usurai
I peccatori di usura (v.), come preannunciato in If XI 50, gli u. (D. adopera la parola usuriere, e una sola volta, al v. 109, e non ricorre ad altri appellativi), sono puniti nel terzo girone del settimo cerchio, dei violenti contro Dio, natura e arte. L'episodio occupa i vv. 43-78 del canto XVII.
Mentre Virgilio e D. rivolgono i passi verso Gerione, D. vede gente seduta sul sabbione infuocato. Virgilio lo invita ad avvicinarsi. I peccatori, seduti sulla rena, rivelano il loro dolore con lagrime violente, mentre menano con le mani una continua tresca per difendersi dalla pioggia di fuoco. D. non ne riconosce nessuno, ma scorge appesa al collo di ciascuno una tasca, che porta impresso lo stemma nobiliare della famiglia, e sulla quale è fissato con avidità l'occhio del dannato. Il poeta viene apostrofato da un u. (Reginaldo degli Scrovegni), che si rivela unico padovano tra fiorentini e nomina un suo vicino (Vitaliano del Dente) preannunciando poi la venuta del cavalier sovrano (Gianni Buiamonte) e chiude il suo intervento con una smorfia bestiale della bocca e della lingua. Da quanto detto risulta evidente nella pena l'applicazione della legge del contrapasso (v.): l'u. è seduto nella posizione a lui consueta in terra (" Bull. " IX [1901-02] 114: " ad tabulam sive banchum cum tascha et libro ") e ha gli occhi fermi sull'oggetto simbolo della sua professione, irrigidito per l'eternità in un atteggiamento di sterile stravolto sguardo (l'uso del verbo ‛ pascere ', adoperato nella Commedia quasi esclusivamente per gli animali e, comunque, con una connotazione negativa d'ingordigia - eccezione di un unico caso - suggerisce l'impressione di un'umanità degradata al livello bestiale), quasi a realizzare la condanna dell'Ecclesiaste (4, 8): " nec satiantur oculi eius divitiis ".
Altro particolare che pare legato alla legge del contrapasso è il movimento frenetico delle mani. " Le mani che Dio attraverso la natura ha voluto strumenti di lavoro, di quell'arte che gli usurai hanno bestemmiato, rimaste inerti in vita, sono condannate nell'eternità, per stupendo contrapasso, ad agitarsi in una vana difesa: un agitarsi in cui è perduta la dignità miracolosa della mano, la sua divina prerogativa, di trasformatrice del mondo e di suggellatrice, nell'arte, di nuovi mondi " (Getto).
Va però precisato che non si tratta di un gesto specifico degli u., ma di tutti i violenti, gesto istintivo di difesa. Nel girone dei bestemmiatori infatti rileviamo l'identico gesto: Sanza riposo mai era la tresca / de le misere mani (If XIV 40-41); Brunetto Latini, poi, spiega a D. come una sosta nel loro eterno camminare flagellati dal fuoco comporterebbe un aggravio di pena, perché dovrebbero stare cento anni sanza arrostarsi.
Il particolare delle borse appese al collo con gli stemmi nobiliari (e si noti che il gusto figurativo suggerisce a D. le note più intensamente coloristiche di tutto l'Inferno) potrebbe far supporre che non si tratti degli u. in genere, ma degli u. ‛ nobili ' per schiatta. Niente però giustifica questa ulteriore specificazione di schiera, mentre è più probabile l'interpretazione che insiste sulla motivazione generale offerta da D. stesso (Pd XVII 136-138): Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l'anime che son di fama note. La caratteristica della nobiltà tuttavia (come tra i sodomiti i cherci e litterati grandi e, tra gli avari, ancora i cherci) rivela in D. la volontà di circoscrivere in senso sociale la categoria degli u., ribadendo la polemica contro la degradazione morale della nobiltà e, in particolare per quanto riguarda Firenze (tutti fiorentini, meno uno, gli u. incontrati, si è già detto), contro l'intrusione tra i nobili di nuove indegne schiere (la gente nuova e i sùbiti guadagni di If XVI 73), polemica che si distende sì per tutta la Commedia, ma che si accentua nei colloqui di D. con Ciacco e con Brunetto Latini.
Lo sdegno di D. e il rifiuto di riconoscere alcuno - non ne conobbi alcun, If XVII 54 - in analogia a quanto detto per gli avari - VII 53-54 la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni - si traduce anche in quel processo d'imbestiamento che costituisce uno dei motivi dominanti dell'episodio, dal paragone con i cani che si difendono nella calura estiva - or col ceffo or col piè (XVII 50) - dal morso degl'insetti, alla galleria animalesca - leone, oca, scrofa, becchi - degli stemmi, alla volgare e torpida contraffazione del volto: come bue che 'l naso lecchi (v. 75). È il segno conclusivo di una condanna anche tutta fisica, che risolve nell'abiezione animalesca quelli che avrebbero dovuto essere, per gli obblighi che la ‛ nobiltà ' impone, tratti di grazia e di gentilezza, di virtù e ‛ larghezza ', inconciliabili con l'avidità delle ricchezze: possedendo quelle [le ricchezze], larghezza non si fa, che è vertude ne la quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e amati; che non può essere possedendo quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: " Allora è buona la pecunia, quando, trasmutata ne li altri per uso di larghezza, più non si possiede " (Cv IV XIII 14).
Bibl. - Cfr. la voce USURA, e le più importanti lecturae di If XVII: G. Getto, in " Letterature Moderne " III (1952) 276-288 (rist. in Lett. dant. 315-329); P. Soldati, Firenze 1961 (rist. in Lect. Scaligera I 563-577); F. Lanza, in Nuove Lett. II 117-135.