VALENTI, Gioacchino Alfredo detto Ghino
– Nacque a Macerata il 14 aprile 1852 da Teofilo, avvocato civilista e professore nella locale università, in cui fu anche preside della facoltà di legge, e dalla contessa Eleonora Spada Lavini.
Famiglia dunque, quella dei Valenti, fra le più in vista nel capoluogo marchigiano, e anche famiglia facoltosa che però subì diversi rovesci economici per investimenti rivelatisi non proficui (che Ghino riuscì con fatica ad azzerare nel corso degli anni).
Completati gli studi secondari al convitto Tolomei presso gli scolopi di Siena, ritornò a Macerata per iscriversi alla facoltà di legge. Si laureò con Piero Giuliani, un giurista dotato anche di solida preparazione economica, la cui personalità influì non poco sulla sua formazione, trasmettendogli la propria passione per il giornalismo (nel 1864 Giuliani aveva fondato il periodico economico Il Mercurio) e per la politica (nel 1868 il medesimo era divenuto sindaco di Macerata).
Valenti non ebbe incertezze nell’indicare nel settore agricolo la chiave di volta di un’economia, quella italiana, che rispetto ai maggiori Paesi europei risultava nel suo complesso debole e arretrata. In questa battaglia per lo sviluppo economico della sua regione così come dell’intera nazione, egli rifiutò peraltro di dare credito a chi sosteneva la necessità di ricorrere alla protezione doganale.
A venticinque anni, in quanto presidente del comizio agrario di Macerata, venne chiamato a collaborare ai lavori dell’inchiesta agraria presieduta da Stefano Jacini. Due anni dopo fondò e diresse La Rassegna provinciale, un periodico maceratese di breve vita, ma di eccellente qualità. Nel rileggere i suoi scritti economici, tesi a legare insieme il dato ‘naturale’ e quello ‘civile’ come caratteri distintivi di ogni società, viene spontaneo scorgervi una profonda affinità con l’approccio storico-geografico di Carlo Cattaneo.
Nella presentazione della rivista avverte il lettore che la maggior parte delle riflessioni economiche che vi avrebbe pubblicato sarebbero scaturite dall’osservazione della particolare morfologia del territorio. Le Marche infatti presentano un alternarsi di zona montana e zona pianeggiante/marittima che si ripete per ogni provincia. Inoltre si deve tener conto del fatto che la popolazione sia agglomerata oppure diffusa. In particolare egli osserva che nella zona montana delle singole province la densità della popolazione è in media la metà rispetto a quella della pianura. In conclusione, secondo Valenti, un maggiore equilibrio demografico fra zona montana e zona pianeggiante avrebbe favorito lo sviluppo economico della regione: lo spopolamento della zona di montagna era uno dei maggiori fattori negativi.
Al primo posto assoluto per consistenza economica si collocava Ancona e non c’era dubbio che in questa provincia vi fosse un salutare equilibrio fra agricoltura e industria, ovvero fra campagna e città. Seconda veniva Macerata, che risultava economicamente meglio provvista sia di Pesaro sia di Ascoli (G. Valenti, Distribuzione della popolazione nelle Marche, in La rassegna provinciale, 1879, n. 7, in partic. pp. 57-59). Osservava che la proprietà era più frazionata in montagna che in pianura, e ciò per la povertà dei terreni montani, il loro minore valore di mercato e quindi il maggior numero di piccoli proprietari al limite dell’indigenza. Questo significava agricoltura di sussistenza e prevalere dell’autoconsumo in montagna, produzione per il mercato e presenza di unità produttive medie e grandi in pianura e in marina (G. Valenti, Statistica della proprietà rurale nella provincia di Macerata, in La rassegna provinciale, 1879, n. 11, pp. 93 s.).
Dalla descrizione della natura dei luoghi all’analisi socioeconomica il passo per il giovane Valenti era breve. Osservava che tanto meno un Paese era sviluppato, tanto più pesavano negativamente su di esso le passate scelte della classe dirigente, ormai consolidate nel tempo. Per questo riteneva che la fase su cui si dovesse intervenire per modernizzare l’economia fosse quella iniziale della formazione professionale delle classi lavoratrici. In discussione vi era allora un progetto di scuola pratica di agricoltura per la provincia di Macerata, basato su uno schema governativo trasmesso dallo stesso ministro a tutti i consigli provinciali del Paese. D’altra parte, come ricordava sulla sua rivista, in provincia esisteva già un’istituzione di quel tipo, non adibita però alla formazione dei fattori, ma soltanto a quella dei contadini, per cui erano benvenute le riforme basate sul progetto ministeriale.
Valenti sintetizzava il suo pensiero in questo modo: «Create pure degli abili coltivatori, finché non avrete de’ buoni agenti di campagna non avrete nulla ottenuto» (L’istruzione agraria nella nostra provincia, III, in La rassegna provinciale, 1879, n. 29, p. 135). E ribadiva la sua tesi che la riforma dell’istruzione agraria non dovesse subire troppi condizionamenti, ma mirare in alto, puntando non solo a combattere l’analfabetismo, ma anche a formare personale con conoscenza di «elementi di fisica, di chimica, di meteorologia, di botanica applicate a spiegare i fenomeni» (L’istruzione agraria nella nostra provincia, IV, in La rassegna provinciale, 1879, n. 30, p. 141).
Valenti non era uomo che coltivasse un unico settore di indagine. In quello stesso 1879 si legò di amicizia con lo psichiatra Enrico Morselli, arrivato a Macerata ancor giovane a dirigere il locale manicomio, e fresco autore di una monografia intitolata Il suicidio. Saggio di statistica morale comparata (Milano 1879), che avrebbe influenzato l’omonimo studio del sociologo Émile Durkheim pubblicato nel 1897. Una discussione nientemeno che su libero arbitrio e determinismo in sociologia e in psichiatria si svolse fra i due amici sulla rivista. In tale discussione Valenti osservava che – contrariamente a quanto sosteneva lo scienziato-filosofo Morselli – la corretta lettura delle statistiche sociali, per esempio quelle sui suicidi, non doveva portare a credere che le forze della libertà umana fossero impotenti a salvare il libero arbitrio, il cui esercizio pratico dipendeva da dati culturali ed era più o meno uniformemente distribuito sull’intera popolazione (Il suicidio, in La rassegna provinciale, 1879, n. 37, pp. 197-199).
In qualità di membro della commissione per l’inchiesta agraria presieduta da Jacini e aperta formalmente nel 1877, Valenti fu portato a riflettere su un dato preoccupante: il peggioramento delle condizioni economiche della regione marchigiana fra gli anni Settanta e Ottanta dovuto appunto alla crisi del settore agricolo, proprio quello che ne doveva sostenere il decollo economico. Porta la sua firma la relazione tecnica sull’agricoltura marchigiana, che gli fu affidata dal capo dei ricercatori per l’Italia centrale, Francesco Nobili Vitelleschi.
A questo punto ritenne conclusa la propria ricerca sull’agricoltura marchigiana, per dedicarsi interamente ai problemi di quella nazionale. Nel 1892 si trasferì a Roma come segretario della Società generale degli agricoltori, carica che mantenne fino al 1898.
Conseguita nel 1897 la sospirata cattedra universitaria di economia politica con il sostegno di Angelo Messedaglia, ormai Valenti figurava come uno studioso affermato tanto nel settore della statistica agraria quanto in quello della politica agraria. Un suo lettore entusiasta si dimostrò Luigi Einaudi, che definì «mirabili» per completezza e leggibilità le sue statistiche della produzione agricola annua (Il momento presente dell’Italia economica, in Corriere della sera, 27 giugno 1911).
Coprì la cattedra di economia politica in successione a Modena, Padova e finalmente a Siena, che fu la sua sede definitiva e certo quella più ambita, se si pensa alla sua giovanile formazione scolastica nella città toscana.
Nell’ultimo tratto della sua vita portò a termine due importanti fatiche. In ordine temporale, prima venne la pubblicazione del testo universitario di economia politica, che uscì nella diffusa collana di manuali tascabili dell’editore Barbèra di Firenze. Qui daremo una sommaria idea della prima edizione, edita quando l’autore era ancora docente dell’Università di Padova (l’opera ebbe in seguito due edizioni). Caratteristica dei Principii di scienza economica, risultato di «tre anni di assiduo lavoro» (p. XI), è la preoccupazione di mostrare ai lettori i punti di contatto fra le varie scuole dominanti in Italia, come fa sapere la prefazione dell’autore datata «Roma 27 febbraio 1906». Facendosi carico del fatto che si rivolgeva da economista a studenti di legge, evidenzia «la connessione dei principi economici con i principi giuridici e con le questioni pratiche», assicurando i giovani lettori che l’acceso dibattito fra gli economisti delle varie scuole confermava, e non smentiva, «la mirabile unità dei principii economici» (p. VIII). Non deve quindi sorprendere, tenuto conto di queste premesse, l’ampiezza della parte introduttiva, che tocca questioni di confini disciplinari forse difficili da cogliersi da parte di giovani studenti, ma che risentivano dei dibattiti fra gli economisti dei decenni passati, formatisi su autori francesi, tedeschi e inglesi.
I Principii di scienza economica rappresentano una simbolica rivincita dell’autore nei confronti di chi avesse avuto ancora riserve sull’attribuzione di una cattedra di scienza economica a un cultore di agronomia. Qui infatti Valenti mostrò tutta la sua cultura economica, fino ad allora oscurata dal suo lavoro di analisi del dato statistico relativo a un particolare settore produttivo. L’opera anzitutto sottolinea la natura mista della scienza economica, che è tanto logico-deduttiva quanto empirico-induttiva. Ne consegue che induzione e deduzione devono procedere di comune accordo, anche se non si deve trascurare che questi due approcci restano concettualmente distinti, e che il momento della deduzione è e resta fondamentale nella teoria del valore, mentre l’induzione è alla base della teoria del prezzo. Che cosa viene prima? Seguendo il proprio autore di riferimento, il capofila degli economisti lombardo-veneti Messedaglia, Valenti osserva che prima viene l’induzione, poi la deduzione, poiché l’oggetto della scienza economica è pur sempre una realtà in continuo movimento e da questo dato di fatto non si può mai prescindere. Nota poi che le stesse leggi economiche sono leggi di tendenza, non leggi assolute come quelle che riguardano i movimenti dei corpi celesti (pp. 15 s. e passim). Il materiale empirico tratto dai fenomeni economici va pazientemente sottoposto a dissezione. Questo momento corrisponde alla ricerca empirica per quanto riguarda la raccolta dei dati. Invece il passaggio finale dalla selezione del materiale raccolto alla sua interpretazione non può farsi in altro modo che riferendosi a una teoria. Fra i vari procedimenti di ricerca, secondo Valenti merita la priorità il ricorso all’osservazione diretta (p. 23). Tuttavia questa fatica non investe in modo immediato i teoremi della scienza, su cui vi è poco o nulla da aggiungere, bensì l’illustrazione di come si formi la cultura economica, in certo senso assegnando all’economista empirico un lavoro da archeologo. Viene da dire che se avesse potuto conoscere un’illustre corrente storiografica francese del Novecento – quella facente capo all’École des Annales – Valenti si sarebbe trovato interamente a suo agio fra i cultori di questa, sempre alla ricerca di pezzi di storia da ricomporre, come a formare un mosaico.
La seconda opera da ricordare è il saggio L’Italia agricola dal 1861 al 1911, incluso in Cinquanta anni di storia italiana (a cura dell’Accademia dei Lincei, II, Milano 1911, pp. 1-147)
Si tratta di un testo di quasi centocinquanta pagine che mettono in rilievo le qualità, ma anche i limiti oggettivi, dell’agricoltura del nostro Paese, sottolineandone i profondi squilibri da regione a regione. Dal saggio risulta il tratto principale dell’agricoltura italiana del tempo: quello di costituire un coacervo di realtà molto differenti fra loro quanto a tecniche produttive e quindi a diverso livello di sviluppo. Oltre a questa difformità, si segnala come tratto negativo il fatto che non si sia dedicata una maggiore cura all’allevamento del bestiame di grande taglia, prezioso per la produzione di letame oltre che per l’offerta di carne. Errori nelle scelte governative – e non solo oggettive difficoltà – erano quindi alla base della povertà dei risultati. Ne discendeva l’ammissione del sostanziale fallimento del progetto riformatore che aveva animato Jacini e originato i quindici tomi degli atti dell’Inchiesta, purtroppo letti da pochissimi. In questo senso suonava anche il suo ultimo scritto, L’Italia agricola e il suo avvenire (Roma 1919).
Ancora in servizio a Siena, dove era stato rettore, morì in ospedale a Roma il 20 novembre 1920.
Sposato con una nobildonna, la marchesa Irene Costa, aveva avuto un figlio cui era stato imposto il nome del nonno e che si spense senza discendenza nel 1951.
Il rilancio o meglio la riscoperta di Valenti è largamente dovuta al successo del volume di Paolo Grossi, Un altro modo di possedere (1977), un lavoro interdisciplinare sul pensiero giuridico-economico che ha suscitato un nuovo interesse verso autori e problemi per molto tempo rimasti sepolti nell’oblio (in partic. pp. 286-329 e passim).
Opere. Oltre a quelle citate nel testo: L’economia rurale nelle Marche, Macerata 1888; Le idee economiche di Gian Domenico Romagnosi. Saggio critico di Ghino Valenti, Roma 1891; Cooperazione rurale, Firenze 1902; Principii di scienza economica. Introduzione allo studio dell’economia politica, i principii dell’economia individuale, i principii dell’economia sociale, Firenze 1906; Studi di politica agraria. Rimboschimento e proprietà collettiva, l’enfiteusi, la Campagna romana, il latifondo in Sicilia, l’Italia agricola nel cinquantennio, Roma 1914. Per un elenco più ricco delle opere dell’autore si veda Giaconi, 2003.
Fonti e Bibl.: In diversi necrologi la data e/o il luogo di morte di Valenti sono errati. Ringrazio il personale amministrativo dell’Università di Siena per avermi fornito le informazioni esatte.
Fra tutti i saggi su Valenti il più ampio e dettagliato è quello di D. Giaconi, Dall’inchiesta agraria agli studi sulla proprietà. Le radici del pensiero di G. V. e l’affermazione di un metodo d’indagine, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XXXII (2003), pp. 393-477. Circa la sua collaborazione all’inchiesta Jacini, Alberto Caracciolo osserva come nella Quinta circoscrizione, quella sulle regioni centrali, l’opera della commissione dovette molto all’energia del giovane Valenti, «allora sconosciuto a cui in sostanza si deve l’intero volume sulle Marche» (L’inchiesta agraria Jacini, Torino 1958, p. 130). Alla sua figura e opera dedica un giudizio assai positivo, non solo per il contributo all’inchiesta Jacini, ma anche per il metodo di ricerca utilizzato, P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano 1977, p. 286 e passim. Inoltre: M.E.L. Guidi, ‘Il sapere e l’esperienza che l’Italia contemporanea è in grado di fornire’. L’inchiesta agraria Jacini tra statistica ed economia agraria, in La scienza economica in Parlamento 1861-1922, a cura di M.M. Augello - M.E.L. Guidi, Milano 2002, pp. 531-573; D. Giaconi, I “Principi di scienza economica” di G. V.: le ragioni di uno sconfitto, in L’economia divulgata. Stili e percorsi italiani (1840-1922), I, Manuali e trattati, a cura di M.M. Augello - M.E.L. Guidi, Milano 2007, pp. 325-353.