utilità
La rilevanza del concetto di utilità nella teoria economica
Il ruolo e il significato del concetto di utilità hanno subito profondi mutamenti nella storia dell’analisi economica: il problema della misurabilità si intreccia con quello della formulazione della teoria delle scelte del consumatore e con il tema centrale della determinazione dei prezzi.
Con la distinzione fra valore d’uso e valore di scambio A. Smith (➔) ha riservato all’utilità, sinonimo di valore d’uso, la funzione di semplice prerequisito del valore di scambio, che è positivo solo per una merce capace di soddisfare determinati bisogni o di essere desiderata da qualcuno (di essere cioè utile). Ma ciò si determina sulla base di elementi oggettivi, diversi dal valore d’uso, di volta in volta individuati nel lavoro comandato (Smith), nel lavoro incorporato (➔ Marx, Karl; Ricardo, David), nel costo di produzione in presenza di un saggio uniforme del profitto (➔ Sraffa, Pietro). Questa posizione è estremizzata nel ‘paradosso del valore’ di Smith: all’acqua, bene indispensabile per la vita, di altissimo valore d’uso, ma privo di valore di scambio, si contrappongono i diamanti, di scarso valore d’uso, ma di altissimo valore di scambio.
J. Bentham (➔) fu, all’inizio del 19° sec., una voce discordante in questo panorama. Il principio dell’utilità e del calcolo dell’utilità, nonostante le riconosciute difficoltà di misurazione, viene eretto a criterio di valutazione della legislazione e degli interventi che, nell’impostazione filosofica di Bentham, devono mirare alla massimizzazione del benessere della collettività, misurato dalla somma delle utilità individuali.
Con l’approccio marginalistico si verificò un fondamentale mutamento di prospettiva nella teoria della determinazione dei prezzi: alla teoria oggettiva del valore si contrapponeva una concezione soggettiva, secondo cui il valore dei beni nasce dal confronto tra la scarsità delle risorse e l’utilità attribuita ai beni dagli individui. Il passaggio analitico verso la nuova teoria era reso possibile dalla distinzione tra utilità totale (derivante dal consumo di una determinata quantità di un bene) e utilità marginale (incremento dell’utilità totale dovuto all’aumento di una quantità piccola, ossia ‘marginale’, del bene consumato).
I primi contributi significativi in questo campo, ancorché passati inosservati e trascurati dalla professione, furono quelli dell’economista francese A.J. Dupuit (1844), che si servì del principio dell’utilità marginale decrescente per elaborare quello di surplus (➔) del consumatore, e del tedesco H. Gossen (1854), che formulò il problema delle scelte del consumatore in termini di massimizzazione dell’utilità, individuando la condizione di massimo nel criterio dell’uguaglianza delle utilità marginali dei singoli beni, ponderate con i rispettivi prezzi.
Il principio marginalistico si impose come fondamento della teoria del valore intorno al 1870, con la pubblicazione indipendente dei lavori di W.S. Jevons (➔), C. Menger (➔) e L. Walras (➔) rispettivamente in Inghilterra, in Austria e in Svizzera. In particolare, Jevons, nel 1871, ricorreva alle funzioni di utilità marginale dei soggetti coinvolti nello scambio per dedurre il rapporto di scambio di equilibrio tra due prodotti; Menger, sempre nel 1871, estendeva il principio marginalistico alla determinazione dei costi di produzione; Walras, nel 1874, derivava le funzioni individuali di domanda dal principio della massimizzazione dell’utilità ed elaborava, al contempo, la teoria dell’equilibrio economico generale, nella quale il sistema dei prezzi di equilibrio è determinato dall’incontro della domanda e dell’offerta sui mercati di tutti i beni. ● La definitiva affermazione del principio marginalistico si realizzava, peraltro, soltanto con la pubblicazione nel 1890 dei Principles of economics di A. Marshall (➔), che divenne, per oltre mezzo secolo, il testo di riferimento per la professione e per l’insegnamento dell’economia politica.
Nell’approccio marginalistico del 1800 l’utilità è «una sensazione resa evidente attraverso l’introspezione, indipendentemente da ogni osservazione esterna, e una grandezza direttamente misurabile» (J.A. Schumpeter, History of economic analysis, 1954). È su questi due aspetti che si incentrò l’elaborazione teorica iniziata attorno al passaggio dal 19° al 20° sec. con l’opera di F.Y. Edgeworth (➔) e V. Pareto (➔) e culminata, dopo la metà del 1900, con i lavori di P. Samuelson (➔), K.J. Arrow (➔) e G. Debreu (➔).
Gli economisti della rivoluzione marginalista danno sostanzialmente per scontata la misurabilità dell’utilità in senso cardinale (➔ cardinale, utilità). La teoria delle scelte di un consumatore risulta quindi ancorata all’idea che l’utilità di un paniere di beni sia data dalla somma dell’utilità dei consumi di ciascuno di essi, che il metro di riferimento sia l’utilità marginale della moneta, per ipotesi costante e di prezzo unitario, che le differenze di utilità abbiano significato in termini quantitativi. Edgeworth, abbandonando l’ipotesi di additività, assume che l’utilità dipenda congiuntamente dalle quantità consumate di tutti i beni e introduce lo strumento analitico delle curve di indifferenza, che prelude al superamento della misurabilità in senso cardinale; ne risulta preclusa la possibilità di calcolare l’utilità marginale di una merce indipendentemente dall’intero paniere di consumo. Pareto, nel Manuale di economia politica (1906), respinge nettamente il principio della misurabilità in senso cardinale, mostra che i concetti di utilità totale e marginale non sono necessari per la determinazione dell’equilibrio, rifiuta l’idea benthamiana della possibilità di effettuare confronti interpersonali di utilità.
L’elaborazione teorica corrente affronta il problema delle scelte del consumatore supponendo che ogni individuo disponga di un sistema di preferenze, definite da appropriati assiomi (➔ preferenze, assiomi sulle p) e direttamente rappresentabili attraverso curve di indifferenza. Al principio dell’uguaglianza delle utilità marginali ponderate si sostituisce il criterio dell’uguaglianza fra i saggi marginali di sostituzione (➔ saggio) e il rapporto fra i prezzi dei beni e si derivano le funzioni di domanda degli agenti. Il concetto di utilità riemerge come grandezza derivata nella dimostrazione che le preferenze sono rappresentabili mediante una funzione di utilità ordinale; ritorna conseguentemente anche la nozione di utilità marginale, dato che il saggio marginale di sostituzione è uguale al rapporto fra le utilità marginali. Con la teoria delle preferenze rivelate (➔ rivelate, preferenze) di Samuelson (1938) si allarga ulteriormente il divario già esistente fra utilità e teoria delle scelte: il dato di partenza è ora costituito dalle scelte del consumatore, dalla loro capacità di rivelarne le preferenze e dal risultato che ne deriva sotto precise ipotesi di coerenza interna (assiomi delle preferenze rivelate).