MALVICINI FONTANA, Valerio
Impropriamente denominato Malvicino (così egli stesso si firmava nelle carte scritte durante la persecuzione dei valdesi di Calabria), nacque intorno al 1530 nel territorio di Piacenza.
Apparteneva alla consorteria gentilizia dei Malvicini Fontana, ramo dei Fontanesi, ma non è noto se alla linea dei marchesi di Nibbiano o a quella dei Vicobarone (è più probabile la prima, perché sin dalla metà del Quattrocento sono documentate transazioni economiche tra i Nibbiano e il convento di S. Giovanni in Canale). Entrambe le famiglie, comunque, ricoprivano un posto di rilievo nell'aristocrazia piacentina e in età moderna diedero alla città un certo numero di letterati, mantenendo un saldo legame con i vertici della Chiesa locale e con Roma: un Lazzaro Malvicini Fontana fu uomo di fiducia di Alessandro VI e protonotario apostolico; un Antonio era preposto della cattedrale all'inizio del XVI secolo; Carlo e Giovanni Ludovico compilarono cronache della città, e il primo corresse il catalogo dei vescovi di F. Marliani; un Erasmo fu ambasciatore dei duchi di Parma e Piacenza presso la S. Sede e un Girolamo fu inviato da Carlo V come membro della delegazione che avrebbe dovuto perorare le cause della Comunità cittadina nel 1550.
Non è noto quando il M. sia entrato nel convento dei frati predicatori di S. Giovanni in Canale, né se, ed eventualmente quando, si sia laureato a Bologna come altri confratelli della sua provincia.
Un documento stilato il 7 febbr. 1557 (Arch. di Stato di Parma, Conventi e monasteri, LXXXVI, Domenicani di S. Giovanni in Canale di Piacenza, b. 17, anno 1581: Processi diversi contro di S. Giovanni in causa con la Compagnia della Croce) attesta la presenza del M. nel convento piacentino in veste di lettore e di vicario del padre Angelo Avogadro, inquisitore della città (che a quel tempo aveva giurisdizione anche su Crema, sebbene non più su Cremona).
Negli anni 1557-58 il M. non fu dunque inquisitore della città, come hanno scritto spesso quanti hanno trattato del S. Uffizio piacentino, fuorviati forse dalla cronaca di G.A. Corvi (oggi perduta, ma citata ampiamente da C. Poggiali). Come semplice vicario egli diede il proprio sostegno ad Avogadro (che in quegli anni era anche il priore di S. Giovanni) e al governatore ducale Andrea Recuperato nel consolidare la dura svolta repressiva che seguì al mutato contesto italiano e internazionale e al ritorno dei Farnese a Piacenza.
A quanto è dato di sapere in assenza dei documenti del locale archivio del S. Uffizio, furono imbastiti circa trenta processi, e alcune sentenze furono emesse in contumacia. Il cambio di registro fu radicale, perché fino a quel momento neppure il commissario dell'Inquisizione Callisto Fornari (m. 1552) e l'inquisitore canonista Bartolomeo Fumi, attivo fino al 1555, avevano potuto nulla contro la resistenza opposta all'attività dei giudici della fede dal governatore di Milano Ferrante Gonzaga e dal progovernatore della città, García Manrique de Lara. Questi nel 1548 aveva portato a Piacenza la consorte Isabella Bresegna che, grazie anche all'appoggio della moglie di Gonzaga, Isabella Di Capua, continuò a tessere contatti con i riformati e i valdesiani di altre città fino alla fuga Oltralpe nel 1557.
In quell'anno l'attività dell'Avogadro e del M., non più frenata, poté colpire, tra gli altri, Matteo Dordoni, Innocenzo Milvio (o Nibio), Alessandro Caverzago e Alessio Ruinagia, che si diede come altri alla fuga. I suoi beni furono confiscati in contumacia e divisi a metà tra il Fisco ducale e l'ufficio dell'Inquisizione, che in tal modo finanziò i lavori alle prigioni. A gestire le fasi di applicazione della pena, resa esecutiva nel 1558, fu il Malvicini. Come riportato nella cronaca di G.A. Corvi, il 18 marzo 1558 nel convento di S. Giovanni, di cui Locati era divenuto il priore, il M. (definito "inquisitor" e non vicario) condannò alla fustigazione pubblica i tre inquisiti per "luteranesimo", per ripetuti atti di sacrilegio e per favoreggiamento di eretici.
Dall'autunno del 1559, quando inquisitore della città divenne U. Locati, del M. non si hanno notizie. Un cambio della guardia avvenne anche ai vertici della diocesi, che, con la morte di Catalano Trivulzio, fu affidata a Bernardino Scotti, cardinale del S. Uffizio. Non è chiaro se fu Scotti (i cui feudi di famiglia confinavano con quelli dei Malvicini Fontana in Val Tidone) a sollecitare il trasferimento da Piacenza del M., ma è certo che nel 1560 l'ufficio inquisitoriale piacentino fu scosso da un contrasto tra Pietro Martire Gattino, priore di S. Giovanni, e Locati: il contrasto riguardava la pretesa veridicità della visione miracolosa di una donna e fu risolto da Scotti e dai cardinali inquisitori, che impedirono la costruzione di un santuario e negarono la santità della contadina. Locati - che parteggiava per la veridicità della visione - rimase al suo posto, ma in quell'arco di tempo il M. lasciò Piacenza alla volta di Napoli per risiedere nel convento dei domenicani osservanti di S. Caterina a Formiello.
Si trattò solo di una tappa, perché poco tempo dopo il M., che forse si occupava già di censura libraria, fu incaricato dal S. Uffizio di svolgere una missione poliziesca che lo portò nei casali valdesi del Cosentino (La Guardia, San Sisto, Montalto), dove giunse il 13 nov. 1560.
Dopo il sinodo di Chanforan, che ruppe l'isolamento dei villaggi cosentini lontani dalla riforma europea, i valdesi di Calabria furono oggetto di crescenti attenzioni da parte delle autorità, civili ed ecclesiastiche. Alla fine degli anni Cinquanta, l'Inquisizione affidò l'incarico di convertire o di punire le comunità all'abate di S. Sisto, Bernardino d'Alimena, al vicario dell'arcivescovo di Cosenza Taddeo De Gaddi, al vescovo di Lesina Orazio Greco, e a un uomo di fiducia di Michele Ghislieri, fra' Giovanni da Fiumefreddo, che agirono comunicando con la Sede apostolica e con il "ministro" del S. Uffizio a Napoli, Giulio Pavesi. Tuttavia le loro operazioni non riscossero il consenso di Roma: fu soprattutto Greco a deludere le aspettative dei cardinali inquisitori, al punto che Ghislieri bollò con parole aspre le abiure di massa imposte dal vicario, perché non lasciavano immaginare conversioni sincere.
L'incarico dato al M. come commissario del S. Uffizio, ma anche come uomo che forse riscuoteva la fiducia delle autorità civili, altrettanto interessate alla sorte del nucleo riformato, segnò dunque un cambio di strategia e un inasprimento dei metodi inquisitoriali. Già nella lettera spedita a Tommaso Scotti il 14 nov. 1560, il M. non esitò a criticare i metodi di Greco e a suggerire l'emanazione di un editto con il quale l'Inquisizione ingiungesse una volta per tutte l'abiura dei malconvertiti, disponesse come regolare la disciplina religiosa nei casali e desse incarico ai commissari di punire gli impenitenti, rilasciandoli al braccio secolare. In una missiva del 9 febbr. 1561, il M. avvisò Ghislieri degli effetti ottenuti con i processi e le abiure, le demolizioni di case, le numerose confische e le prescrizioni da lui ordinate: gli "ostinati" si erano dati alla fuga nei boschi circostanti; altri avevano lasciato la Calabria alla volta di Napoli; altri complottavano per la riscossa. Fondata una Confraternita del Ss. Sacramento, il M. si dedicò a difendere senza buon esito i diritti della diocesi e del S. Uffizio sui beni da lui espropriati; il 3 marzo avvisò Ghislieri che si era proceduto alla pubblicazione degli ordini emanati dall'Inquisizione in febbraio, i quali prevedevano norme di vita e divieti rigidissimi per i valdesi. "Sonno non homini, ma orsi", scriveva il 3 marzo; "giente alle quali pocho rimedio credo si possi fare se non l'esterminio se non de tucti, almeno d'alchuni" (Scaramella, pp. 207 s.). In aprile il S. Uffizio delegò come nuovi commissari De Gaddi e l'arcivescovo di Reggio, Gaspare Del Fosso, che affiancarono le truppe del governatore, il marchese Marino Caracciolo, quando questi procedette all'assalto dei casali (maggio 1561). I morti e i castigati furono centinaia, al punto che le comunità cosentine non si ripresero più dopo quell'azione.
Il lungo soggiorno del M. a Napoli cominciò nell'autunno del 1561. Già il 13 novembre, infatti, con una patente commissionale, il viceré Pedro Afán de Ribera, duca di Alcalá, allarmato dalla circolazione di libri contrari alla fede cattolica, deputava il M. come "regio commissario" per il controllo del mercato librario (Spampanato, p. 229). Il suo compito era di individuare i testi perniciosi e di riferire direttamente al governo secolare ogni notizia di stampe sospette, perché si potesse procedere alla punizione degli eretici trasgressori. Il 19 novembre, per rendere effettivo l'ordine, il doganiere regio veniva avvisato che non aprisse alcuna balla di libri proveniente da fuori città senza l'intervento del Malvicini. Se in quegli anni la collaborazione tra potere civile ed ecclesiastico fu rilevante e capace di sferrare un colpo fatale al dissenso religioso così diffuso in città, la nomina di un uomo come il M. da parte del viceré a ridosso della repressione dei valdesi e mentre si discuteva del destino dei loro beni, lascia intuire un progetto delle autorità spagnole per introdurre anche a Napoli i metodi e forse le forme del severo tribunale inquisitoriale iberico.
Il M., inoltre, a partire dal 1563 affiancò l'inquisitore e vicario dell'arcivescovo Alfonso Carafa, monsignor Luigi Campagna, nei compiti di controllo dell'ortodossia a Napoli, sebbene le facoltà del vicario in materia di repressione del dissenso religioso fossero estese a tutto il Regno, secondo quanto disposto da Pio IV l'anno prima. Forse il campo specifico di intervento del M. fu quello librario, perché il suo nome affianca quello del Campagna nel nulla osta rilasciato nel 1563 per l'edizione di un'opera del frate Luigi Vulcano. Con il M., in veste di delegati di Campagna lavorarono Prospero Vitaliano e il futuro cardinale Giulio Antonio Santoro, vescovo di Santa Severina e segretario del S. Uffizio, che ricorda ambiguamente il M. in una delle pagine autobiografiche (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 4592, c. 147r).
I processi aperti dai quattro inquisitori in quelli anni furono gestiti con grande durezza. Giovanni Francesco Alois e Giovanni Bernardino Gargano, inquisiti nel 1562, vennero giustiziati davanti a una grande folla il 4 marzo 1564. A dispetto di un ordine di Giulio III, che vietava le confische nel Napoletano, i loro beni furono espropriati, creando risentimento e paura tra la popolazione. Del resto Campagna continuò a fomentare l'odio di una parte della classe dirigente e del popolo ampliando i propri poteri di giudice in foro esterno e interno. La rivolta non tardò ad arrivare e fu la terza del secolo contro i poteri dell'Inquisizione, nata come le altre dal timore che si introducesse a Napoli un tribunale "al modo di Spagna". In aprile il vicario fu costretto a lasciare la città alla volta di Roma, interrompendo la propria attività di giudice.
Non sappiamo se il M. subì conseguenze per via del clima creatosi a Napoli. Certo, sin dall'anno 1563 egli risulta come "lector primus" nel convento di S. Caterina (Arch. di Stato di Napoli, Corporazioni religiose soppresse, S. Caterina in Formiello, f. 1694, 9 marzo 1563). Inoltre, se il frate "Valerius de Placentia" di cui parla il documento è effettivamente il M., egli ottenne l'approvazione del titolo di maestro nel capitolo generale dei domenicani, celebrato a Bologna il 20 maggio 1564. Infatti il M. risulta citato come "magister" già nel primo documento che lo attesta come priore di S. Caterina (ibid., f. 1692, 4 ag. 1564, cc. 11r-14v). Il M. restò priore sino alla fine del 1565 (ibid., f. 1693, atto datato 11 ottobre) e in quella veste partecipò al sinodo diocesano inaugurato il 4 febbr. 1565, contribuendo a stilarne i decreti e a esaminare i confessori da abilitare. Il M. continuò pure a lavorare come giudice dell'Inquisizione, ma senza rivestire una carica specifica. E infatti fu lui a ricevere la denuncia che aprì la causa contro il gestore della succursale napoletana dell'editore veneziano Gabriele Giolito de' Ferrari, il libraio Giovan Battista Cappello.
La denuncia fu mossa il 12 genn. 1565 da Pietro Ludrini, precedente gestore della succursale. Inquisito tra gennaio e febbraio da Santoro e dai due consultori, Vitaliano e il M., Cappello subì il sequestro di numerosi libri. La lista delle opere in suo possesso (in cui figuravano testi di Melantone, Brucioli, Erasmo, Agrippa, Machiavelli, Du Moulin, Ochino, Curione) fu inviata a Venezia, dove fu chiamato a deporre Gabriele Giolito de' Ferrari, che seppe difendersi evitando la condanna.
Il M. continuò con ogni probabilità a risiedere a Napoli, anche se le notizie su di lui cessano dopo il 1565.
Solo una pagina del diario delle udienze di Santoro lo ricorda il 5 febbr. 1572, quando Pio V propose la nomina del M. a vescovo di una diocesi del Regno di Napoli, incontrando le perplessità di Santoro, che non amava affatto il domenicano. Per difendere la propria scelta, il papa "disse di detto maestro Valerio ch'era huom da bene et che era stata calonnia, et che la relatione del p. Bobadilla non se poté da lui verificare" (Arch. segreto Vaticano, Arm. LII, 17, I, c. 166r): Pio V faceva così riferimento a un episodio che risaliva a quasi dieci anni prima, quando, nel pieno dei lavori del concilio, il gesuita Nicholas Bobadilla, inviato in Calabria a gestire le fasi successive alla persecuzione, prese l'iniziativa di rivolgersi a Ghislieri per criticare l'operato degli inquisitori e dei commissari reali nei casali valdesi (la lettera del 10 ott. 1562 è perduta). Il generale Laínez, da Trento, scoraggiò il Bobadilla (lettere del 12, 21 e 22 ott. 1562, in Bobadillae Monumenta, p. 415). Ma questi scrisse o parlò ugualmente con Ghislieri, bollando l'attività del M. e di altri, sicché Laínez, per coprirgli le spalle, si sentì in dovere di scrivere direttamente a Ghislieri (18 ottobre: ibid., pp. 415 s.). Il Bobadilla non si era limitato a criticare la durezza adottata con i penitenti, "simplicissimi homines" presto "reversi ad fidem catholicam". Stando a uno stralcio del suo diario, egli trovava intollerabile la spoliazione dei beni operata a danno dei valdesi "a malis ministris curiae" (ibid.). Forse il diretto riferimento è al commissario regio Piero Antonio Pansa, ma fu in questo contesto che il Bobadilla attaccò il M., come avrebbe ricordato Pio V dieci anni dopo, prendendo le difese del frate. Santoro fece presente che non era stato solo il gesuita a pensare male del M., "et che in Piacenza vi fu non so che" (Arch. segreto Vaticano, Arm. LII, 17, I, c. 166r), forse alludendo all'episodio della presunta visione del 1560, forse alla durezza dei procedimenti inquisitoriali piacentini. Certo è che la nomina a vescovo non fu effettuata e che il M. (che non ha lasciato opere né manoscritte né a stampa) seppe guadagnarsi una fama sinistra, confortata da quanto si sa di lui. Gli storici valdesi ne hanno sempre dipinto un ritratto a tinte fosche (di uomo avido e spietato) che riprende da quello tratteggiato già nel Cinquecento da Scipione Lentolo (Lentolo, p. 228).
La data di morte del M. non è nota, comunque fu successiva al 1572.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Piacenza, Archivio Mandelli, III, Malvicini Fontana di Nibbiano; Arch. di Stato di Parma, Conventi e confraternite soppr., LXXXVI, Piacenza, Domenicani di S. Giovanni, b. 5, anno 1571, 15 gennaio; XCII, Inquisizione di Piacenza, b. 1 bis, 1753, cc. n.n. (Catalogo degli inquisitori di Piacenza); anni 1557-58, cc. n.n. (Processus Ruynagiae); Piacenza, Arch. del Convento e della Chiesa dei predicatori di S. Giovanni in Canale, Serie cronologica, c. 404r (microfilm conservato all'Archivio di Stato di Piacenza); Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, Stanza storica, LL 3 a; Roma, Archivum generale Ordinis fratrum praedicatorum, XI, 1530: Historia chronologica del convento di Santa Catarina a Formello [(] compilata in due parti dal padre fra' Tomaso Renaldi, XVIII secolo, c. 404v; Arch. di Stato di Napoli, Corporazioni religiose soppresse, S. Caterina in Formiello, f. 1699, 28 sett. 1564; Collaterale, Curia, 18, cc. 249r, 251r-252r; Napoli, Arch. storico diocesano, Sant'Officio, scat. 2, f. 43, 1565 (già G, f. 46), denuncia contro il libraio G.B. Cappello; C. Poggiali, Memorie per la storia letteraria della città di Piacenza, I, Piacenza 1789, p. 249; Annali di Gabriel Giolito de' Ferrari, a cura di S. Bongi, I, Roma 1890, pp. LXXXV-CIII; Acta capitulorum generalium Ordinis praedicatorum, V, a cura di B.M. Reichert, Romae 1901, p. 69; S. Lentolo, Historia delle grandi e crudeli persecutioni fatte ai tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte contro il popolo che chiamano valdese, a cura di T. Gay, Torre Pellice 1906, pp. 228 ss.; Bobadillae Monumenta, Matriti 1913, pp. 415 s.; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, I, pp. 243, 257 s.; L. Mensi, Diz. biografico piacentino, Piacenza 1899, pp. 259-262; C. Poggiali, Addizioni alle Memorie storiche di Piacenza, a cura di G. Tononi - G. Grandi - L. Cerri, Piacenza 1911, p. 187; V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi ed inediti, Messina 1921, I, pp. 229 s.; M. Scaduto, Tra inquisitori e riformati. Le missioni dei gesuiti tra valdesi della Calabria e delle Puglie. Con un carteggio inedito del card. Alessandrino (S. Pio V), 1561-1566, in Archivum historicum Societatis Iesu, XV (1946), p. 8; G. Drei, I Farnese. Grandezza e decadenza di una dinastia italiana, a cura di G. Allegri Tassoni, Roma 1954, pp. 147 ss.; E. Nasalli Rocca, Note archivistiche sull'Inquisizione piacentina nel '500, in Boll. stor. piacentino, L (1955), pp. 79 s.; R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961, pp. 133, 187, 192; C. De Frede, Tipografi, editori, librai italiani del Cinquecento coinvolti in processi di eresia, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXIII (1969), pp. 31 s.; P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra '500 e '600, Napoli 1974, pp. 50-55, 57, 59, 64 s.; Le antiche famiglie di Piacenza e i loro stemmi, a cura di G. Fiori et al., Piacenza 1979, pp. 273-277; G. Cioffari - M. Miele, Storia dei domenicani nell'Italia meridionale, II, Napoli-Bari 1993, p. 272; P. Castignoli, Un contributo alla ricerca sull'eresia "luterana" e la repressione inquisitoriale a Piacenza nel Cinquecento, in Boll. stor. piacentino, XCIII (1998), p. 23; D. Ponzini, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa, in Storia di Piacenza, IV, 1, Piacenza 1999, p. 249; P. Scaramella, L'Inquisizione romana e i valdesi di Calabria (1554-1703), Napoli 1999, ad ind.; S. Ricci, Il sommo inquisitore. Giulio Antonio Santori tra autobiografia e storia (1532-1602), Roma 2002, p. 114.