del maestro tra il 440 e il 420 a.C. Anche il Pittore di Eretria decora vasi di piccole dimensioni, però più affollati di personaggi, e soprattutto con stile inconfondibile che si afferma sui suoi contemporanei. Le attribuzioni del Furtwängler furono poche (la lèkythos a fondo piatto di Berlino, la pisside londinese E 774 con scena di preparazione delle nozze, e, appunto, l'epìnetron). Nel 1963 il Beazley aveva già raggiunto il numero di 104 attribuzioni, a cui si affiancano altri 85 vasi attribuiti al Pittore di Calliope (dalla coppa londinese con Apollo e Calliope e Urania, nonché Museo e le Muse), considerato compagno del pittore principale. Oltre alle coppe, decora lèkythoi a fondo piatto, oinochòai a bocca trilobata, pissidi, rhytà, kàntharoi. Molte sono le scene dionisiache e di gineceo; vi sono poi alcuni miti rari e soprattutto scene che alludono a feste in cui le donne e la grazia femminile sono intensamente rievocate. Le coppe invece hanno scene più generiche, con satiri e menadi oppure atleti. Fra i vasi più celebri è la lèkythos a fondo piatto di Berlino con un tiaso dionisiaco piuttosto ampio; il gruppo si dispone intorno a Dioniso e a Sileno con tirso, mentre le menadi circondano Arianna, ma su livelli diversi, alla maniera polignotea. La novità degli atteggiamenti, specialmente delle menadi, induce a ritenere che la composizione sia stata ispirata da una megalografia (da rilevare la madre che sorregge fra le braccia una compagna completamente ebbra, in procinto di cadere, con la testa e le braccia penzoloni). Un'altra lèkythos a fondo piatto a Boston raffigura un'Amazzonomachia importante per la disposizione delle figure su livelli lievemente diversi e per la trasmissione di schemi tipologici secondo una tradizione risalente forse a Mikon. Ben più complessa è la scena che si svolge sull'epìnetron di Eretria, le nozze di Alcesti alle quali assistono la sorella Asterope e la suocera Ippolita, sposa di Acasto, e un tempo amante di Peleo. Il contrasto con Alcesti, rimasta sempre fedele allo sposo Admeto, è quindi sottolineato. La presenza di dìnoi e loutrophòroi (vasi di uso nuziale e funerario), la porta della casa accuratamente riprodotta, stanno a indicare non tanto (come si è detto un tempo e poi giustamente negato) la festa delle Epàulia, quanto piuttosto il giorno delle nozze di Alcesti e costituiscono al tempo stesso, un'allusione alla sua morte. La raffigurazione, sull'altro lato del vaso, di Afrodite, Peitho, Himeros, Harmonía, Kore ed Ebe, riecheggia i sentimenti che affiorano nel ben noto coro euripideo della tragedia (v. 83 ss.). Il riferimento è stato colto, con molta dottrina e finezza in un contributo fondamentale del Lesky del 1927 e dallo Schweitzer nel 1961. È questo un raro caso di consonanza fra le esegesi letterarie e quelle derivate all'analisi accurata del monumento. Il fatto, non certo frequente, che il mito sia qui puntualmente illustrato da epigrafi (a eccezione del probabile scambio d'iscrizione fra Kore e Harmonia), induce a ritenere che la suggestione letteraria sia stata molto intensa. Sono così raffigurate tre scene di nozze imminenti, quella di Peleo e Teti alla presenza di Nereo e delle Nereidi, quella di Alcesti, e quella di Harmonía assistita da Kore, Peitho, Eros ed Hemeros, con la «benedizione» di Afrodite che ha una corona in mano.
Si vuole perciò celebrare una sposa, cui è destinato l'epìnetron, attraverso l'evocazione poetica dei miti di Teti e di Alcesti. Il terzo episodio di Harmonia rivela quella sottile simbologia, tipicamente ateniese, oscillante sempre fra realtà e fantasia, sollecita a elevare le terrene vicende degli eventi nuziali nella sfera dell'amore più ideale.
Il pittore di Eretria, fra i più singolari miniaturisti, si ispirava probabilmente a originali pittorici adattandoli alle brevi pareti dei suoi vasi. Risulta inoltre culturalmente attento alla raffinata simbologia della scuola fidiaca. Un collegamento con il grande scultore è provato anche dai panneggi delle sue leggiadre figure, ed è suggerito dai volti dal profilo purissimo. Il famoso epìnetron s'inserisce, nell'esame dettagliatissimo recentemente impostato dalla Lezzi-Hafter, al termine dell'attività del pittore, fra il 425 e il 420 a.C.
Dallo stesso ceppo post-fidiaco, contrassegnato da esagerazioni quasi calligrafiche dei panneggi e sicurezza nel disegno raffinato, proviene il Pittore di Meidias, attestato come vasaio sull'idria londinese con il ratto delle Leucippidi da parte dei Dioscuri. Altre due idrie, senza firma, ma di stile identico, da Populonia, ora a Firenze, hanno confermato in modo probabile l'identità fra pittore e vasaio, anche se il nome del primo potrebbe essere diverso. Comunque, alle sei idrie attribuite finora, si debbono aggiungere oinochòai, lekanìdes, pelìkai, loutrophòroi, e solo tre lèkythoi a fondo piatto. Se le attribuzioni al pittore sono state finora scarse, la sua influenza stilistica fu comunque notevole anche più tardi, tanto da indurre il Beazley a raccogliere entro un gruppo «submidiaco» un'ottantina di pezzi che hanno confermato l'esistenza di uno stile corrente sciolto, di qualità non eccelsa, diffusissimo, proprio degli imitatori della maniera del maestro. Le poche raffinatissime idrie (di Firenze e di Londra) presentano miti noti, ma sotto una luce sfolgorante di apporti cromatici di grande effetto che costituiscono una rarità. Anche per questo motivo si sottolineano i tre ultimi decenni del V sec. come ricchi di profondi cambiamenti nella grande pittura, nelle botteghe di Agatarco e di Apollodoro che andavano applicando alle strutture delle figure certi accorgimenti (scorcio, prospettiva, illusionismo spaziale) che ben presto, alla fine del secolo, e soprattutto nei primi decenni del IV, sarebbero diventati patrimonio comune. Non si deve ritenere il manierismo midiaco frutto dell'influenza del Pittore di Eretria. I due artigiani sono pressoché contemporanei (forse l'officina del Pittore di Eretria inizia poco prima, nel 440 a.C.), ma piuttosto diversi nella loro piena espressione, appunto, di maniera della grande esperienza fidiaca. Il primo è più esatto, preciso nel disegno dei suoi personaggi, pur prediligendo composizioni di piccole dimensioni. Il secondo nelle figure delle Leucippidi, di Afrodite, di ninfe in genere, pur assimilando la grandiosità dei panneggi fidiaci è indubbiamente più approssimativo; e nei volti l'intensa purezza di Fidia si stempera in una vacuità espressiva non lontana da certi modelli prassitelici. Igea che tiene Paidia sulle ginocchia non si può sottrarre al ricordo di Afrodite con Dione. L'uso di varî colori, così accentuato nel Pittore di Meidias (delicatissime lamine auree sparse ovunque sulle chiome, sui gioielli) e gli arditi scorci che non mancano nei gruppi volteggianti nell'aria, a mala pena nascondono una ripetizione di atteggiamenti. Nei profili di certe figure giovanili si è anche ritrovata la purezza dei tetradrammi e decadrammi siracusani di Eukleidas e di Eveneto.
Strettamente collegato al Pittore di Meidias è Aison, un pittore del quale resta soltanto una coppa firmata, quella di Madrid (Aison ègrapsen) con Teseo, il minotauro e una sottile, graziosa e precisa Atena, protettrice dell'eroe. Ursula Knigge, diversi anni or sono, ha messo in rapporto le attribuzioni del Beazley ad Aison con un'oinochòe rinvenuta nel Ceramico ateniese entro una fossa votiva (non una tomba) insieme con i resti di una punta di lancia e diverse coppe votive e pissidi. Se l'insieme dei materiali riporta la datazione alla fine della guerra del Peloponneso (non si può riferire infatti questa anonima deposizione all'epoca del monumento di Dexileos, sicuramente più tardo), l'oinochòe accuratamente analizzata è invece databile intorno al 430-20 a.C. Vi sono raffigurati satiri che inseguono la ninfa Amimone (amata da Posidone); è possibile il riferimento a un mito che era stato trattato da Sofocle in un dramma satiresco. Ma non è il tema che qui interessa quanto piuttosto lo stile di tipo midiaco che colpisce, sia nella figura fuggente della ninfa, sia in quelle dei satiri in corsa. La Knigge ha anche richiamato per confronto altri «midiaci» e, soprattutto, le principali rappresentazioni midiache (idria di Atene, di Firenze) prima di affrontare il problema dell'identificazione del Pittore di Meidias stesso. Per il quale sappiamo che già il Dugas, parecchi anni or sono, aveva proposto una soluzione, collegando la sua opera con quella del Pittore di Codro, artigiano in verità assai scialbo. Non è qui il caso di dilungarsi sul problema; si può soltanto dire, in questa sede, che anni or sono fu tentata da P.E. Arias un'identificazione assai attraente fra Aison e l'autore di un cratere a calice di Spina (rinvenuto nel 1954) con una Gigantomachia di natura fidiaca, nella quale l'Atena giovane, nel pieno della sua forza e leggerezza insieme, veniva avvicinata a quella della coppa di Madrid di Aison. Tutto questo per ribadire che, in un'epoca come questa in cui i nomi dei pittori sono piuttosto rari, l'Aison ipotizzato quale autore della scena spinetica potrebbe proprio essere il pittore del vasaio Meidias. Un caso felice rafforza quest'ipotesi; diversi vasi spinetici sono attribuiti ad Aison dal Beazley. Sia la coppa del Ceramico di Atene sia il cratere a calice con Gigantomachia (che mostra, sull'altro lato, il ratto delle Leucippidi, tema carissimo a Meidias) confermerebbe lo svolgimento di un'attività ancora giovanile del maestro intorno agli anni trenta del V secolo. Sono i decenni finali del secolo in cui, nella pittura nascente «di cavalletto» appariva con prepotenza la figura di Parrasio.
La policromia nella ceramica greca. - Dedicando un breve excursus al problema del colore nella ceramica arcaica e classica prima di passare al IV sec., s'intende concludere un discorso parzialmente tralasciato riguardo ad alcuni pittori. Si è detto che nella ceramica a figure nere i colori fondamentali applicati sul fondo dell'argilla, e poi sul fondo nero, erano il bianco e il rosso nelle sue varie gradazioni di paonazzo-violaceo. La diffusa tendenza a usare non solo semplici pennellate, ma addirittura uno strato di calce bianca sul corpo del vaso, sembra avere inizio al tempo del Pittore di Andokides nel vaso del Louvre F 203 in cui uno strato bianco è stato applicato prima della stesura della vernice nera sulla quale sono state risparmiate le figure. Su una coppa del Pittore di Eleusi, dell'officina arcaica forse di Onesimos, la lotta fra Atena e un gigante è resa su fondo bianco (siamo intorno al 510 a.C.). Sulla celeberrima coppa vulcente di Monaco attribuita al Pittore di Brygos, una menade che brandisce un leopardo e che ha una chioma resa in una delicata sfumatura di marrone scuro dorato, si staglia sul fondo bianco. Pittori vascolari dello stile severo come quello di Pistoxenos, di Sabouroff e di Sotades usano spesso nelle loro eleganti coppe il fondo bianco insieme con dettagli di colore bruno diluito in oro che accrescono l'effetto cromatico. La caratteristica del fondo bianco dipinto si diffonde invece con sistematica ampiezza nel particolare genere delle lèkythoi in gran parte funerarie, ma anche usate per profumi e unguenti nella toilette femminile. Ma è nella seconda metà del V sec. che compaiono i più prestigiosi pittori di lèkythoi a fondo bianco. Il Pittore di Achille e il Pittore della Phiale decorano lèkythoi, destinate in gran parte a uso sepolcrale, con colori delicati. Certamente funeraria è la stupenda lèkythos da Oropos del Pittore della Phiale ove una figura maschile seduta sulla roccia, forse Hermes, contempla la defunta dalla riva del Fiume dei Morti. La raffigurazione della donna che si acconcia un diadema non sembra essere una scena normale di toilette, ma piuttosto un riferimento alla morte imminente, sia per la presenza di Hermes che per quella di una tomba posta sullo sfondo. Beazley ha supposto che Hermes sia in attesa della sua preda evidenziando il rapporto fra la toilette e la destinazione fatale. L'interpretazione sembra appropriata, anche se l'ambiguità della scena offre spazio a ulteriori discussioni.
I pittori più raffinati del genere funerario sono il Pittore di Bosancquet, il Pittore del Canneto, il Pittore di Thanatos, il Pittore della Donna, il Pittore del Tymbos. Da contorni neri e sottili a rilievo si passa, negli ultimi decenni del V sec., a contorni opachi rosso-ocra e a una estensione della tavolozza con ritocchi nonché, p.es. nel Pittore del Canneto, all'uso di scorci assai precisi e arditi. Famosa è la scena in cui un giovane, seduto mollemente, volge lo sguardo verso un amico che gli parla e verso una donna che gli porge elmo e scudo. L'immagine del defunto sembra già immersa in una diversa atmosfera, carica d'infinito. Che la tecnica a fondo bianco sia adoperata in Attica essenzialmente per la raffigurazione di scene funerarie, è indubbio; e la Wehgartner (1983), nella sua ricerca, ha dimostrato che i vasi a fondo bianco per uso non funerario, a partire dalla seconda metà del V sec. a.C. provengono essenzialmente da località della diaspora greca, e cioè dalla Magna Grecia, dall'Etruria o dalla Sicilia; insomma, il concetto di pittura sepolcrale a fondo bianco non è familiare in località fuori della Grecia vera e propria. La presenza di lèkythoi, come è noto, si intensifica in Attica a partire dalla metà del V sec. a.C. Sembra che la nota proibizione contro il lusso delle tombe che data alla fine del VI sec. (secondo una famosa testimonianza di Cicerone), a poco a poco sia dimenticata. Le lèkythoi prendono il posto delle stele fino a diventare un basilare elemento del costume funerario. Ma la ripresa della scultura funeraria a rilievo, rifiorita alla fine del V e nella prima metà del IV sec. (si pensi ai monumenti del Dìpylon e alla famosa stele di Dexileos) ridimensiona il genere artigianale delle lèkythoi a fondo bianco. I contatti tra la ceramica a uso funerario e la pittura di cavalletto si perdono fino al momento in cui, per circostanze storiche diverse, il rapporto con la grande pittura è ristabilito dalla decorazione pittorica delle tombe macedoni.
Il secondo classicismo del IV sec. a.C. - È un secolo di grandi rivolgimenti in Attica, prima con la ripresa della democrazia e poi con l'invasione della Grecia da parte di Filippo il Macedone e la spartizione, conseguente alle imprese di Alessandro, del nuovo impero ellenistico che sfocerà nell'immensa apertura della grecità alla cultura orientale. I pittori dell'epoca risentono, indubbiamente, di questo nuovo clima culturale. I rapporti con la pittura di cavalletto si fanno sentire soprattutto nel costante arricchimento della tavolozza cromatica e nella problematica della prospettiva.
Il Pittore di Pronomos (dal nome del flautista che appare nella compagnia teatrale che sta allestendo un dramma satiresco, forse la Hesiòne del poeta tragico Demetrio, su un cratere con volute da Ruvo ora a Napoli), continua la tradizione formale del nudo del Pittore del Deinos, ma si adegua anche all'eredità «fidiaca» del panneggio di maniera del Pittore di Meidias. Le numerose indicazioni di nomi (di Demetrio poeta tragico, di Pronomos flautista, di Charinos suonatore di lira, e dei componenti del coro) confermano che il cratere napoletano replicherebbe su uno dei lati una pittura votiva dedicata da Demetrio nel Santuario di Dioniso. Lo attesterebbe anche la rappresentazione, sul lato opposto, di Dioniso con Arianna uniti in un abbraccio che spesso si ritrova sui vasi di tradizione dionisiaca; tale rappresentazione sembra dipendere da una pittura con questa sacra scena. Il problema esegetico è stato ampiamente trattato da molti studiosi (che in pratica fanno capo al Buschor, alla Simon e al Bulle) divisi sulla natura più o meno simbolica dei personaggi.
Secondo alcuni sarebbero qui raffigurati i caratteri singoli (con le loro maschere) della tragedia e del dramma satiresco relativo al mito di Laomedonte; ma viene rifiutata generalmente l'ipotesi che la scena si riferisca a una cerimonia di dedica ufficiale di un ex voto coregico e si ritiene che si evochino unicamente gli attori del dramma satiresco Hesiòne. La Simon ha sostenuto che si tratterebbe del dramma satiresco dal possibile titolo di Omphàle, colei che, come è noto, tenne a lungo in schiavitù Eracle. Una pelìke lucana del Louvre rappresentava proprio questo mito, del resto diffusissimo nella pittura ellenistico-romana. La presenza del tripode nella scena del vaso di Pronomos darebbe ragione a chi crede a una evocazione di un premio per la coregia del dramma satiresco, come ha contribuito a dimostrare Heide Froning.
H. Metzger in un suo vecchio lavoro del 1951, anteriore quindi alle nuove scoperte sul Pittore di Pronomos e sui suoi compagni cultori di miti greci, nel passare in esame i pittori attici diffusi sulle coste dell'Egeo ha affrontato la grande imagerie o iconografia vascolare del IV secolo. Di rilievo l'arricchimento del mito di Eracle (apoteosi in primo piano), quello dei miti di Afrodite e specialmente di Eros che si va distaccando dalla figura della madre, l'affermazione di Apollo con le istanze nuove circa la figura divina (la ben nota apollonisation di recente accentuata da J.M. Moret), l'espansione della cerchia mitica dionisiaca ed eleusina, tutti temi ripresi in esame dal Metzger anche in un'opera del 1965. Ritornando al Pittore di Pronomos si ricorda che B.B. Shefton ha ristudiato ampiamente un cratere a campana da Baksy in Crimea, ora a San Pietroburgo, mettendone per la prima volta in rilievo l'importanza puntuale dell'evocazione del mito di Atena e di Zeus nella scena dell'apoteosi di Eracle, che richiama elementi precisi del frontone occidentale del Partenone. È questa appunto una riprova, fra le tante, dell'ampliata visione iconografica di alcuni fondamentali episodi mitici verso la seconda metà del IV secolo. Alla cerchia del Pittore di Pronomos si assegna l'anfora del Louvre da Melos con Gigantomachia, attribuita appunto al Pittore di Suessula, con le quadrighe degli dei che lottano contro i giganti. Sul lato Β la quadriga di Ares, guidata da Afrodite, presenta sulla groppa dei destrieri un piccolo Eros. È un dettaglio, naturalmente, che qui però ha un preciso valore;, perché il tipo dell'Eros con arco e frecce appare già sulla metopa XI del lato E del Partenone. Si tratta di una piccola spia che induce a ritenere che la scena dell'anfora sia ispirata da una delle realizzazioni della scuola fidiaca. A questa corrente di pittori certamente vicini ai miti evocati anche da rilievi e sculture fra la fine del V e i primi decenni del IV sec., appartiene anche il Pittore di Talos. Il nome è dovuto al famoso cratere a volute di Ruvo, in cui è resa la morte del figlio di Efesto sostenuto dai Dioscuri. La sua officina, che crea crateri a calice, risente già di una prevalenza di schemi plastici. Sul cratere a campana di Villa Giulia, l'apoteosi di Eracle nell'Olimpo rispecchia tali tipologie.
In questa grande koinè che si sta sviluppando dall'Attica alle coste asiatiche in genere, dal Mar Nero alla Magna Grecia (anche se in Italia meridionale, ormai, si realizza un'imponente produzione vascolare locale), non mancano prodotti notevoli (come quelli del Pittore di Pronomos) e si afferma un'artigianato vascolare chiamato dei pittori di Kerč (dalla località corrispondente a Panticapeo antica in Crimea), ai quali lo Schefold ha dedicato due importanti ricerche e che oggi sono abbastanza noti grazie all'interesse suscitato anche da ricerche sovietiche.
Il mito degli Arimaspi in lotta contro il grifo (o i grifi), il mito delle Amazzoni, presenti già nella ceramica a figure nere, arricchiti da una prevalenza assoluta di elementi orientali fortemente accentuati (nel c.d. stile di Kerč), evidenziano i contatti dell'Attica con le culture figurative delle coste del Mar Nero e in genere asiatiche. La coppa di Meleagro e Atalanta (del Pittore c.d. di Meleagro) è uno fra i molti esempi del mutamento di concezione cromatica che si verificò nella prima metà del IV secolo. Il giovane dio, in uno schema di ebbrezza che deriva da una tipologia comune anche ai satiri, è sostenuto dalla giovane sposa; tutto intorno motivi decorativi dionisiaci come l'edera e sovrapposizioni dorate appena accennate dimostrano quanto sia cambiato, sotto lo stimolo della pittura di cavalletto, il senso della decorazione cromatica. Le corone sono addirittura paonazze; e la complessa elaborazione delle pieghe del panneggio di Arianna riporta allo stile del Pittore di Meidias, lievemente appannato da un'impazienza disegnativa alla quale l'aggiunta del colore cerca di ovviare. La personalità di questo pittore, finora considerata piuttosto modesta, acquista ora nuovo spessore grazie all'acquisizione di uno straordinario documento della sua attività. Si tratta di un cratere con volute, con piede lavorato a parte, di forma piuttosto sferica (una sorta di dìnos), decorato a baccellature plastiche sul corpo nero e con scene figurate sui due lati del collo e sul piede.
Da una parte è raffigurato Adone semisdraiato e attorniato, probabilmente, da Afrodite e Persefone; dall'altra sono tre coppie di banchettanti in gesti di festosa ebbrezza. Sul piede ancora due cornasti, con quattro menadi e cinque satiri che attorniano Sabazio e Dioniso. La grossa novità costituita dalla forma di questo vaso, la cui provenienza, come al solito, non è nota, contribuisce a fare nuova luce sullo stretto legame che unisce i pittori attici del IV sec. con la Magna Grecia e potrebbe suscitare interessanti considerazioni su questo problema.
Il Pittore di Elena, chiamato così dal cratere a calice con anse fortemente ricurve di Monaco 2388 in cui sembra rappresentato Paride a colloquio con Elena e al quale è anche attribuita una idria di San Pietroburgo con Posidone e Amimone, si ispira, come i suoi contemporanei (o quasi) intorno alla metà del IV sec., a modelli plastici famosi: p.es. la danza di Nike velata che ritroviamo nei rilievi ben noti della balaustra di Atena Nike. Ma l'evento è ridotto a un colloquio fra due giovani, e l'atmosfera surreale di certe scene del V sec. si trasforma in un'occasione di incontro. Uno dei pittori più singolari per sensibilità cromatica e per un'attenzione accentuata alla struttura dei vasi (idrie, crateri a calice, lekànai, pelìkai) è il Pittore di Marsia, chiamato così dal cratere a calice da al-Mina con l'episodio di Marsia alla presenza di Apollo. L'altezza del vaso, di ben 61 cm, si ripete anche nella pelìke E 424 di Londra con la scena delle nozze di Peleo e Teti. L'attenzione raffinata per la tettonica vascolare si accompagna a quella per la policromia ottenuta con varianti, p.es., del rosso nella figura di Afrodite, diverse rispetto alle varianti usate per le altre protagoniste della scena. Sia sulla pelìke con le nozze, sia sul lebete nuziale di San Pietroburgo con scena della preparazione delle nozze, le figure sono ispirate a tipologie ben note proprie della scultura contemporanea, come quella di Teti accovacciata, o quella della donna avvolta nel peplo (chiamata alquanto fantasiosamente «la castità»), assai probabilmente una danzatrice. Queste scene si ispirano alla scultura di grandi maestri come Prassitele e Scopa. Ma è evidente che nell'insieme si richiamano alla vita quotidiana di determinate categorie sociali colte nei vari momenti della giornata. È sempre più affiora una concezione dell'esistenza femminile diversa rispetto a quella espressa nel secolo precedente. Veri e propri bozzetti insomma che si affiancano alle scene c.d. eleusine, nate dal rinnovato interesse verso l'aspetto misterico della religione attica del IV secolo. Tale sembra che sia anche il senso della rappresentazione assai semplice, ma dall'ambientazione assai raffinata, sul chous di New York raffigurante Dioniso giovane con tirso, maestosamente seduto, che osserva una graziosa figura femminile in atto di sollevare un lembo del peplo sulla spalla destra, la quale a sua volta volge il capo verso il dio. Il nome dipinto che la individua è Pompè, ossia la personificazione della processione stessa in onore di Dioniso. Quindi si deve intendere come un accenno simbolico, certo, ma tratto da un tipo di rito che assume sempre di più anche l'aspetto di una realtà sacrale vissuta. A fianco è un canestro sacro spesso usato nelle processioni religiose che si ritrova, p.es., nella pompè riprodotta sul famoso cratere del Pittore di Kleophon da Spina. In questo secolo l'apertura verso espressioni artistiche come la pittura non solo parietale, ma «di cavalletto» fa arrivare agli ateliers del Ceramico nuovi stimoli di policromia e di tecnica coroplastica. Le aggiunte plastiche, rese in argilla e poi colorate, richiamano le tecniche utilizzate dalle oreficerie per i metalli preziosi. E i famosi vasi di argento dorato di Derveni avvertono che una nuova concezione della lavorazione della terracotta si sta organizzando sulla scia delle oreficerie ellenistiche. Ecco sorgere anche, basata sull'imitazione del metallo, la tecnica delle ceramiche c.d. megaresi e beotiche sulle quali vengono raffigurati miti omerici interpretati secondo il gusto ellenistico.
Ormai la tradizione mitologica attica non riesce più a dominare l'apertura verso nuovi schemi figurativi, determinata sia dalla crescente influenza formale della pittura di corte fiorita in Macedonia e sulle coste mediterranee dei regni ellenistici, sia dalla profonda trasformazione sociale dell'artigianato del Ceramico. Entrano a far parte del nuovo Ceramico officine che realizzano piccole forme con scene sempre minute, rese nelle tecniche del rilievo applicato. L'evocazione della mitologia olimpica si dissolve di fronte alla formazione di una cultura ellenistica in cui i valori si concentrano nell'esaltazione della figura umana, studiata nella totalità delle sue espressioni. Così la ceramica attica e i miti che essa aveva saputo divulgare con tanto fascino, scompaiono per sempre. Alla domanda posta da uno studioso sull'esistenza o meno di una fede dei Greci nei loro miti non si può rispondere in senso assoluto; ma si deve riconoscere che, in certi momenti del VI e del V sec. a.C., vi hanno creduto, o almeno ne hanno resa palpitante e vivida l'immagine. La ceramica attica del periodo più alto, fra VI e V sec., dimostra quale importante funzione, sia politica che sociale, sia stata attribuita ai grandi miti omerici, tebani, peloponnesiaci, come inquietante simbolo dei tragici eventi storici contemporanei.
Per una storia della ricerca. - Questi cenni non vogliono essere che una traccia per l'identificazione degli aspetti salienti dell'indagine storica sulla ceramica greca. Se qualcuno oggi volesse cercare nella Storia delle arti del disegno presso gli antichi di J.J. Winckelmann, traccia delle conoscenze, alla metà del XVIII sec. e poco oltre, sulla ceramica greca, resterebbe naturalmente deluso. Le pagine dedicate in quell'opera al problema, non vanno al di là di una considerazione antiquaria e di scarse notizie su pochi vasi appartenenti a grandi collezioni del tempo, p.es. quella di Lord Hamilton illustrata da P. d'Hancarville (di cui si parla nel libro III, cap. IV, p. 220-238 dell'edizione del 1783, curata da Carlo Fea). Più tardi, verso la metà del secolo scorso G.T. Dennis (nella I ed. del libro Cities and Cemeteries of Etruria, Londra 1848) accennava al grande valore dei vasi greci, sia nell'opinione degli antichi che nella concezione moderna. Non si vuole qui ripercorrere questo filone di concetti più o meno simili che il Vickers ha analizzato in una memoria poco nota del 1987. Ci si baserà soprattutto, per quanto riguarda il secolo scorso, sulla figura, essenziale sotto tanti punti di vista, di Otto Jahn; essenziale per comprendere come, per la prima volta e per suo merito, la ceramica greca divenga una fonte storica e antiquaria di fondamentale valore scientifico. Molto si deve certamente a Eduard Gerhard, fondatore, come è noto, nel 1828, insieme con eruditi tedeschi e italiani, dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma che più tardi doveva sfociare nel vero Istituto Archeologico Germanico ancora oggi attivo. Fra le sue attività scientifiche e organizzative (di gran rilievo come è stato riconosciuto) è da ricordare non soltanto la fondazione della Società degli Iperborei, ma soprattutto la stesura di quel Rapporto Volcente in cui per la prima volta venne asserita l'origine greca della ceramica rinvenuta negli scavi di Vulci. La raccolta e descrizione di vasi diede luogo agli Auserlesene Vasenbilder iniziati nel 1839, e seguiti più tardi da ben altri tre volumi con disegni. Su questa e altre raccolte di figure si baserà, a partire dal 1890, la Griechische Vasenmalerei del Furtwängler.
Ma la definizione dell'archeologia come una «filologia monumentale» non poteva certamente condurre il Gerhard, rappresentante del «romanticismo realistico» con C. O. Müller, a un'analisi approfondita della ceramica attica.
Il primo studioso che ebbe un'idea storicamente esatta del significato della ceramica greca, è stato Otto Jahn (1813-1868). Tali considerazioni sono ampiamente esposte in una ormai celebre introduzione al catalogo dei vasi greci della collezione del Museo di Monaco (Beschreibung der Vasensammlung König Ludwigs in der Pinakothek zu München, Monaco 1854, introduzione pp. VII-CCXLVI, 116 pp. nell'edizione del 1871, e 118 in quella del 1875). Salomone Reinach, nel citare nel suo manuale di filologia classica questa introduzione, diceva che essa «aveva fatto epoca». Per la prima volta nella storia degli studi sulla ceramica greca, l'autore, liberandosi dall'incerta erudizione di un Letronne o di un Tischbein, si dedicava a un'ampia rassegna storica dei rinvenimenti, passando in esame le collezioni già formate di vasi greci e le notizie che si avevano sulle necropoli greche, da Atene, alle Cicladi, all'Asia Minore, a Panticapeo nel Bosforo Cimmerio, e infine alla Sicilia (rendendo note le scoperte di Gela, Camarina, Selinunte, mentre per Siracusa i vasi sono indicati come «non numerosi»: le scoperte di Orsi erano ancora lontane). Un'analisi minutissima delle scoperte in Magna Grecia, a partire da Locri e salendo fino alla Puglia, alla Lucania, alla Campania, al Lazio e all'Etruria in genere, documenta una consapevolezza storica dei rinvenimenti ben lontana dalla generica informazione dell'erudizione di stampo settecentesco, ancora imperante. Un esame dettagliato delle iscrizioni vascolari (pp. cxxi-cxxvii) induce Jahn ad affrontare un tema nuovo per il suo tempo, quello della formula ἔγραψεν e έ- ττοίησεν, quindi della differenza tra pittori vascolari e vasai. Per la prima volta viene redatto un elenco di pittori vascolari servendosi, si capisce, del solo aiuto delle iscrizioni, e sfiorando un argomento che sarà ripreso assai più tardi, nei primi decenni del Novecento (Langlotz). Ma è lo Jahn ad avere individuato, nelle scoperte di Ludwig Ross lungo il fianco meridionale del Partenone, nella c.d. colmata persiana, la possibilità di una cronologia differenziata fra lo stile a figure nere e quello a figure rosse. Si accennerà più avanti al dibattito recente su questo problema e alle difficoltà espresse da alcuni studiosi nell'accogliere tale teoria. Si ricorda tuttavia che Jahn ha diviso la ceramica greca a figure rosse in fasi, a partire da quella arcaica (520-480 a.C.), che sono tuttora, e in larga parte, accolte. Anche la giusta valutazione del vaso François come greco, che al giorno d'oggi sembra ovvia, è sostenuta dallo Jahn contro strane attribuzioni ad ambiente egizio od orientale ventilate al momento della scoperta. La lotta contro il dilettantismo di alcuni suoi contemporanei (Letronne o Panofka p.es.) è uno dei temi ricorrenti in questo saggio. Esso ha il grande merito di avere fondato la ricerca non su generiche e vaghe impressioni estetiche, ma su strutture storicamente documentate usando, nelle esegesi delle scene figurate, un metodo di tipo filologico che lo studioso aveva elaborato e perfezionato lavorando sui testi greci e assimilandolo sia dalla scuola dello Heyne sia da quella del Welcker. «La nostra introduzione», dice Jahn dopo avere constatato che la definizione di archeologia come scienza che si propone di indagare la società antica in tutti i suoi aspetti, fra i quali non può mancare l'attività artistica, «non coincide con quella estetica in nessun modo, [...] analogamente reagisce sia al simbolismo delle interpretazioni mitologiche sia ai vaghi tentativi estetici, privilegiando invece il significato storico e antiquario delle scene figurate dei vasi greci.» Sembrano ormai affermazioni ovvie, ma allora non lo erano affatto.
Molte considerazioni dello Jahn ispireranno gli studi della fine del secolo scorso e dei primi decenni di questo.
Nel 1893 Paul Hartwig affrontava in una grande rassegna, la pubblicazione delle coppe (kỳlikes) di stile severo, con un'illustrazione adeguata e con una presa di posizione sul contrastato problema dei kalòi e delle loro acclamazioni che dovevano suscitare gli interessi del Klein nel 1898. Lo Hartwig formulava in quel libro una specie di norma per l'interpretazione delle iscrizioni vascolari secondo la quale i vasi con il nome dello stesso pittore dovevano essere compresi nei limiti della sua attività calcolata in dieci anni circa. Qualora fossero comparsi i nomi di due pittori, essi evidentemente dovevano essere contemporanei. Le prime grandi analisi delle scene figurate su vasi operate dallo Hartwig, che poi collaborò anche alla Griechische Vasenmalerei del Furtwängler, sono ancora oggi consultabili per quanto concerne le didascalie e l'esegesi assai penetrante, ma non altrettanto valide, ormai, per le interpretazioni dei contenuti figurativi. Hartwig è comunque un grande conoscitore del commercio antiquario del tempo e il libro è fondamentale per la conoscenza dello stile severo nella produzione di kỳlikes.
Sussidio ancora validissimo alla conoscenza scientificamente corretta della ceramica greca (p.es. i vasi di Kerč) è la Griechische Vasenmalerei uscita fra il 1890 e il 1925, sotto la direzione scientifica e il contributo del Furtwängler (fino al 1907) e poi del Buschor, e dovuta anche a collaboratori varî tra i quali si annoverano lo stesso Hartwig, Hauser, e naturalmente Buschor. La novità è costituita dall'accompagnamento di grandi tavole disegnate da Reichhold, uno dei pochi eccellenti disegnatori di vasi, assieme al francese Gilliéron, efficace ma non sempre esatto, e all'italiano Rosario Carta, collaboratore incomparabile di Paolo Orsi, ammirato anche in Germania dallo stesso Reichhold e dal Furtwängler (come risulta dai taccuini ancora inediti di Orsi a Siracusa). La riproduzione in grandi tavole in bianco e nero dei dettagli e dell'insieme delle raffigurazioni vascolari, in decenni in cui la fotografia faceva le sue prime timide apparizioni nel campo della ceramica greca, è stata, per quel tempo, un eccellente mezzo di studio. Lo Skizzenbuch del Reichhold, con tavole di disegni di dettagli anatomici dalle figure dei grandi ceramografi, con la sua minuta analisi delle creazioni vascolari, è comparabile in qualche misura alle dettagliate note con disegni del Beazley. Ma la raccolta del Furtwängler, nonostante la pregevole edizione critica di celebri vasi del Pittore dei Niobidi, di Polygnotos, del Pittore di Pronomos (per non citare che alcuni), non pone problemi sistematici né pretende di esaurire il vasto campo della produzione vascolare attica, ma vuole offrire piuttosto un modello di edizione critica di grandi pezzi, che deve molto all'analisi disegnativa del Reichhold e alla tradizionale capacità esegetica di illustri cultori della ceramica greca; essa non affronta tuttavia problemi specifici di metodo.
Prima di analizzare le trasformazioni negli studi dovute all'attività del Beazley, svoltasi nell'arco di circa mezzo secolo, sarà necessario non trascurare la figura di un archeologo la cui formazione culturale si situa nella Germania guglielmina, ed esattamente nell'ambiente filologico e archeologico dominato dalle figure di Jahn e di Wilamowitz Moellendorf. Si tratta di Carl Robert, nato a Marburgo nel 1850, ma cresciuto come studente a Bonn, ancora in tempo per ascoltare le lezioni di Jahn e di un archeologo e mitologo come Friedrich Gottlieb Welcker; passò poi a Berlino, anche qui alla scuola di celebri maestri come Mommsen, Curtius e Kirchhoff. Dotato di grande cultura letteraria greca e capacità innovativa nel campo degli studi sul teatro antico e anche moderno, Robert è il primo a dare una svolta alla ricerca sulle fonti della trilogia eschilea della Orestea, valutando appieno il contributo di Stesicoro. Malgrado sia ormai questo un dato acquisito, le osservazioni di Robert erano per la sua epoca precorritrici. In Bild und Lied (Berlino 1881), per la prima volta dopo Welcker, lo studioso trentunenne raccoglie le testimonianze archeologiche figurate della ceramica del V sec. sulle drammatiche vicende della famiglia di Atreo, e le mette in rapporto con la poesia tragica; un'operazione filologica e di esegesi archeologica che sarà poi il nucleo centrale del libro del Séchan del 1926 (La tragédie grecque dans ses rapports avec la céramique, Parigi 1926). Non si dimentichi che il Robert sarà anche lo studioso della Ilioupèrsis polignotea di Delfi (attraverso una ricostruzione anche grafica, di gran moda al suo tempo, delle pitture della Lesche degli Cnidî, sulla scia della famosa ricostruzione goethiana), mostrando una tendenza a indagare il rapporto fra poesia e arte figurata che avrà nel nostro secolo sviluppi impensati.
Su questa stessa linea dunque si pone il libro di Louis Séchan seguace, benché fondamentalmente filologo, di E. Pottier, studioso dei vasi greci del Louvre, illustratore delle lèkythoi a fondo bianco e poi direttore della École du Louvre dove Séchan sarà allievo fra maestri come Paul Girard, Paul Mazon (filologo) e Charles Dugas. Anche Séchan, nell'introduzione ricchissima di idee, dibatte il problema robertiano: influenza della poesia sull'arte (rifacendosi a vecchie idee di Clermon-Ganneau) o dell'arte sulla poesia? Il termine «filologia archeologica» usato dal Pottier in due saggi del 1894 e del 1895, spiega il formidabile libro di Séchan. Benché oggi assai criticato per quanto riguarda specialmente la ceramica italiota, esso resta un punto fermo per le solide analisi delle tragedie eschilee, sofoclee ed euripidee. I deboli tentativi avanzati in opere di divulgazione scientifica di questi ultimi decenni, non sostituiscono affatto il libro di Séchan.
Nel 1918 Robert dava alle stampe un libro fondamentale: si tratta della Archaeologische Hermeneutik, Anleitung zur Deutung der klassischen Bildwerke, Berlino 1919 (ed. it. Ermeneutica Archeologica, con introduzione di P. E. Arias, Napoli 1976), una raccolta di lezioni e seminari, nata dalle insistenze di Georg Wissowa sull'amico Robert. Il lavoro, fondato sul semplicissimo trinomio «vedere, disegnare, descrivere», avrebbe potuto essere scritto, in un certo senso, dallo stesso Beazley il quale sentiva la necessità di rendere visiva la memoria di quanto egli andava confrontando in tutti i musei del mondo. Il libro è ben noto alla scuola positivistica dominante nei primi decenni del nostro secolo attraverso l'insegnamento loewyano in Italia. Dalla denominazione delle figure, utilizzando criteri di interpretazione che possono basarsi sulla semplice rappresentazione o sullo studio del mito o delle fonti letterarie, oppure analizzando l'ambiente, la sistemazione, il luogo di rinvenimento od operando confronti e deduzioni da forme mitiche non tramandate, è possibile giungere, dice il Robert, all'integrazione di scene figurate frammentarie, e quindi individuare le cause delle esegesi errate. Insomma, un manuale sistematico per l'interpretazione che si serve di rappresentazioni vascolari ma anche di gemme, di monete, di pitture pompeiane, di codici miniati, ecc., per giungere infine all'identificazione dei falsi o delle integrazioni errate non infrequenti, come è noto in materiali trasmessi dal commercio antiquario. Il libro è ancora fondamentale per chi voglia risalire la via faticosa ma gratificante della esegesi delle scene vascolari, sia pure tenendo conto oggi della maggiore ricchezza di confronti e dell'esistenza del prezioso strumento del Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae (Zurigo-Monaco, dal 1981). Ma il metodo per attuare la ricerca, nonostante questi strumenti di impareggiabile utilità, è sempre lo stesso. Non sarà tuttavia da dimenticare che Jean-Marc Moret ha recentemente ripreso il tema, già del resto affrontato nel libro sulla Ilioupèrsis (1975), in un saggio su Edipo e la sfinge. Dopo un ampio catalogo delle rappresentazioni figurate di Edipo e della sfinge, l'autore torna al quesito più volte formulato chiedendosi se la fonte letteraria possa costituire una base attendibile sulla quale ricostruire la rappresentazione del mito o se invece non occorra ipotizzare una libera interpretazione, più o meno volontaria, da parte dell'artista o artigiano, nel rendere la raffigurazione.
Naturalmente qui non si entra nel merito della validità di questa teoria; basta rilevare che siamo ormai ben lontani da Robert, e che il «Lied» tante volte invocato dallo studioso e messo in rapporto con l'Orestea soprattutto, è in crisi.
Non è inutile ricordare anche uno studioso assai noto in Italia agli inizi del secolo, Emanuel Loewy, che fu per diversi anni docente a Roma di Archeologia Classica e che si occupò del libro del Langlotz in una memoria del 1938 (Der Beginn der rotfigurigen Vasenmalerei, Vienna- Lipsia 1938) sul tema dell'inizio dello stile a figure rosse. Da un'analisi delle sculture di Efeso e di Egina, e da altre considerazioni sui rilievi del Tesoro degli Cnidî a Delfi, non si può dedurre una cronologia quale il Langlotz propone, dice il Loewy, né tanto meno essa si può dedurre dal fatto che sia stata rinvenuta ceramica a figure rosse a Mileto, distrutta nel 494. Lo studioso dubita, inoltre, che grandi pittori come Polygnotos e Mikon si siano formati dopo il lungo travaglio rappresentato dal periodo pisistrateo; reputa piuttosto che siano il frutto immediato del nuovo stile affermatosi dopo le guerre persiane. Di qui la proposta di datare il mutamento dalle figure nere alle rosse successivamente al 480 a.C., perché anche i risultati delle analisi dei frammenti della colmata persiana, sulla quale si fondano per la cronologia sia Studniczka che Langlotz, sono tutt'altro che sicuri. Si riprenderà il discorso più oltre, perché questa teoria è stata rinnovata recentemente e ha dato luogo a discussioni. Lo stesso Loewy è autore anche di un libro su Polygnotos di Taso (Polygnot. Ein Buch der griechischen Malerei, Vienna 1927) che ha suscitato scarsi consensi e si è fondato sulla novità stilistica delle scoperte dei rilievi di Gölbaşī Trysa; in essi ritornano temi già affrontati da Polygnotos, come l'Amazzonomachia, il ratto delle Leucippidi, l'uccisione dei Proci, l'llioupèrsis. I rilievi, a suo parere, possono dare un'idea dell'èthos della pittura polignotea quale probabilmente emergeva dalle pitture parietali (e non pìnakes lignei come qualcuno ha sostenuto) della Lesche delfica degli Cnidî. Il positivismo tipico del Loewy sembra avere prevalso anche qui sul problema dei rapporti fra immagine e fonti letterarie. La Isler-Kerényi, nel concludere un'analisi dei contributi dati alla ricerca sulla ceramica greca agli inizi del nostro secolo, asserisce che in quel tempo ci si poteva ancora illudere che l'accresciuta conoscenza di rappresentazioni vascolari di grandi dimensioni (crateri di pittori come quello di Altamura, dei Niobidi, e delle officine di Polygnotos il ceramografo) potesse dare un contributo consistente alle gravi carenze di dati concreti sulla perduta pittura parietale ateniese. Invece non è così. L'analisi delle attività artigianali, di livello modesto, era stata trascurata; dovevano passare diversi decenni prima che si realizzasse un diverso tipo di approccio ai problemi reali della ceramica attica.
Una visione abbastanza nuova, per il suo tempo, ebbe Franz Winter quando, nel 1885, delineò i rapporti fra la ceramica greca a figure rosse e la grande arte del V secolo. Erano anni nei quali gli scavi dell'Acropoli cominciavano a dare, insieme con le scoperte in Attica, una visione nuova della scultura. Su questa linea anche Franz Studniczka, poco più tardi, delineava i rapporti fra le korai e la ceramica, seguito dal Milchoefer che apportava alcune correzioni alle idee del Winter. Ma la ricerca di solidi appoggi per la cronologia del periodo più delicato della ceramica, nella fase di passaggio dalle figure nere a quelle rosse, da tutti ormai intuita come fondamentale per comprendere meglio l'arte del periodo dei Pisistratidi, è ancora basata sulla dissertazione del Langlotz (Zur Zeitbestimmung der Strengrotfigurigen Vasenmalerei u. der gleichzeitingen Plastik, Lipsia 1920) rivolta appunto alla Zeitbestimmung o determinazione cronologica dell'attività dei ceramisti chiamati, più tardi, i «pionieri» di quell'artigianato dal Beazley.
Lo studio del Langlotz nasce proprio da quello stesso terreno già dissodato dallo Studniczka, suo maestro; si può far risalire all'intenzione personale di Jahn che aveva ampiamente suggerito un metodo di ricerca filologica non disgiunto da una rigorosa collocazione storica dei documenti (iscrizioni, analisi dei miti) e del rapporto fra scoperte monumentali, sculture, tombe con vasi e fonti storiche.
Due quindi sono gli elementi fondamentali utilizzati al tempo della ricerca (1920) dal Langlotz; la «colmata» persiana, nota fino dai tempi delle indagini sull'Acropoli del Ross (1852) e, come vedremo oltre, non sempre accolta oggi come documento cronologico valido, nonché le scoperte del tumulo di Maratona dove, prima lo Schliemann (senza però capire il significato importante di quel materiale rinvenuto) e poi lo Stais (1893) avevano rivelato ceramiche a figure nere e rosse, confermando quanto già era stato intuito, cioè l'esistenza di un profondo mutamento tecnico avvenuto probabilmente nei due decenni precedenti la battaglia di Maratona del 490. Il terzo fattore importante per una solida cronologia della ceramica greca è basato sul confronto con la scultura della fine dell'arcaismo e dell'inizio dello stile severo; fattore che lo Jahn aveva appena intravisto. Negli anni Venti del nostro secolo l'analisi più approfondita delle colonne dell'Artemìsion di Efeso (560-546) aveva offerto una chiave di lettura di certi atteggiamenti stilistici dei pittori intorno alla metà e poco dopo il VI sec. (il tardo Sophilos, Lydos, il Pittore di Amasis, Exekias). Seguivano la rivelazione del fregio del Tesoro dei Sifni a Delfi (530-25 a.C.), e gli studi sul gruppo dei Tirannicidi di Kritios e Nesiotes, che aveva sostituito, forse poco dopo il 480, quello di Antenor. Queste nuove ricerche permettevano di comprendere meglio l'evoluzione dell'arte greca tardo-arcaica.
John Davidson Beazley. - Agli inizî del secolo, dopo le straordinarie ricerche di O. Jahn si sentiva ancora, tuttavia, la necessità di nuove sistemazioni dell'enorme patrimonio archeologico che andava emergendo dalla Grecia e dall'Italia centrale e meridionale. È proprio in questo periodo si fa luce l'altra grande figura di studioso, J. D. Beazley, di formazione assai diversa, il quale affronta con una sistematica indagine del tutto innovativa il problema dei vasi greci.
Esempi della sua costante volontà di osservazione sono i saggi fondamentali sul Pittore di Eucharides, sul Pittore di Berlino e sul Pittore di Achille. L'analisi dei dettagli anatomici raffigurati sullo stàmnos di Copenaghen del Pittore di Eucharides e sugli altri vasi attribuitigli, nonché la valutazione del Pittore di Nikoxenos, inizialmente non distinto dal Pittore di Eucharides, poi ritenuto suo maestro, danno luogo a vivaci intermezzi ironici sulla sua stessa capacità di studioso. L'ironia del Beazley ha la funzione quasi di demolire quello che realizzava la sua sottile matita, infallibile nei disegni a mano a mano eseguiti davanti ai pezzi ovvero a memoria, come fu costretto a operare quando, nella prima visita a Villa Giulia a Roma, gli fu impossibile vedere i vasi attraverso le vetrine. Per avere un'idea del cammino talora apparentemente tortuoso che Beazley compie nel ricostruire le personalità stilistiche di celebri pittori vascolari, si possono utilmente leggere le /ricerche sul Pittore di Achille e su quello di Berlino. Nella prima, del 1914, parte da due lèkythoi, isolate fino ai suoi tempi, di Bruxelles e di Atene, per giungere proprio alla grande anfora vaticana con Achille-Doriforo: questi vasi compongono il nucleo centrale della produzione del pittore. L'osservazione di partenza era la presenza di molte lèkythoi a figure rosse realizzate con uno stile assai personale oggi ben noto, anche in Sicilia. E così, nello studio sul Pittore di Berlino (riedito recentemente da Donna C.Kurtz con un esame analitico dei numerosi disegni e schizzi eseguiti da Beazley sui vasi del pittore), egli inizia con la rappresentazione di un'anfora di tipo panatenaico (ma non panatenaica) sulla quale è un citaredo e dall'altra parte un giudice di gare atletiche, ed estende poi i confronti al modo di trattare i panneggi e i dettagli anatomici. Beazley riesce così a stabilire un «sistema» che si concretizza nella catalogazione di un complesso di vasi appartenenti forse alla stessa personalità o scuola; si giungerà a 135 attribuzioni e poi a 235. Appaiono a prima vista evidenti le perplessità che queste attribuzioni (condensate poi nei grandi cataloghi^ della ceramica a figure nere e rosse, pubblicati nel 1956 e nel 1963, e in diversi supplementi) hanno suscitato. Per primo il Robertson (Beazleys' Use of Terms, in Beazley, Addenda, pp. xil- xx), che pure è stato fra i più attenti seguaci del Beazley, ha puntualizzato l'incertezza di certe espressioni usate spesso nelle non frequenti trattazioni generali di problemi su singoli artisti; p.es. i termini utilizzati a proposito di artisti vicini fra loro. Un vero e proprio lessico costituito da espressioni di cui il Robertson non riesce, nonostante la cura estrema con cui procede, a chiarire l'originario senso che Beazley intendeva attribuire ai singoli termini. «Consanguineo», «imparentato», «in relazione», «fratello», «della cerchia», «classe», «gruppo», «vicinanza», «comparabile», «connesso», «seguace», «imitatore», «copia», «influenza», «sequenza», «maniera», «vicino a», «pupillo», «richiama», «scuola», «stile», «protetto», «officina». Sono stati qui ricordati questi famosi termini che, considerati singolarmente appaiono piuttosto simili e generici, ma nel complesso della ricerca minuziosa condotta sulle varie personalità conducono a importanti risultati. Lo si deve riconoscere anche nel mare di perplessità in cui l'immensa ricognizione beazleyana trascina; ma proprio in tal modo è stato possibile procedere a una classificazione, senza la quale non ci sarebbe stato un discorso articolato e una storia di questo grande artigianato.
Negli anni successivi al i960 ci fu anche in Italia una discussione che occupò alcune annate della rivista Archeologia Classica sul significato del termine «artista» nell'antichità. Senza lasciarsi fuorviare da altre accezioni si deve riconoscere che, per quanto riguarda la ceramica greca, la parola, usata troppo spesso specialmente in inglese come già notava Bianchi Bandinelli, non può designare appieno tutti gli operatori di questo artigianato. Robertson oggi, riprendendo il problema, giustamente ribadisce che per gli antichi, come del resto nel Medioevo e nel primo Rinascimento, la creazione artistica non differiva dalla produzione artigianale, collegate come sono entrambe a un'identica attività manuale. Ma che le creazioni di un Pittore di Berlino o di Kleophrades debbano considerarsi opere eccellenti nel campo della ceramica, e quindi possano dirsi artistiche, è altrettanto indubbio. Beazley, col suo livellamento classificatorio, senza volerlo mette alla pari un artista come Euphronios col Pittore del Ragazzo Grasso, uno dei più prolifici e umili artigiani del IV secolo. Ciò non toglie che lo studioso, malgrado la sua tendenza analitica, sapeva bene quale differenza esistesse fra le due categorie di artigiani.
Scomparso poco più di vent'anni or sono, J.D. Beazley ha lasciato una traccia che ancora condiziona le ricerche più interessanti sulla ceramica greca; strumento base è l'istituzione del Beazley Archive, affidato alle cure di J. Boardman e di Donna C. Kurtz. Ma, nello stesso tempo, proprio all'ombra di Oxford è cresciuta a opera di due studiosi, uno inglese, Michael Vickers, e uno americano, E.D. Francis, una reazione di carattere storico e metodologico che ha trovato vasta eco nell'ambiente degli specialisti del settore. La critica più serrata è stata condotta contro alcune «certezze» cronologiche, principalmente sui due edifici risalenti al periodo finale dell'arcaismo greco e considerati finora un punto fermo per stabilirne la cronologia, cioè il Tempio di Apollo Daphne- phòros a Eretria e il Tesoro dei Sifni a Delfi. Datati da Langlotz e da altri intorno al 530-20 a.C., secondo i due studiosi vennero invece edificati intorno al 490. È vero che Erodoto (νι,ιοι) permette di fissare la distruzione del tempio di Eretria al tempo della spedizione persiana del 490, seguita alla rivolta ionica e destinata a punire gli Eretriesi per averla sostenuta. Ma gli studiosi che vi hanno scavato hanno stabilito che la datazione dell'edificio, con le sculture frontonali raffiguranti le amaz-
zoni, Antiope loro regina, Teseo e Atena debba e possa risalire al 510-505 a.C. Francis e Vickers sostengono che si tratta di un tempio ricostruito dopo il 198 a.C. Ma le argomentazioni addotte da Boardman, basate sulle iscrizioni, che non parlano di tempio bensì di hieron, cioè di un recinto che circonda un'area sacra (per la quale bastava un semplice altare) e sull'amazzone rinvenuta nel terreno di Villa Ludovisi in Roma, che potrebbe essere il frutto del saccheggio di Eretria perpetrato dal fratello di T. Quinzio Flaminino (cfr. Liv., xxn, 16, e Paus., vii, 8, 1), di sicuro hanno ¡alquanto scosso la teoria dei due studiosi. Sembra certo che il saccheggio, di cui sono rimaste le tracce nelle sculture, sia proprio quello della distruzione persiana e non sia dovuto alla devastazione posteriore destinata a stroncare gli Eretriesi per fini assai lontani da quelli persiani, in un'atmosfera politica di ben differente temperie strategica e politica. Ancora meno attendibile appare la teoria dei due studiosi secondo la quale il Tesoro dei Sifni a Delfi e le relative sculture sarebbero coevi al tempio di Eretria, e non anteriori di sessanta anni. I rilievi del Tesoro, datati generalmente intorno al 525-30, a parere di Francis e Vickers non sarebbero prova, come sostenuto dal Langlotz, della cronologia alta dell'inizio della ceramica a figure rosse (Oltos, Euphronios, ecc.). La fase iniziale dovrebbe essere spostata al 470. Si è prodotta così una confusione di cronologie che già Boardman con R.M. Cook e altri, denunciano come assurde. Anche gli argomenti portati a proposito del gruppo dei Tirannicidi e quelli dedotti dalle monete attiche con la civetta, che vengono usati dagli autori a conferma del loro abbassamento di cronologia, sono stati ampiamente contraddetti. Non resta quindi che accogliere ancora, con qualche adattamento suggerito da un intervento breve e intelligente di Canciani, la datazione a suo tempo proposta e sostenuta dal Langlotz.
Un'altra teoria assai nuova è stata sostenuta dagli stessi autori (e poi dal solo Vickers, essendo il Francis nel frattempo immaturamente scomparso), secondo la quale la ceramica a figure nere sarebbe sorta, nelle classi meno agiate, come equivalente dell'artigianato in metalli pregiati, principalmente argento, destinato alle classi più ricche. La prevalenza della ceramica a vernice nera in età ellenistica confermerebbe questa tendenza delle categorie povere a sentire questo genere artigianale come l'equivalente della lavorazione dell'argento. Invece, la ceramica a figure rosse, col suo colore caldo, corrisponderebbe alla lavorazione in oro; e se sui vasi dei pionieri (come Euphronios) esistono talora chiare tracce di applicazione di sottilissime aggiunte di oro diluito, queste alluderebbero a una tecnica che veniva usata nei prodotti artigianali destinati alle classi più abbienti. Anche di queste convinzioni R.M. Cook ha fatto giustizia in una nota critica del 1987; Robertson, nella sua commemorazione del Beazley, ha portato numerosi e nuovi argomenti contro simili ipotesi. Resta da aggiungere che l'abbassamento della cronologia del kalòs Leagros, fondamentale per il problema dei kalòi e, soprattutto, dell'evoluzione tecnica dalle figure nere in rosse, non è stato accolto. Anche l'ultimo volume postumo di Francis, curato dall'amico Vickers, non porta sostanziali modifiche al problema della cronologia della ceramica a figure rosse.
Prima di concludere questo excursus sui problemi sommersi che oggi lo studio della ceramica greca figurata pone alla ricerca, non si deve dimenticare un aspetto antiquario-antropologico che è stato sviluppato specialmente in Francia (ma non mancano accenni simili in America e Inghilterra) relativo all'esegesi dei contenuti figurati sui vasi attici. Si tratta di una scuola di ricerche fiorita nell'ambito del Conseil National de la Recherche Scientifique, che fa capo a Louis Gernet, a Paul Vernant, a Pierre Vidal-Naquet e ad alcuni giovani archeologi come il Lissarrague. È probabile che, con alcune correzioni suggerite dal solito senso storico che deve accompagnare ogni ricerca dedicata al passato (e non solo al passato!), questo metodo combinatorio, che del resto non era ignoto anche a filologi del calibro di Usener o a eruditi come il grande Bachofen, possa ancora oggi servire agli archeologi che si interessano del contenuto delle scene figurate. Alcuni esempi possono trarsi dall'analisi che il Vernant compie sulla scena di un cratere siracusano ben noto (non greco, ma italiota) del Pittore di Dirce, raffigurante Filottete. Vernant risolve alcune aporie dei precedenti esegeti attraverso l'analisi strut- turalistica. Bisogna sottolineare che molti studiosi di ceramica greca di formazione tradizionale «storica» non accolgono facilmente questo tipo di analisi, anzi lo combattono o addirittura lo disprezzario. Occorre chiedersi invece, se anche l'archeologo di formazione «storica» non possa servirsi di questa metodologia quando occorra, per raggiungere risultati attendibili. Nel libro di Ver- nant sul mito e la tragedia greca ci si imbatte spesso in queste analisi che sono di valido aiuto per le ricerche nel campo della storia dell'arte antica. Il caso si ripete nel libro recente di Lissarrague sugli arcieri «sciti» così frequentemente raffigurati sulle coppe del primo arcaismo, ossia dei «pionieri». Quando Lissarrague dimostra attraverso un'approfondita analisi delle raffigurazioni degli arcieri e, anche, di taluni loro avversari, che essi si collocano cronologicamente entro i decenni finali del VI a.C., quando venne promossa una riforma di carattere militare di fronte al pericolo persiano (riforma filtrata attraverso i ben noti contatti con le coste dell'Asia Minore), si può essere certi della validità di questo tipo di ricerche.
Per quanto riguarda infine il problema del significato delle scene figurate del mito sui vasi greci, due studiosi si sono occupati di tali indagini. Il primo è il Langlotz che, nel 1957 (Vom Sinngehalt attischer Vasenbilder, in Robert Boehringer, eine Freundesgabe, Tubinga 1957, pp. 397-421), considerando anche, e non solo, la ceramica italiota, ma soffermandosi sui vasi a., ha sottolineato il significato funerario di molti miti rappresentati. Il Thimme poi, nel 1970 (Vom Sinn der Bilder ν. Ornamente auf griechischen Vasen, in Antaios, II, 1970, pp 489-511), ha tentato di distinguere sette gruppi di rappresentazioni: la raffigurazione della vita del defunto, della danza e del giuoco, delle nozze come realtà sociale, l'esplicita destinazione funeraria delle lèkythoi, lo scambio dei doni, la raffigurazione della tomba e infine l'iniziazione del morto alla presenza di Dioniso, Demetra, Persefone, Ade, ecc. Non è questo un ritorno a un simbolismo sette- ottocentesco; si pensa piuttosto alle due principali istanze della vita associativa dei Greci nei secoli più luminosi della loro storia: l'incombente senso della morte e, nello stesso tempo, l'esigenza di esaltare quei miti che avevano basilari riflessi politici e sociali, quelli di Eracle e di Teseo in modo particolare, entrambi uniti nella catabasi. In una recensione assai ampia ed entusiastica del Langlotz alla prima edizione del nuovo e principale catalogo dei vasi greci del Beazley, Attische Vasenmaler, lo studioso così definiva, fra gli altri, i meriti dell'impresa scientifica: «L'osservazione meticolosamente esatta dei particolari finora trascurati o poco rilevati nel disegno [...] offriva a ognuno che volesse approfondire il mondo formale della grafica greca la consapevolezza dell'aspetto incontestabile delle sue osservazioni, apriva gli occhi sulla varietà delle forme già esistenti alla fine del V sec. a.C. e sulla necessità della sua impronta basata sulla formazione dell'artista corrispondente».
Il Langlotz esprimeva dunque la soddisfazione e la meraviglia per la struttura del metodo beazleyano. Oggi si vuole andare oltre tale metodo di analisi del quale tuttavia non si può fare a meno. Si è inclini a tenere conto anche delle sottili istanze che provengono da una tecnica scaltrita e da considerazioni di tipo antropologico. In conclusione, per ora si ammette l'esigenza di conservare e arricchire il metodo di origine morelliana accanto ad altri tipi di analisi, per comprendere meglio l'iconologia greca dei secoli dal VI al IV; e, senza esagerare, si avverte che lo stimolo a privilegiare anche il significato politico dei miti raffigurati non è una fantasia, come fantasia non è l'interpretazione psicologica dei personaggi raffigurati. Si può asserire che l'analisi permeata di strutturalismo non fa che ripetere la triade concettuale robertiana. Del resto, Beazley è stato un robertiano sensibile al tipo di analisi degli storici positivisti dell'arte.
Bibl.: Lo Stile a Figure Nere. - Sul Pittore della Gorgone: J. Scheibler, Olpen und Amphoren des Gorgomalers, in Jdl, LXXVI, 1961, p. I ss. - Sulle dinastie dei Bacchiadi e dei Cipselidi: D. Musti, Storia greca, Bari 1989, pp. 167-176. - Su Sophilos: G. Bakis, Sophilos, Magonza 1981; A.B. Brownlee, Sophilos and Early Attic Black-Figured Dinoi, in Proceedings of the 3rd Symposium on Ancient Greek and Related Pottery, Copenaghen 1988, pp. 80-87. - Sulle coppe dei comasti: A. Greifenhagen, Eine attische schwarzfigurige Vasengattung u. die Darst. des Komos im VI Jh, Koenigsberg 1928; Beazley, Dev., p. 20 ss.; P.J. Connor, H.A.G. Brijder, A Comast Cup, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, I (Occasional Papers on Antiquities, 1), Malibu 1983, p. 1 ss. - Su Kleitias e il vaso François: A. Minto, Il vaso François, Firenze 1960; Beazley, Dev., p. 26. - Sul dìnos di Sophilos nel British Museum: D. Williams, Sophilos in the British Museum, in Greek Vases..., cit., pp. 9-34. - Per le coppe di Siana: H.A.G. Brijder, Siana Cups I and Comast Cups, e Siana Cups II, Amsterdam 1983 e 1987. - Su Exekias: J. Boardman, Exekias, in AJA, LXXXII, 1978, pp. 11-24; id., Image and Politics in Sixth Century Athens, in Ancient Greek and Related Pottery, Amsterdam 1984, pp. 239-247. - Per i collaboratori di Exekias: E.A. Mackay, Painters Near Exekias, in Proceedings of the 3rd Symposium..., cit., pp. 368-378. - Al rinnovato interesse per il Pittore di Amasis fa capo D. von Bothmer, The Amasis Painter and His World, Malibu-New York 1985. V. inoltre l'importante raccolta: AA.VV., Papers on the Amasis Painter and His World, Malibu 1987, in part. J. Boardman, Amasis: The Implications of His Name, pp. 141- 152 sulla discussione intorno al nome del pittore e vasaio. - Sul Pittore di Antimenes: J. Burow, Der Antimenesmaler, Magonza 1989. - Sul Pittore Affettato: H. Mommsen, Der Affekter, Magonza 1975. - Sulle scene di efebi più o meno armati davanti a personaggi anziani che li iniziano a una attività di carattere pubblico: J. Scheibler, Die Kuroi des Amasis-Malers, in Proceedings of the 3rd Symposium ..., cit., pp. 547-557. - Sul Pittore di Andokides: Κ. Schauenburg, Eine neue Amphora des Andokidesmalers, in Jdl, LXXVI, 1961, p. 48 ss. - Su Psiax, il Pittore Rycroft, il Pittore di Priamo: Beazley, Dev., p. 68 ss.; Β. Cohen, Attic Bilingual Vases and Their Painters, New York 1978, in part. pp. 272-274; J. Mertens, Some New Vases by Psiax, in AntK, XXII, 1, 1979, pp. 31-32; W. G. Moon, The Priam Painter. Some Iconographie and Stylistic Considerations, in Ancient Greek Art and Iconography, Madison 1983, pp. 97-118; J. Mertens, The Amasis Painter; Artist and Tradition, in Papers on the Amasis ..., cit., pp. 168-173, su tutto il problema dei pittori intorno e dopo Amasis.
Andokides-Psiax: B. Cohen, op.cit., tavv. XXV-XXVI; J. Scheibler, Griechische Töpferkunst. Handel u. Gebrauch der Antikentongefässe, Monaco 1983, p. 89. - Per la forma delle kỳlikes arcaiche fondamentale: H. Bioesch, Formen attischen Schalen, Zurigo 1941, pp. 12-15. - Gruppo di Leagros: D.M. Robinson, J. Fluck, A Study of Greek Love Names, Baltimora 1937, pp. 132-136; HGVP, p. 307, n. 72. - Pittori di Eucharides e di Nikoxenos: Beazley, ARV2, pp. 221-232; Boardman, I, pp. 95, 111, 112. - Per il vaso di Amburgo: H. Hoffmann, Vasen der klassische antike griechische, etruskische und andere italische Werke, Amburgo 1969-1970, n. 22.
Lo Stile a Figure Rosse. - Euphronios: W. Klein, Euphronios, Vienna 1879; HGVP, pp. 323-326; Beazley, ARV2, pp. 13-22; M. Wegner, Euphronios u. Euthymides, Münster 1979; Un pioniere della ceramografia attica (cat.), Milano-Torino 1990; Euphronios, peintre à Athene au VI siècle av. J.C. (cat.), Milano 1990; Euphronios der Maler (cat.), Berlino-Milano 1991. I tre cataloghi contengono tutte le novità concernenti questo pittore.
Euthymides: J.D. Beazley, Three Red-Figured Cups, in JHS, XXXIX, 1919, pp. 82-87.
Phintias: HGVP, pp. 317-319; Beazley, ARV2, pp. 22-26; Boardman, I, p. 356; R. Tölle-Kastenbein, Pfeil u. Bogen im antiken Griechenland, Bochum 1980, p. 167.
Oltos: HGVP, pp. 15, 320-321; Beazley, ARV2, p. 53-69; Boardman, I, pp. 56-57, 60-61.
Pittore di Eucharides: Κ. P. Stähler, Eine unbekannte Pelike des Eucharides- malers im Archäologischen Museum der Universität Münster, Colonia-Graz 1967; H. Hoffmann, Eine neue Amphora des Eucharidesmalers, in Jahrbuch der Hamburger Kunstsammlungen, XII, 1967, pp. 9-34; M. Robertson, A Red-Figured Lèkythos, in GettyMusJ, II, 1974, pp. 57-60.
Epiktetos: HGVP, pp. 319-320; Beazley, ARV2, pp. 70-81; Β. Cohen, op. cit., tavv. XCIII, XCIV, XCVI, XCVII; Boardman, I, pp. 57-61.
Pittore di Panaitios, gruppo «protopanaitian», Onesimos: HGVP, pp. 333-334; Beazley, ARV2, pp. 13-14; Boardman, I, pp. 133-134; D. Williams, Onesimos and the Getty Iliupersis, in Greek Vases in the Paul Getty Museum, V, Malibu 1991, pp. 41-74.
Pittore di Sosias: HGVP, p. 327, n. 118; Beazley, ARV2, p. 22; M. Ohly- Dumm, Sosias und Euthymides, in Ancient Greek ..., cit., pp. 165-172; E. Reschke, Die Ringer des Euthimides, Stoccarda 1990.
Smikròs: HGVP, pp. 322-323, nn. 105-107; Beazley, ARV2, p. 21; Board- man, I, p. 33; J. Scheibler, op. cit., p. 129.
Pittore di Brygos: HGVP, pp. 304, 333, 336; Beazley, ARV2, pp. 368- 424; A. Cambitoglou, The Brygos Painter, New York 1968; M. Wegner, Brygos- maler, Berlino 1973; Boardman, I, pp. 35-136; E. Simon, Satyr-Plays on Vases in the Time of Aeschylus, in The Eye of Greece, Cambridge 1982, pp. 125-148.
Makron: HGVP, pp. 332-333; Beazley, ARV2, pp. 458-481; Boardman, I, p. 140.
Douris: HGVP, pp. 339-340, 360, 365; Beazley, ARV2, pp. 425-453; M. Wegner, Duris, Ein Künstlermonographischer Versuch, Münster 1968; Boardman, I, pp. 137-139.
Pittore di Kleophrades: HGVP, pp. 328-329; Beazley, ARV2, I, pp. 181- 195; A. Greifenhagen, Neue Fragmente des Kleophrades maiers, Berlino 1972; J.D. Beazley, The Kleophrades Painter, Monaco 1974; Boardman, I, pp. 91-94.
Per la soluzione di Epiktetos II: G.M.A. Richter, The Kleophrades Painter, in AJA, XL, 1936, p. 100 ss.; J. den Tex, Amphora des Kleophradesmalers in Wien, in AM, LXII, 1937, p. 38 ss.; L. Schnitzler, Vom Kleophrades-Maler, in OpAth, II, 1955, p. 47 ss.; ma ν. ora U. Gehrig, Epiktetos II R.I.P., in AA, 1981, pp. 331-332.
Pittore di Berlino: HGVP, pp. 343-344; J.D. Beazley, An Amphora by the Berlin Painter, in AntK, IV, 1961, p. 49 ss.; J. Thimme, Ein neuerworbener Volutenkrater des Berliner Malers, in JbKuSammlBadWürt, VI, 1969, pp. 7-16; C. Isler-Kerényi, Ein Spätwerk des Berliner Malers, in AntK, XIV, 1971, pp. 25-31; R. Lullies, Der Dinos des Berliner Malers, ibid., pp. 44-55; M. Robertson, A Neck-Amphora by the Berlin Painter, in Müjb, XXXI, 1980, pp. 7-12; J.L. Bentz, Fifth-Century Attic Red Figure at Corinth. New Fragments of the Berlin Painter Lèkythos, in Hesperia, XLIX, 1980, pp. 307-308; B. Otto, Dekorative Elemente in den Bildschöpfungen des Kleophrades - und Berliner - Malers, in Ancient Greek ..., cit., pp. 198-201; M. Robertson, The Berlin Painter at the Getty Museum and Some Others, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, I, Malibu 1983, pp. 55-72. - Sulla prima identificazione del Pittore di Berlino da parte del Beazley: J.D. Beazley, The Master of the Berlin Amphora, in JHS, XXXI, 1911, tavv. XI-XII; id., Berliner Maler, Berlino 1930 (ed. inglese The Berlin Painter, a cura di D.J. Kurtz, Oxford 1983). - Sui disegni dei vasi del Pittore di Berlino: D.C. Kurtz, The Berlin Painter, Oxford 1983.
Myson: HGVP, p. 332; Beazley, ARV2, pp. 237-244; Boardman, I, p. 112. - Pittore di Pan: HGVP, p. 346; Beazley, ARV2, pp. 550-561; A.B. Follmann, Der Pan Maler, Monaco 1969; P.E. Arias, in «Veder Greco». Le necropoli di Agrigento (cat.), Roma 1988, p. 32, n. 18.
Pittore di Altamura: Beazley, ARV2, pp. 589-596; M. Prange, Der Niobidenmaler u. seine Werkstatt, Francoforte 1989, pp. 17-20, 157-177.
Pittore dei Niobidi: Beazley, ARV2, pp. 598-611; P. E. Arias, Problemi stilistici, iconologici e cronologici sul Pittore dei Niobidi, in RendAccPont, LIII- LIV, 1980-1982, p. 151 ss.; M. Prange, op. cit., pp. 26-31, 180-216. - Pittori di Blenheim, di Bologna 279 e dei Satiri Villosi: HGVP, pp. 354-355; Beazley, ARV2, pp. 612-617; P. E. Arias, Problemi stilistici ..., cit., p. 157 ss.; Boardman, I, pp. 12-15; M. Prange, op. cit., pp. 21-25. - Sulla esegesi del cratere orvietano del Louvre: E. Simon, Polygnotan Painting and the Niobid Painter, in AJA, LXVII, 1963, pp. 46 ss., 61 ss.
Pittore di Achille: HGVP, pp. 362-363; Beazley, ARV2, pp. 987-1008; C. Isler-Kerényi, Un nuovo stàmnos del Pittore di Achille in collezione ticinese, in NumAntCl, VIII, 1979, pp. 11-35; I. Wehgartner, Ein Grabbild des Achilleusmalers, in BWPr, CXXIX, 1985, pp. 5-51; D. C. Kurtz, The Achilles Painter's Early White Lèkythoi, in Ευμουσια. Ceramic and Iconographich Studies in Honour of A. Cambitoglou, Sidney 1990, pp. 105-112. - Si ricordi inoltre l'analisi disegnativa di J.D. Beazley, The Master of the Achilles Amphora in the Vatican, in JHS, XXXIV, 1914, p. 179 ss.
Hermonax: F.P. Johnson, The Career of Hermonax, in AJA, LI, 1947, p. 233 ss.; HGVP, pp. 344, 358; Beazley, ARV2, pp. 483-492; Boardman, I, pp. 193-194; C. Isler Kerényi, Hermonax in Zürich I. Ein Puzzle mit Hermonaxscherben, in AntK, XXVI, 1983, pp. 127-135; ead., Hermonax in Zürich, II, Die Halsamphora Haniel, ibid., XXVII, 1984, pp. 54-57; ead., Hermonax in Zürich III. Der Schalenmaler, ibid., pp. 154-156.
Pittori di Borea e di Orizia: Beazley, ARV2, pp. 538-549; Ν. Alfieri, Spina, Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, Bologna 1979, p. 23; Boardman, I, pp. 37, 130.
Pittore di Pistoxenos: HGVP, pp. 319, 348; Beazley, ARV2, pp. 859-876; Boardman, I, pp. 9, 59, 114.
Pittore di Pentesilea: HGVP, pp. 17, 350; Beazley, ARV2, pp. 879-890; Boardman, I, pp. 38-39; E. Simon, M. Hirmer, Die griechischen Vasen, Monaco 1976, taw. CLXXXIV-CLXXXVIII; N. Kunisch, Athena und Herakles, oder Darstellungsprobleme dialogischer Verhältnisse in der griechischen Vasenmalerei, in Modernität und Tradition. Festschrift für Max Imdahl, Monaco 1985, pp. 170 ss.; G. Beckel, Eine Schale des Penthesilea-Malers, in AA, 1988, pp. 334-339.
Pittore della Phiale di Boston: HGVP, pp. 360-361; Beazley, ARV2, pp. 1014-1026; P.E. Arias, in «Veder Greco» ..., cit., p. 34, n. 73; J. H. Oakley, The Phiale Painter, Magonza 1990.
Polygnotos e il suo gruppo: HGVP, pp. 364, 371-372, 382-387; Beazley, ARV2, pp. 1027-1064; Boardman, II, pp. 62-63, 234.
Pittore di Peleo: Ν. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, Spina, Firenze-Monaco 1958, p. 73; HGVP, p. 364; Beazley, ARV2, pp. 1035-1043; E. Simon, M. Hirmer, op.cit., tavv. CXCIV-CXCV; Y. Korshak, Der Peleusmaler und sein Gefährte, der Hektormaler, in AntK, XXIII, 1980, pp. 124-136; Boardman, II, p. 62.
Pittore di Kleophon: Ν. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., p. 73 ss.; HGVP, pp. 17, 366, 368; G. Gualandi, Le ceramiche del pittore di Kleophon rinvenute a Spina, in Rivista di Storia dell'Arte antica e moderna, V, 1962, pp. 227-260; Beazley, ARV2, pp. 1062, 1143-1151; E. De Miro, Nuovi contributi sul pittore di Kleophon, in ArchCl, 1968, tavv. XCIN-XCIV; F. Felten, Thanatos u. Kleophonmaler, weissgrundige u. rotfigurige Vasenmalerei der Parthenonzeit, Monaco 1971.
Pittore del Deinos: HGVP, pp. 372-375; Beazley, ARV2, pp. 1151-1159; E. Simon, M. Hirmer, op. cit., p. 145; Boardman, II, pp. 96, 147.
Polion: Ν. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., pp. 79-81; Beazley, ARV2, pp. 1171-1173; Boardman, II, p. 167.
Pittore di Kadmos: Beazley, ARV2, pp. 1184-1188; H. Froning, Dithyrambos u. Vasenmalerei in Athen, Würzburg 1971, tav. VIII, 2; S. Kaempf-Dimitriadou, Die Liebe der Götter in der attischen Kunst des 5. Jhs. v.C., Basilea 1979, tav. XXIII, 3-4.
Pittore del Pothos: Beazley, ARV2, pp. 1188-1191; I. McPhee, Turin 4192 and the Pronomos Painter, in AJA, LXXXII, 1978, pp. 551-552.
Aison: P.E. Arias, Cratere attico da Spina con Gigantomachia e ratto delle Leucippidi, in Rivista di Storia dell'Arte antica e moderna, I, 1958, p. 3 ss.; HGVP, p. 37 ss.; Beazley, ARV2, pp. 1174-1178; E. Simon, M. Hirmer, op. cit., pp. 149-156.
Pittore di Shuvalov: N. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., pp. 78-79; HGVP, pp. 370-371; Beazley, ARV2, pp. 1206-1213; E. Simon, M. Hirmer, op. cit., p. 144; A. Lezzi-Hafter, Der Schuwalow-Maler, Magonza 1976; Board- man, II, p. 97.
Pittore di Eretria: HGVP, pp. 369-370; Beazley, ARV2, pp. 1247-1258; A. Lezzi-Hafter, Der Eretria-Maler, Magonza 1988; Boardman, II, pp. 96-146.
Pittore di Calliope: Beazley, ARV2, pp. 1259-1264; A. Lezzi-Hafter, Der Eretria ..., cit., p. 302 ss.
Sul problema dei rapporti fra la pittura contemporanea a noi non giunta (Parasio, Zeusi soprattutto) e la ceramica dei due ultimi decenni del V sec. v. P. Moreno, La pittura greca, Milano 1987, in part. pp. 90-94 (libro complesso che conferma come contatti fra ceramica e pittura siano ardui da ricostruire, anche se deve dirsi che per questi decenni il rapporto è meno impossibile da seguire rispetto a quello fra le grandi pitture parietali e i grandi crateri del Pittore dei Niobidi e del gruppo polignoteo).
Pittore di Meidias: J.D. Beazley, Potter and Painter, in Ancient Athens (Proceedings of the British Academy, XXX), Oxford 1949, pp. 42-43; HGVP, pp. 375-377) 380-382, 387; Beazley, ARV2, pp. 1312-1332; U. Knigge, Aison, der Meidiasmaler? Zu einer rotfigurigen Oinochoe aus dem Keraimeikos, in AM, XC, 1975, pp. 123-143, tav. XLVIII; L.Burn, The Meidias Painter, Oxford 1987; Boardman, II, pp. 132, 144, 146-147, 167, 219.
Sulle lèkythoi a fondo bianco: E. Buschor, Attische Lèkythoi der Parthenonzeit, Monaco 1925; J. D. Beazley, Attic White Lèkythoi, Oxford 1938 (Oxford 1989, a cura di D.C. Kurtz); HGVP, pp. 359-365, 369-370; I. Wehgartner, Attisch weissgrundige Keramik, Magonza 1983 (cfr. Boardman, II, pp. 38, 40).
Pittore di Pronomos: HGVP, p. 377; Beazley, ARV2, pp. 1335-1338; Β. Β. Shefton, The Krater from Baksy, in The Eye of Greece ..., cit., pp. 149-182; Boardman, II, pp. 167, 222-223.
Pittori di Kerč: Κ. Schefold, Die Kertscher Vasen, Berlino 1930; O. Brendel, Procession Personified, in AJA, XLIX, 1945, p. 519 ss.; Η. Metzger, Représentations céramiques du IV siècle, Parigi 1953; HGVP, pp. 376, 381-382, 383, 387; Boardman, II, pp. 190, 192, 219.
Pittore di Marsia: HGVP, p. 384; Beazley, ARV2, pp. 1474-1476; E. Simon, M. Hirmer, op. cit., pp. 157-159; B. Ashmole, Solvitur disputando, in Festschrift Brommer, Magonza 1977, pp. 13-20. - Pittore di Meleagro: HGVP, p. 382; Beazley, ARV2, pp. 1408-1417; Boardman, II, p. 168; L. Burn, A Dinoid Volute-Krater by the Meleager Painter: An Attic Vase in the South Italian Manner, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, V (Occasional Papers on Antiquities, 7), Malibu 1991, pp. 107-130.
Sulle ceramiche ellenistiche in genere, da quelle dipinte a quelle a rilievo, si vedano le voci relative (megaresi, vasi; beotici, vasi; centuripini, vasi; alessandrini, vasi; ecc.) nonché uno sguardo generale in Arias, Storia, pp. 420-423.
Ceramografia del IV secolo. - Per il problema del mutamento notevole dei contenuti e dello stile dei pittori vascolari del IV sec. fondamentale rimane la ricerca di H. Metzger, Les représentations dans la céramique attique du IV siècle, Parigi 1951, anche se le scoperte di Kerč erano già note intorno agli anni Trenta. V. inoltre: HGVP, p. 381 ss.; H. Metzger, Recherches sur l'imagerie athénienne, Parigi 1965; Κ. Schefold, F. Jung, Die Göttersage in der klassischen und hellenistischen Kunst, Monaco 1981.
Sul Pittore di Suessula: Α. von Salis, Der Gigantomachie am Schilde der Athena Parthenos, in Jdl, LV, 1940, p. 126 ss.
Sul Pittore di Meleagro, di Marsia e di Pronomos: HGVP, pp. 382-384; Boardman, II, pp. 167-168, 222-223.
Per una storia della ricerca. - Sulla figura di O. Jahn: W. Calder III, H. Cancik, Β. Kitzler (ed.), Otto Jahn (1813-1868). Ein Geisteswissenschaftler zwischen Klassizismus und Historismus, Stoccarda 1991, in part, il contributo di U. Hausmann, pp. 1-10. - Un'analisi dettagliata dell'opera di Jahn, Beischreibung der Vasensammlung Koenig Ludwigs in der Pinakothek zu München, Monaco 1854, si trova in P. E. Arias, V. C. Di Bari, G. Orsolini- Ronzitti, La ceramica attica a figure nere e rosse del Corpus Vasorum Antiquorum, Roma 1985, in part. pp. 115-124.
Su F. Gottlieb Welcker ν. il saggio di W. Geominy, Die Welckersche Archäologie, in Friedrich Gottlieb Welcker. Werk und Wirkung, Stoccarda 1986, pp. 230-247.
Le due opere di J. M. Moret, L'Ilioupersis dans la céramique italiote. Les mythes et leur expréssion figurée au IVe siècle, Roma 1975 e Oedipe et le sphynx. Essai de mythologie iconographique, Ginevra 1984, hanno suscitato una polemica causata da una recensione di I. Krauskopf in GCA, 1987, pp. 228-258, alla quale ha risposto D. Gasparro in una lettera aperta del 1988, diretta alla stessa rivista, ma pubblicata in tedesco a Messina.
Sull'opera e la figura di Beazley v.: AA.VV., Beazley and Oxford (Oxford University Cgmmittee for Archaeology Monograph, 10), Oxford 1985, con bibl.
Per una visione complessiva delle teorie di E.D Francis e M. Vickers essenziale resta il loro primo lavoro: Signa priscae artis. Eretria and Syphnos, in JHS, CIII, 1983, pp. 49-68. - Sul problema dell'imitazione della lavorazione dell'argento e dell'oro e della derivazione della ceramica a figure nere e a figure rosse v. il saggio di M. Vickers, Artful Crafts. The Influence of Metal- work on Athenian Painted Pottery, in JHS, CV, 1985, pp. 108-128 (ree. di R.M. Cook, ibid., CVII, 1987, pp.169-171).
Le idee sui kalòi e la rinnovata certezza dell'inizio della ceramica a figure rosse a partire dal 470 in poi sono ribadite nel saggio di H. Vickers, Leagros Kalòs, in ProcCambrPhilSoc, CCVII, 1981, pp. 97-136. - Per una critica a questo sistema: R. Tölle-Kastenbein, Bemerkungen zur absoluten Chronologie spätarchaischer und frühklassischer Denkmäler Athens, in AA, 1983, 4, pp. 573-584; F. Canciani, Considerazioni sulla cronologia della ceramica attica dal tardo arcaismo allo stile severo, in Studien zur Mythologie und Vasenmalerei. Festschrift fur Κ. Schauenburg, Magonza 1986, pp. 59-64. - Infine di E. D. Francis, ν. il lavoro edito postumo dal Vickers, Image and Idea in Fifth-Century Greece. Art and Literature after the Persian Wars, Londra-New York 1990.
Sulla metodologia antropologica di tipo francese (condivisa da J.-P. Ver- nant, P. Vidal-Naquet in Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Parigi 1972) v. L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, Parigi 1968. - Su questa linea è condotto il saggio di F. Lissarrague, L'autre guerrier, Parigi 1990.
Su Teseo: C. Clame, Thésée et l'imaginaire athénien, Parigi-Losanna 1990, in part. pp. 408-415. - Su Eracle ν. la poderosa voce del LIMC, IV, pp. 728-838 e V, pp. 1-262, dovuta al Boardman e ai suoi collaboratori, ove si commentano i numerosi contribuiti dello stesso Boardman all'illustrazione della figura dell'eroe.
Opere considerate. - Stile a figure nere. - Sophilos: HGVP, p. 285, fig. 39; Boardman, Vasi a f. n., figg. 24-28.
Kleitias: HGVP, pp. 286-292, figg. 40-46; Boardman, Vasi a f.n., figg. 46-47.
Pittore corintizzante, coppe dei cornasti, coppe di Siana: HGVP, p. 293, figg. 47-48; Boardman, Vasi a f.n., figg. 34-42.
Exekias: HGVP, pp. 300-303, figg. 62-65, tavv. XVI-XVIII; Boardman, Vasi a f. n., figg. 92-107.
Gruppo E: Arias, Storia, pp. 162-163; Boardman, Vasi a f. n., figg. 92-96.
Pittore di Lydos: HGVP, fig. 53; Boardman, Vasi a f. n., figg. 64-69.
Pittore di Amasis: HGVP, figg. 54-57, tav. XV; Boardman, Vasi a f.n., figg. 77-91.
Pittore Affettato: ibid., figg. 155-157.
Pittore dei Gomiti in fuori: ibid., figg. 158-159.
Psiax: HGVP, figg. 66-68, tavv. XIX-XX; Boardman, Vasi a f.n., figg. 168-171.
Pittore di Andokides e Lysippides: HGVP, figg. 82-89, tav. XXIX; Boardman, Vasi a f.n., pp. 160-166.
Stile a figure rosse. - Pittore di Andokides: Anfora di Berlino con lotta per il tripode, HGVP, fig. 88. - Anfora del Louvre con Eracle e Cerbero, HGVP, fig. 82.
Oltos: Kylix di Tarquinia, Arias, Storia, figg. 61-62.
Phintias: Anfora con ratto di Leto da parte di Tityos, Parigi, Louvre (G42), HGVP, figg. 90-91.
Pittore di Eucharides: Anfora di Amburgo con Argo, Boardman, I, fig. 165.
Pittore di Nikoxenos: Cratere con volute, Monaco, Antikensammlungen, Boardman, I, fig. 163.
Euthymides: Anfore di Monaco con scene di ratto e di danzatori ebbri, HGVP, figg. 116-117.
Euphronios: Cratere di Berlino con atleti in palestra, Arias, Storia, fig. 66,1. - Parigi, Louvre, cratere con Eracle e Anteo, Arias, Storia, fig. 66,2. - Cratere del Metropolitan Museum con trasporto di Sarpedonte e scene di palestra, cfr. Euphronios peintre à Athènes (cat.), Parigi 1990, pp. 78-79. - Cratere di Arezzo, ibid., pp. 116-117; Euphronios der Maler, Berlino-Milano 1991, pp. 61-228.
Epiktetos: Piatto di Londra con arciere, HGVP, fig. 98. - Kylix di Londra con satiri danzanti e armati e al centro cavaliere a figure nere, ibid., figg. 96-97.
Pittore di Kleophrades: Cratere a calice di Tarquinia con atleti in palestra: HGVP, figg. 120-121. - Anfora a punta di Monaco con satiri e menadi danzanti: ibid., figg. 122-123, tavv. XXX-XXXI. - Idria di Napoli con Ilioupèrsis, ibid., fig. 125. - Loutrophòros del Louvre, ibid., figg. 126-128.
Pittore di Brygos: Skỳphos del Louvre con cornasti, HGVP, figg. 135-137.
- Coppa di Würzburg con uomini ebbri, HGVP, fig. 138, tav. XXXM. - Coppa con scena di Ilioupèrsis del Louvre, HGVP, figg. 139-141.
Hermonax: Pelìke di Villa Giulia in Roma, Boardman, I, p. 352. - Stàmnos con morte di Orfeo, Parigi, Louvre, Boardman, I, fig. 354.
Pittore di Pistoxenos: Skỳphos di Schwerin con Eracle e la nutrice da un lato e Ificle e Lino dall'altro, HGVP, fig. 166. - Frammento di coppa a fondo bianco con Menade e Satiro, ibid., fig. 167, Taranto, Museo Nazionale.
Pittore di Pentesilea: Kylix di Monaco con Achille e Pentesilea, HGVP, figg. 168-169. - Kylix di Monaco con Apollo e Tityos, HGVP, figg. 170-171.
- Kylix del Museo di Ferrara con Teseo e Piritoo al centro e fatiche di Teseo intorno, N. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, Spina, Firenze-Monaco 1958, tavv. XXVIII-XXXII.
Pittore della Phiale di Boston: Cratere agrigentino con Perseo e Andromeda, HGVP, tavv. XLIII-XLIV; Phiale di Boston, J. H. Oakley, The Phiale Painter, Magonza 1990, tav. CXX, e lèkythoi di Berlino, tavola a colori.
Polygnotos e il suo gruppo: Stàmnos di Bruxelles con centauri in lotta con Kaineus, HGVP, fig. 190. - Pelìke con Amazzonomachia di Siracusa, ibid., fig. 191. - Cratere con volute di Valle Trebba a Ferrara, N. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., tavv. LXXIV-LXXXI.
Pittore di Peleo: Cratere a calice, anfora e cratere con volute frammentario (nozze di Peleo e Teti alla presenza di Apollo, libazione di un guerriero alla corte di Pelias, Polluce), pp. 73-75, figg. 88-97.
Pittore di Kleophon: Cratere con volute con processione a Delfi e ritorno di Efesto all'Olimpo, N. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., tavv. LXXXV- LXXXVII.
Pittore di Ettore: Stàmnos di Monaco con Nike che disseta un toro, Boardman, II, fig. 141.
Polion: Cratere con volute con Efesto che torna all'Olimpo, N. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., tavv. CVM-CXI; Boardman, II, fig. 306, 1-2.
Pittore di Kadmos: Cratere con volute di Ruvo con Apollo e Marsia; Boardman, II, fig. 310. - Pelìke di Monaco con apoteosi di Eracle sopra la pira, Boardman, II, fig. 311.
Pittore del Pothos: Cratere a campana di Providence con Eros nell'atteggiamento del Pothos scopadeo, cfr. BCH, CVIII, 1984, p. 128, fig. 7.
Pittore di Eretria: Per l'epìnetron di Eretria e per tutta la sua produzione le illustrazioni al completo sono in HGVP, figg. 203-204 e in A. Lezzi-Hafter, Der Eretria-Maler, Magonza 1988.
Pittore Shuvalov: Per tutta la produzione si veda A. Lezzi-Hafter, Der Schuwalow-Maler, Magonza 1976. - Sui vasi di Ferrara, N. Alfieri, P.E. Arias, M. Hirmer, op.cit., tavv. CV-CVI.
Pittore di Meidias: Beazley, ARV2, pp. 1312-1316; HGVP, pp. 375-380, figg. 214-217, tav. XLVI; Boardman, II, pp. 152-3.
Pittori delle lèkythoi·. HGVP, pp. 349, 353, 369.
Pittore di Suessula: HGVP, p. 380, fig. 221; Boardman, II, p. 175, figg. 329, 1-2-3.
Pittore di Pronomos: Boardman, II, figg. 323-328.
Pittore di Elena: HGVP, fig. 223; Boardman, II, p. 199, figg. 381-383.
Pittore di Marsia: HGVP, tav. XLVII; Boardman, II, p. 191, figg. 388-391.
Pittore di Meleagro: HGVP, fig. 222; Boardman, II, pp. 199-200, figg. 388-391.
Pittore della Pompè: HGVP, fig. 224. (P.E. Arias)