CATANEI, Vannozza (Giovanna)
Appartenente a una famiglia della piccola nobiltà, nacque a Roma il 13 luglio 1442 da Giacomo, designato in un atto del 1483, con probabile allusione al soprannome, come pinctoris, e una Menica che nello stesso documento appariva di età avanzata e di condizione vedovile. Donna di sicura, prepotente bellezza, riuscì a richiamare su di sé l'attenzione del più brillante cardinale del secolo XV, il giovane nipote di Callisto III, Rodrigo Borgia, notoriamente sensibilissimo al fascino della bellezza femminile. Del lussurioso cardinale, dotato di rendite sontuose che gli assicuravano una vita principesca, la C. divenne l'amante in data imprecisata: già prima del 1460, se è vera l'affermazione dello Gnoli che fissò la data di nascita del loro primo figlio, Giovanni, poco dopo quell'anno, ma senza fornire alcuna documentazione. La C. dette comunque al Borgia quattro figli sicuramente accertati: oltre a Giovanni, secondo duca di Gandia, Cesare nel 1475, Lucrezia nel 1480 e Goffredo, poi principe di Squillace, nel 1481. La relazione concubinaria si svolse per lunghi anni al riparo dell'istituto matrimoniale che garantì allo spregiudicato principe della Chiesa la necessaria decorosa copertura ufficiale. Di matrimoni la C. ne contrasse ben tre, e sempre per iniziativa o almeno con l'intervento del suo munifico protettore, che usava assicurare al servizievole candidato la solida garanzia di una buona sistemazione nell'amministrazione pontificia.
Il primo a godere di questi poco invidiabili favorì fu Domenico Giannotti da Rignano, cavaliere e dottore di leggi, che in un atto stipulato il 12 luglio 1469 davanti al notaio Lorenzo de Lallis figura già come marito della Catanei. La data della sua morte non è nota, ma dovette cadere sicuramente dopo il 1475, anno di nascita di Cesare Borgia. A lui fu assegnato infatti come padre legittimo nella bolla del 19 sett. 1493. Con la quale l'ormai papa Alessandro VI intendeva rimuovere l'ostacolo canonico della nascita illegittima alla sua elevazione al cardinalato. In un dispaccio al duca di Ferrara del 25 febbr. 1493, quando era già nota l'intenzione del pontefice di attribuire al Giannotti questa paternità postuma, l'agente estense a Roma, Giovanni Andrea Bocciacci, osservò maliziosamente che in effetti il marito della C. "erat tunc presens, videlicet quando in urbe quando in officiis in terris Ecclesie; ibat et redibat" (cfr. L. Celier, Alexandre VI et ses enfants en 1493, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, XXVI[1906], p. 325). Di questo primo marito la C. non tenne mai curiosamente soverchio conto, né in vita, né tanto meno dopo la sua morte. Neanche nella vecchiaia penitente, quando elargiva elernosine in suffragio delle anime dei suoi cari, e dei mariti defunti in particolare, lo volle ricordare. Solo nel testamento compare un Michelangelo Giannotti in qualità di erede ai diritti sulla casa abitata dalla C. per tanti anni in piazza Branca. Se si trattasse solo di un parente del defunto primo marito o addirittura di un figlio della loro unione legittima non è dato di sapere. Il Giannotti ebbe comunque una figlia sicura, Lucrezia, della quale però non è possibile accertare se la C. fosse stata la madre. La circostanza che lei non la ricordi mai sembra tuttavia avvalorare l'ipotesi che il Giannotti l'abbia avuta da altra donna, forse prima di sposare la Catanei. La morte di questo primo marito dovette riuscire assai sgradita ai due amanti, che mal sopportavano di mantenere la loro relazione allo scoperto. Il 13 dic. 1481, già vedova, la C. rilasciò davanti al notaio Agostino de Martinis formale promessa di matrimonio a Giorgio della Croce, chierico milanese. Il 4 luglio 1480 il previdente cardinale l'aveva provvisto saggiamente del posto di scrittore apostolico nella cancelleria da lui diretta. Di lì a qualche tempo, sicuramente prima del gennaio 1481, seguirono le nozze, allietate a quel che pare dalla nascita di un figlio di nome Ottaviano, morto però assai presto. Questo secondo marito visse disgraziatamente molto meno del primo. Solo pochi anni dopo il secondo matrimonio, la C. si ritrovò infatti ancora una volta nell'imbarazzo di una vedovanza che la sua condizione privilegiata rendeva insostenibile. Le risorse del cardinale protettore si dimostrarono però veramente inesauribili: egli riuscì infatti a reclutare un terzo marito, il più illustre della serie, Carlo Canale, mantovano, che al matrimonio con la C. recò il lustro di un passato vagamente letterario, adornato persino dal vanto dell'amicizia con il Poliziano. L'8 giugno 1486 fu stipulato il contratto nuziale. Poco prima il Canale aveva ricevuto in dono l'ufficio di sollecitatore apostolico, assicurato dal cardinale vicecancelliere al terzo e ultimo marito della madre dei suoi figli. Neanche di questo marito è nota la data della morte, avvenuta probabilmente verso la fine del 1500.
Vedova per la terza volta, la C. non ebbe bisogno però di un quarto marito: ormai quasi sessantenne, non aveva più molto da offrire al suo esigente protettore, il quale già da tempo aveva lasciato seguire alla passione il suo corso naturale che la condannava all'inevitabile declino. La C. seppe accettare il suo ineluttabile destino con quel senso spiccato dell'opportunità che contraddistingue ogni sua azione. La sua posizione di madre di ben quattro figli del Borgia le garantiva sempre del resto vantaggi che lei non era abituata a disprezzare. Ritiratasi discretamente in disparte, la C., che neanche ai tempi del più acceso divampare della passione borgiana aveva osato ostentare la sua condizione invidiabile di favorita, si preoccupò di mantenere un atteggiamento di riservata devozione, del tutto alieno da ogni forma di molesta esibizione. Tanto maggior riserbo le impose l'elezione al pontificato del suo ex amante, che continuò a conservare i migliori rapporti con la madre dei suoi figli.
Lo attestano tre letterine non datate, ma facilmente databili al novembre-dicembre del 1494, indirizzate dalla C., che si firmava "humile serva et schiava",ad Alessandro VI. Erano i mesi della discesa italiana di Carlo VIII re di Francia, che alla fine di dicembre entrò a Roma alla testa delle sue truppe e non senza il consueto strascico di ogni sorta di violenze e di rapine. Fra le altre, fu saccheggiata la casa abitata dalla C. in piazza Branca, e forse a questo increscioso evento si riferiva quello dei tre biglietti che annunciava la ferma intenzione "di partire quanto più presto potrà","perché tanta paura glie intrata in core". Più sicuramente databile è un secondo biglietto nel quale la C. si rallegrava per la nascita di un figlio al duca di Gandia che cadde effettivamente nel novembre del 1494.
Tutti e tre i biglietti sollecitavano la grazia di una visita al pontefice per comunicargli "molte cose delle quale son certa V.S. ne haveria piglato piacere" oppure per "dire cosa che mi importa assai". Il terzo biglietto sembra alludere ad una certa familiarità con il papa del marito di lei, Carlo Canale, incaricato appunto di stabilire il giorno e l'ora dell'incontro, la qual cosa lascia suppore una continuità di rapporti e di favori sicuramente ininterrotta.
Ancor più intensi e frequenti dovettero essere i suoi contatti con i figli, che pure restano scarsamente attestati. Di una famosa cena che precedette la notte del 15 giugno 1497,fatale al duca di Gandia, si ha notizia sicura: la C., che la imbandì in una sua casa con vigna presso la chiesa di S. Pietro in Vincoli, vi invitò oltre a Giovanni anche Cesare Borgia. Alla morte del papa, nell'agosto del 1503, quando i numerosi nemici dei Borgia minacciavano violenze e rappresaglie, la C. poté godere della protezione del figlio Cesare che le assicurò un rifugio, prima in Castel Sant'Angelo e poi, con le altre donne di casa Borgia, nella fortezza di Civita Castellana. Ritornò a Roma, al seguito dei figli Cesare e Goffredo, ai primi di ottobre, con il favore del nuovo pontefice Pio III. La morte improvvisa del quale e l'elezione di Giulio II, nemico giurato dei Borgia, fecero temere però nuovi pericoli alla C., che nel dicembre si dispose a una nuova fuga. Poco prima Cesare Borgia era stato trattenuto agli arresti nel palazzo apostolico, da dove nel febbraio dell'anno successivo fu trasferito a Ostia. Recuperò la libertà solo con la fuga il 19 apr. 1504. Il 1º di quello stesso mese la C. aveva provveduto a stipulare un atto per simulare la vendita di certe sue proprietà a un Giuliano dei Leni che le rilasciò atto di retrocessione. A questa misura l'aveva indotta la paura di una confisca che tuttavia si dimostrò del tutto infondata. Giulio II infatti si limitò solo a fare perquisire una volta, nell'estate del 1504, la sua casa, ma senza che a lei fosse arrecato danno od offesa alcuna.
La morte di Cesare Borgia, sopraggiunta nel 1507, segnò il tramonto definitivo delle fortune della potente famiglia spagnola. Ma alla C., che continuò a vivere indisturbata a Roma, restò la protezione della figlia Lucrezia, duchessa di Ferrara, e del figlio Goffredo ritiratosi nel suo feudo di Squillace. I rapporti con i due figli rimastile sono attestati, solo per gli ultimi anni della sua vita, da un gruppetto di lettere a Lucrezia (ma una anche al cardinale Ippolito d'Este) del 1515. In esse sollecitava sempre la concessione di grazie e favori per sé e per altri. In una chiedeva in particolare di sistemare presso la corte ferrarese un suo nipote, figlio illegittimo di Goffredo, allogato dal padre presso di lei.
Vissuta per tanti anni all'ombra di un ricchissimo e potente cardinale, poi papa, la C. si garantì un'esistenza assai agiata con la costituzione di un vasto patrimonio immobiliare che seppe valorizzare e incrementare accortamente, con operazioni economiche di varia natura, spesso poco scrupolose.
Nel 1469 aveva acquistato per 500 ducati, dei quali 310 provenivano dalla sua dote, una casa in via del Pellegrino che abitò per molti anni. Nel 1472 acquistò la casa di fronte e nel 1493 per 600 ducati, assieme al marito Carlo Canale, la casa con vigna nella quale tenne il famoso convito del 1497. Si ha notizia poi di altri suoi immobili a S. Stefano in Piscinula nel rione Parione e a Pizzo di Merlo: case con botteghe affittate ad artigiani e gente minuta di ogni sorta, alcune persino a prostitute di infimo rango. Aveva anche case in affitto che subaffittava per lucrare la differenza del prezzo. L'attività più redditizia alla quale si dedicò era però quella alberghiera. Nel 1483 prese in affitto, insieme con il marito Giorgio della Croce, per subaffittarla, la locanda del Leone grande, in Campo di Fiori,che restaurò a sue spese nel 1500. Nello stesso anno mise le mani anche sulla locanda annessa del Leone piccolo, con un contratto che fu rinnovato nel 1501, nel 1509 e nel 1517. Nella via di Tor di Nona aveva la locanda del Biscione e ancora in Campo di Fiori quella della Fontana e quella della Vacca. Nel 1500 comprò per 1370 ducati la metà di quest'ultima e nel 1509 l'altra metà per 1500 ducati. Era una delle migliori locande di Roma e doveva rendere molto, se la C. si decise a farla ricostruire o restaurare nel 1514 da un Sebastiano Pellegrini. I lavori si protrassero fino al 1517 e costarono parecchio alla C., che pagò solo una parte in contanti e il resto con perle, gioie, argenti e grano. Questa singolare forma di pagamento rinvia a un'altra delle sue tante attività economiche, e certamente non quella meno redditizia: l'usura. Che prestasse denaro ad interesse contro pegni è attestato da una lista di oggetti preziosi in suo possesso con l'annotazione "la scritta delle cose che sono in pegno". Il giro complessivo dei suoi affari doveva essere considerevole, tanto da richiedere l'assunzione almeno negli ultimi anni di un fattore: in un atto del 1515 resta traccia di un suo "factor et negotiorum gestor",certo Raniero Torta.
L'assillo continuo della roba che scopre lo squallore di un'esistenza dominata da un avaro, esoso calcolare rischiava di compromettere quella divisa di assoluto decoro formale alla quale la C. si era voluta sempre attenere. L'infittirsi degli affari si accompagnò così negli anni della vecchiaia ad una vigile pratica religiosa, sostenuta dal solido avallo di un vero e proprio flusso di donazioni pie. Numerose furono le chiese, le confraternite e le istituzioni pie di Roma che beneficiarono delle sue elargizioni. La chiesa di S. Maria del Popolo, dove riposavano il marito Giorgio della Croce e il figlio Giovanni di Gandia e dove ella vorrà essere seppellita, fu tra le prime. Vi acquistò una cappella e nel 1500 incaricò Andrea Bregno e Giovanni de Laugo di costruirvi un tabernacolo di marmi preziosi. Alla chiesa donò le case che possedeva in Pizzo di Merlo e un'acquasantiera. Il 15 genn. 1517 donò la metà della locanda della Vacca all'ospedale del Salvatore e l'altra metà all'ospedale della Consolazione, all'Annunziata della Minerva e alla Concezione di S. Lorenzo in Damaso. All'ospedale della Consolazione donò anche un busto d'argento del figlio Cesare e al famoso orafo Ambrogio Foppa, detto il Caradosso, commissionò un tabernacolo d'argento per l'ospedale del Salvatore. Il passato dell'ex concubina del cardinal Rodrigo era racchiuso così in una doverosa cornice di peccato alla quale la penitenza della vecchiaia offriva il tributo necessario di una volenterosa espiazione, secondo il paradigma di una classica parabola rinascimentale.
Confortata dalle confraternite che non dimenticarono "il pientissimo et devoto animo suo",la C. concluse la sua vicenda mondana il 26 nov. 1518. Ai funerali, che Leone X volle onorati da una rappresentanza della corte pontificia, partecipò la nobiltà romana che si raccoglieva nella Confraternita del Gonfalone, alla quale si era associata. Furono funerali degni di un cardinale, commentò un osservatore veneziano. Fu sepolta nella sua cappella di S. Maria del Popolo, dove vennero celebrate messe in suffragio della sua anima fino al 1760, quando fu deciso di soprassedere. Successivamente sparì anche la lapide con un famoso epitaffio ritrovata solo di recente nella chiesa di S. Marco.
Della C. non esistono ritratti sicuri; i due conservati nella Congregazione della Carità e in quella della SS. Concezione sono della fine del Cinquecento e non è neanche certo se riproducono eventuali originali eseguiti in vita. La C. non sfuggì alla tentazione di foggiarsi uno stemma. Si può ammirare ancora quello che fece incastrare nella facciata della locanda della Vacca. Vi sono inquartati il toro e le fasce dei Borgia insieme al leone e compasso di Carlo Canale. L'ultimo marito era forse il solo dei tre ad avere uno stemma.
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