VALLANTE, Bartolomeo detto Catena
– Nacque verso il 1550 a Monte San Giovanni, vicino a Sora, nella Campagna e Marittima, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri.
Le notizie biografiche si ricavano, prevalentemente, dalla sua deposizione resa durante il processo celebrato nel carcere di Tor di Nona davanti a Paolo Bruno, luogotenente criminale del governatore di Roma, dal 26 novembre 1580 al 1° gennaio 1581. La datazione degli avvenimenti riferiti dall’accusato è, quindi, spesso imprecisa. Dopo aver inizialmente negato la sua identità, sottoposto alla tortura, ammise «io sò Catena» (Archivio di Stato di Roma, ASR, Tribunale criminale del Governatore, processi sec. XVI, vol. 169, ins. 28, c. 685r).
Era stato colpito dal bando nel 1570 e condannato alla pena capitale come facinoroso per aver vendicato l’uccisione del fratello Pietro in una faida con la famiglia Cimello; abbandonata la sua comunità, Vallante costituì il primo nucleo della sua banda con i fratelli Marzio e Biagio, e con Fantozzo, Vincenzo e Domenico de Ficcaglia, detto Spelonca; le sue azioni criminose si concentrarono nel territorio di Sora, Anagni, Veroli. Riconobbe i crimini contestatigli, affermando che «tutto quello che ho fatto l’ho fatto honoratamente et ho ammazzato li nemici miei» (c. 629r): la logica della vendetta contro «nemici» aveva continuato a guidare tutte le sue azioni perché, come asseriva, «n’è bisognato mantenere genti, perché ho hauto li nimici che sempre m’hanno seguitato, et la Corte m’ha tolto tutto il mio» (c. 694v). Alludeva, infatti, alla procedura del bando che prevedeva, in molti casi, anche il sequestro di beni e spingeva chi ne era colpito, di conseguenza, «alla campagna».
Il timore di rappresaglie aveva favorito la solidarietà di contadini e pastori verso i banditi che ottenevano così cibo, abiti e, soprattutto, protezione. Significativo era l’aiuto ricevuto da parte di piccoli possidenti locali, come Mutio Capodiferro da Banco che, come spiega Vallante, portò cibi e bevande «come amico nostro et haveva caro la nostra amicitia acciò le robbe sue et il suo bestiame fusse rispettato dagli altri banditi» (c. 707r). Solidarietà e aiuti erano offerti anche da esponenti del clero: erano stati ospitati a lungo dall’abate di Santo Loce a Veroli; a Bauco (Boville Ernica), il parroco aveva dato pane e vino e a Sora «il preposto ci ha fatto carezze col darce da magnare et da bevere doe volte che una volta ci stemmo doi dì et ce dormimmo anchora» (c. 706r), mostrando «di haver piacere» di mantenere l’amicizia con il bandito e con i suoi compagni per tutelarsi da vendette.
Più rari i religiosi che, invece, avevano cercato di redimerlo. Un tentativo era stato messo in atto da un predicatore teatino, inviato a Bauco per la quaresima, che, alloggiato nel palazzo di monsignor Silvio Filonardi, fece una predica «che ci ritirassimo dal mal fare» (c. 708v). Ancora il prete di Bauco, don Mutio, nel 1578 – la data è imprecisa nella deposizione di Vallante «circa doi anni sono» – aveva cercato di convincere il bandito a lasciare la macchia, approfittando della presenza di un frate cappuccino «il quale ci fece ancor lui un’esortatione et ci dette nove corone che ne desse una per uno alli compagni» (ibid.). Quando fu arrestato dai birri, Vallante aveva ancora con sé quella corona.
Un ruolo significativo fu svolto da Cesare Baronio che si adoperò in diverse circostanze per redimere il conterraneo malfattore. L’impegno dell’oratoriano è ricordato in diverse fonti coeve ed è poi confluito, arricchito di particolari, nell’agiografia su Baronio, dove, in alcuni casi, si legano episodi che, nella deposizione di Vallante, sembrano invece essere accaduti in tempi diversi. Così, ad esempio, Baronio, che aveva pregato, digiunato e compiuto pellegrinaggi perché il bandito abbandonasse il crimine, si sarebbe servito di padri cappuccini per «dargli una bella corona benedetta con sette altre per suoi compagni et seguaci che più non ne volse mai; et con una bona et pia lettera con la quale il Baronio l’esortava a lasciare quella vita», ricordandogli la certezza della dannazione eterna (Calenzio, 1907, p. 183). Sembra che la lettera, datata 20 ottobre 1578 (Roma, Biblioteca Vallicelliana, Manoscritti, Q.68, cc. 1r-7r), così come la missiva recapitata a Vallante nel carcere di Tor di Nona dai confortatori di S. Giovanni Decollato, prima della sua esecuzione capitale, siano state scritte da Francesco Maria Tarugi «abilissimo nel confortare i condannati a morte» (Calenzio, 1907, p. 185).
Nel 1578, dopo una scorreria e uno scontro a fuoco con le truppe pontificie, Vallante aveva trovato rifugio a Vallepietra, feudo di Cesare Caetani. Fu, questo, un episodio che cambiò la vita della compagine del fuoriuscito, d’ora in poi al servizio di potenti feudatari che controllavano il territorio di confine con il Regno. Infatti, racconta Vallante che, scusatosi di aver approfittato dell’immunità del feudo per mettersi in salvo, si offrì di servirlo «et lui me fece molte offerte et carezze, dandomi licenza che vi potesse andare per il suo territorio, ma che non facesse dispiacere a nessuno in detto territorio» (ASR, Tribunale criminale del Governatore, processi sec. XVI, vol. 169, ins. 28, c.720r). Fedele all’accordo, il bandito poteva quindi rifugiarsi sia a Vallepietra sia alla Torre, altro feudo di Caetani, ma il fuorilegge e i suoi compagni non potevano entrarvi in assenza del signore, né passare nei feudi di altri baroni, senza averlo prima avvertito.
Vallante entrò «in amicitia» anche con Pietro (Pirro) Caetani, signore di Maenza, già noto alla giustizia per vari delitti e per aver protetto banditi nel suo feudo. Nel 1579 si intensificarono le azioni criminose, commissionate spesso dai suoi potenti protettori. Nella sua deposizione, Vallante sembra dispiaciuto di non aver potuto eseguire di persona i crimini ordinati dai Caetani: era in debito per le «cortesie» usategli e ricorda che veniva regolarmente rifornito di vestiario elegante, cavalli, armi e ricevuto con onori anche da altri nobili dei luoghi limitrofi, amici dei Caetani. Fra questi ricordava anche Lelio Della Valle che, per ingraziarsi i banditi, aveva fatto loro doni e «carezze» (c. 762r).
Oltre ai Caetani, Vallante aveva avuto altri amici potenti fra la nobiltà, i cui nomi appaiono nella sua confessione estorti dopo esser stato sottoposto ripetutamente alla tortura della corda; Orazio Ottieri, signore di Castellottieri, ai confini del Granducato di Toscana, nel 1579 gli aveva richiesto di compiere crimini sia in Maremma sia in Val Tiberina. Era qui sfuggito alla cattura dei soldati pontifici proprio grazie alla complicità e all’aiuto del capitano Giuseppe di Castellottieri che aveva condotto il bandito a Capalbio e di qui «per passi buoni» aveva potuto raggiungere Orvieto. Durante il suo soggiorno a Castellottieri, Vallante aveva mostrato ripetutamente il desiderio di offrire «qualche servigio» a Federico Sforza di Santa Fiora: Torquato Gioia «scalco del Signor Federigo» lo condusse dal suo signore e nell’estate del 1579 rimase a Santa Fiora per due mesi, compiendo scorrerie e delitti sia in Maremma sia nello Stato pontificio, ritirandosi poi al sicuro nel feudo degli Sforza.
Il raggio delle azioni criminose si era allargato nel Regno. Gregorio XIII intensificò i tentativi di debellare le compagini di banditi affidando al cardinale Alessandro Sforza ampia autorità: proprio nel 1579, il papa aveva acquistato dai d’Avalos il ducato di Sora per il figlio Giacomo Boncompagni. Nel 1579 il papa aveva convocato a Roma rappresentanti del viceré di Napoli Juan de Zúñiga per cercare un’azione comune contro il bandito (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, BAV, Urb. lat. 1047, c. 88v). Nel marzo del 1579 il papa concesse al commissario Marcantonio Fata, inviato del viceré, di poter sostare nello Stato pontificio per cercare i banditi, mentre un commissario apostolico fu inviato nel Regno con lo stesso fine: erano però misure eccezionali, prese con timore di sconfinamenti di truppe che potessero generare o accrescere tensioni politiche fra i due Stati.
Il 4 luglio 1579 erano partiti da Roma trecento cavalieri con sessanta birri a cavallo, al comando di Paolo Giordano Orsini con un commissario apostolico, per cercare di catturare il bandito e la sua compagine presso Amelia. Fu, anche in questo caso, un clamoroso insuccesso perché, grazie al bargello e al luogotenente pontificio di Viterbo «che fecero per tutto il paese la spia» e addirittura si aggregarono ai banditi (c. 256v), Vallante poté ancora una volta sfuggire alla giustizia e, in seguito, farsi beffa di Orsini. Il 18 luglio, infatti, comparve a Porta Salaria con cinquanta cavalli.
Nel 1580 si intensificarono anche le scorrerie nel Regno, grazie alla complicità di bande locali e di feudatari, come Pietro Pignatelli. Vallante si era da tempo arricchito con sequestri e ricatti e aveva investito «a censo» circa 3500 scudi, grazie alla complicità di amici fidati dei quali, anche sotto tortura, si rifiutò di fare i nomi. Forse per sfuggire alla pressante caccia delle truppe pontificie, forse perché convinto di poter abbandonare la vita «alla campagna» e rifugiarsi altrove per godere delle fortune accumulate, anche per timore di tradimenti di alcuni suoi uomini che avevano ottenuto la pace e la remissione del bando, o forse, come vuole l’agiografia oratoriana, convinto e convertito dall’intervento di Baronio, Vallante cercò di ottenere una modifica del bando e inviò una lettera, scritta per lui dal sorano Marcantonio dell’Aquila, a Iñigo d’Avalos, cardinale d’Aragona, per rivederne i termini. Iniziò a patteggiare con il commissario Baldo Boezio, rappresentante del cardinale d’Avalos e stipulò la pace con i suoi nemici. Grazie al rafforzamento della difesa delle zone limitrofe alla città, il 25 novembre 1580 il bargello di Campagna «casualmente» a Monterosi aveva fermato tre persone a cavallo perché portavano armi proibite: uno di essi era Vallante, che fu subito condotto a Tor di Nona per essere «diligentemente» interrogato.
La notizia della sua cattura fece scalpore, non solo a Roma: da Napoli fu inviato un commissario per assistere al processo e avere informazioni sui legami che il bandito aveva nel Regno; il viceré fece richiesta della sua testa e il 28 dicembre il governatore concesse la testa di Vallante a un gentiluomo di Benevento perché la portasse a Napoli. Il 1° gennaio 1581 Vallante nel suo ultimo interrogatorio confermò la sua deposizione: «è vero tutto quello che ho detto in tutti li miei examini...» (ASR, Tribunale criminale del Governatore, processi sec. XVI, vol. 169, ins. 28, c. 799r). Confortato nel carcere dai membri dell’arciconfraternita di S. Giovanni Decollato e confessato dallo stesso Baronio, si mostrò «contrito e disse voler morir da buon cristiano [...] et morir giustamente. Altro disse non haver da far scrivere» (ibid., Archivio dell’Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato, Testamenti, vol. 34, c. 88r).
L’11 gennaio 1581, attanagliato e mezzo nudo fu condotto su un carro al patibolo a ponte Sant’Angelo, in mezzo a un «grande concorso di gente, perché ognuno desiderava vedere per la fama che haveva: era giovane di 30 anni, ha fatto 54 homicidi et è stato 12 anni fuoriuscito» (BAV, Urb. lat. 1049, cc. 10r, 13r). Fra gli spettatori c’era anche Michel de Montaigne che annotava questo spettacolo nel suo Journal de voyage (a cura di C. Dédéyan, 1946, pp. 208 s.).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, processi sec. XVI, vol. 169, ins. 28, cc. 628r-799v; Archivio dell’Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato, Testamenti, vol. 34, c. 88r; Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 1047, cc. 88r, 119r, 256v, 264r, 273v; 1048, cc. 416v, 422r, 426r; 1049, cc. 10r, 13r; Roma, Biblioteca Vallicelliana, Manoscritti, Q.68, cc. 1r-7r; L’Italia alla fine del secolo XVI: il giornale di viaggio di Michele de Montaigne in Italia nel 1580 e 1581, a cura di A. D’Ancona, Città di Castello 1889, p. 232; M. de Montaigne, Journal de voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581, a cura di C. Dédéyan, Paris 1946, pp. 208 s.; F. Velocci, Io so’ Bartholomeo, altrimente Catena, dal Monte San Giovanni, Monte San Giovanni Campano 2004, con la trascrizione degli atti del processo.
G. Calenzio, La vita e gli scritti del cardinale Cesare Baronio, Roma 1907, pp. 182-191; I. Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, pp. 107-118; S. Ceglie, «Di folta selva per le vie coperte»: dai banditi del Cinquecento ai briganti dell’Ottocento, in Rivista storica del Lazio, IX (2001), pp. 77-80; D. Piacentini, La società violenta e il brigantaggio cinquecentesco nella diocesi di Sora, Sora 2011, ad ind.; I. Fosi, La justice et ses rites à Rome à l’époque moderne, in Rite, justice et pouvoirs. France-Italie XIVe-XIXe siècle, a cura di L. Faggion - L. Verdon, Aix-en-Provence 2012, pp. 131 s.; A. Prosperi, Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo, Torino 2013, ad ind.; R. Zapperi, Alle Wege führen nach Rom: Die ewige Stadt und ihre Besucher, München 2013, p. 50.