uscire [eschi, cong. pres. II singol., in rima; uscisse, cong. imperf. I singol.; uscinci, pass. rem. III plur., in rima]
Il verbo ha larga attestazione in tutte le opere sicuramente dantesche. Presente nel Fiore, manca invece nel Detto.
Il suo significato fondamentale è quello di " andare o venir fuori " da un luogo chiuso o comunque circoscritto. In tal significato accetta come soggetti persone o cose (anche entità astratte), e si presta a usi propri e figurati. Talvolta in costrutto assoluto, si trova spesso seguito dalle preposizioni ‛ di ', ‛ da ', ovvero accompagnato da ‛ ne ' o ‛ ci ' avverbiali, come dall'avverbio ‛ onde '. Può anche essere rinforzato da ‛ fuori ' (ad es. in Rime CII 53, If XXVII 6, Pg I 17, ecc.). Peculiare la reggenza di un sostantivo o di un infinito preceduti da ‛ a ': uscito fuor del pelago a la riva (If I 23); quindi uscimmo a riveder le stelle (XXXIV 139).
A illustrazione del significato fondamentale valgano i seguenti esempi: anzi ch'io uscisse di questa camera (Vn XII 9); anzi ch'elli uscissero di questa cittade (XL 4); Se manifestamente per le finestre d'una casa uscisse fiamma di fuoco (Cv I XII 1): si noti la funzione del ‛ per ', altrove completato in per mezzo (Rime CII 35); uscire di porto (Cv IV IX 12; la stessa espressione, ma in contesto figurato, in II I 1); prima che noi uscissimo del lago (If VIII 54); la navicella esce di loco / in dietro in dietro (XVII 100); li fanti / … uscivan patteggiati di Caprona (XXI 95); la porta / onde uscì de' Romani il gentil seme (XXVI 60: dove la porta o è materialmente la " breccia " nelle mura troiane da cui uscirono gli esuli destinati a fondare Roma, o è espressione figurata); tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta (Pg I 17, con allusione all'Inferno); le pecorelle escon del chiuso (III 79); li profondi fóri / ond'uscì 'l sangue in sul quale io sedea (V 74; simile XXI 84); sanguinoso esce de la trista selva (XIV 64, luogo metaforico); ferro che bogliente esce del foco (Pd I 60; v. anche If VIII 72); Quasi falcone ch'esce del cappello (Pd XIX 34: " a cui viene tolto il cappuccio "); quella spera ond'uscì la primizia / che lasciò Cristo d'i vicari suoi (XXV 14); Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch'è pura luce (XXX 38); Di tal fiumana uscian faville vive (XXX 64); giorno e notte de l'uscirne arrabbia (Fiore CLXXXIII 13: l'uccello del bosco dalla gabbia). Altri luoghi affini: Vn XL 10 11, Cv I XI 5 (figurato), IV XXVIII 7 (tre volte), If I 23, IV 49, VIII 81, XXI 70, XXIII 130, XXXII 113, XXXIV 139, Pg I 44 e 90, XI 36, XVII 11, XX 73 e 79, XXVI 15, XXXII 131, Pd IV 93 (espressione propria in un luogo figurato), VI 6 e 61, XXIV 20 e 88, XXVI 3 e 31, XXX 69 e 77, Fiore CXCVIII 14.
È riferito alla freddezza della donna, in Rime CII 53 entrale in core omai [l'invito è rivolto alla virtù], ché ben n'è tempo, / sì che per te se n'esca fuor lo freddo; alla virtù che muove dalla corte d'Amore, in CVI 32 lietamente esce da le belle porte, / a la sua donna torna.
Assumendo come termine di relazione gli occhi, può indicare lo sgorgare delle lagrime (S'i' vi vedesse uscir de gli occhi ploia, Rime CXIII 12) o il vibrare degli sguardi amorosi: li occhi, ond'escon le faville / che m'infiammano il cor (CIII 74); De li occhi suoi, come ch'ella li mova, / escono spirti d'amore inflammati (Vn XIX 12 52). Altrove è adoperato per gli spiriti del cuore (diventino o no parola), per le parole, per la voce, per i sospiri: Li spiriti dolenti disviati, / che n'escon de lo cor (Rime dubbie XVII 10); poi prende Amore in me tanta vertute, / che fa li miei spiriti gir parlando, / ed escon for chiamando / la donna mia (Vn XXVII 4 11); mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri (XVIII 5); tutti quasi diceano nel loro uscire quello che nel cuore si ragionava (XXXIX 3: unico caso d'infinito sostantivato); Oltre la spera che più larga gira / passa 'l sospiro ch'esce del mio core (XLI 10 2); ‛ Te lucis ante ' sì devotamente / le uscìo di bocca, ecc. (Pg VIII 14). Altre occorrenze riguardano casi più complessi: Piangendo [i sospiri] uscivan for de lo mio petto / con una voce che sovente mena / le lagrime dogliose a li occhi tristi. / Ma quei che n'uscian for con maggior pena / venian dicendo (Vn XXXIV 10 9 e 11 12): il piangendo sembra doversi qui interpretare come " parlando ", secondo la precisazione dantesca: la terza [parte del sonetto comincia] quivi: Piangendo uscivan for. Questa parte si divide in due: ne l'una dico che tutti li miei sospiri uscivano parlando, ecc. (XXXIV 4 e 5); lo gel che m'era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca / e de li occhi uscì del petto (Pg XXX 99: in questa occorrenza l'origine del moto sta nel petto; gli occhi e la bocca sono il tramite per il quale passano lo spirito e l'acqua).
Per analogia aggiungeremo ai precedenti alcuni luoghi in cui parole e suoni (miste occasionalmente con altri elementi) vengono fuori da fonti disparate (anche se all'origine c'è un parlante): de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue (If XIII 43); una voce uscì de l'altro fosso (XXIV 65); qual esce di cuor che si rammarca, / tal voce uscì del cielo e colal disse (Pg XXXII 127 e 128); Fecesi voce quivi [nel collo dell'aquila], e quindi uscissi / per lo suo becco in forma di parole (Pd XX 28, ancora costruito con ‛ per '; si noti la forma pronominale); Subitamente questo suono uscìo / d'una de l'arche (If X 28); un'altra [fiamma]... / ne fece volger li occhi a la sua cima / per un confuso suon che fuor n'uscia (XXVII 6); di molti amori / usciva solo un suon di quella image (Pd XIX 21); Appresso uscì de la luce profonda / che lì splendeva: " Questa cara gioia... " (XXIV 88). Così di lamenti: fuor [delle arche] n'uscivan sì duri lamenti, ecc. (If IX 122).
In Pd XVII 8 sì ch'ella esca / segnata bene de l'interna stampa, il soggetto grammaticale sotteso al pronome ella è la vampa / del tuo disio (cfr. i vv. 7-8), ma in sostanza il verbo riguarda le parole che esprimono il desiderio.
Con differenze semantiche tanto leggere da permettere in qualche caso lo spostamento del vocabolo da un'accezione all'altra (e tenendo presente che per la fluidità dei valori alcune delle accezioni già illustrate potrebbero essere assorbite da quelle che seguono), u. può inoltre significare " provenire ": Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse / che tante voci uscisser, tra quei bronchi, / da gente che per noi si nascondesse (If XIII 26); tal puzzo n'usciva (dalla bolgia dei falsari, XXIX 50; cfr. Pg XIX 33 mi svegliò col puzzo che n'uscia); l'odor ch'esce del pomo (Pg XXIII 68); vidi uscir de l'alto e scender giùe / due angeli (VIII 25: il sintagma contiene implicita l'idea del " rendersi visibile "); " derivare ": sì che non esca / dal benefizio loda (Rime CVI 116: si allude a un beneficio fatto con rincrescimento e che pertanto non merita lode); Però d'un atto uscir cose diverse (Pd VII 46); il mirabile frutto / ch'uscir dovea di lui e de le rede (XII 66: la metafora del frutto richiama alla lontana l'immagine della terra da cui spunta l'albero destinato a produrlo; affine ma non identico il luogo di Cv IV XXI 14); io prego la mente in che s'inizia / tuo moto e tua virtute, che rimiri / ond'esce il fummo che 'l tuo raggio vizia (Pd XVIII 120, dove si riflette un rapporto di causa ed effetto, come in If II 18 l'alto effetto / ch'uscir dovea di lui; v. anche Pd VII 108); " generarsi ", " nascere ": la paura ch'uscia di sua vista (If I 53); secondo raggio suole / uscir del primo e risalire in suso (Pd I 50: anche qui si può pensare a un rapporto causa-effetto); Quell'altro fiammeggiar esce del riso / di Grazïan (X 103); " promanare ": De gli occhi di quella gentil mia dama / esce una vertù d'amor (Rime dubbie XXVI 2); nel folgór chiaro che di lei uscia (Pd V 108).
Più definiti altri valori: " scaturire ": Quale del Bulicame esce ruscello, If XIV 79; Eüfratès e Tigri / veder mi parve uscir d'una fontana, Pg XXXIII 113; e sulla stessa linea Pg XXVIII 124 e Pd IV 116, figurato; " spuntare ", " emergere ": una gente che 'nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse (If XII 117); venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, / sanza la testa, uscia fuor de la grotta (XXXI 114); Lo 'mperador del doloroso regno / da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia (XXXIV 29); uno scoglio de la ripa uscia (XVIII 69); Cirïatto, a cui di bocca uscia / d'ogne parte una sanna (XXII 55); l'erba che 'n sua ripa uscìo (Pg XXVIII 27); e anche If XXV 126, XXXIV 46, Pg II 24, XI 117; " sorgere ": infin che l'altro sol nel mondo uscìo (If XXXIII 54); [la lucerna del mondo] con miglior corso e con migliore stella / esce congiunta (Pd I 41); la notte... / uscia di Gange fuor con le Bilance (Pg II 5).
Il verbo in particolari costrutti sta inoltre per " abbandonare " un cammino o un proposito, in Pg IV 66 se non uscisse [lo Zodiaco] fuor del cammin vecchio; Vn X 3 uscendo alquanto del proposito presente; Fiore XCI 14; per " distaccarsi " da un gruppo, in If II 105 quei che t'amò tanto, / ch'usci per te de la volgare schiera (fuor di metafora, " che si sollevò moralmente e letterariamente "); V 85 cotali uscir de la schiera ov'è Dido; Pg XXIV 94 Qual esce alcuna volta di gualoppo / lo cavalier di schiera che cavalchi; per " sbucare " attraverso un foro, in If XXXIV 85 Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso; per " propagarsi ", in If XXVII 78 sì menai lor arte, / ch'al fine de la terra il suono uscie (cfr. Matt. 9, 26 " exiit fama haec in universam terram illam ", e anche Luc. 4, 14). Bizzarra e non accettabile è la variante uscita scabbia in luogo di asciutta scabbia, in Pg XVIII 49; cfr. Petrocchi, ad locum.
A parte vanno considerate alcune forme locuzionali: If XXXII 58 D'un corpo usciro, di due fratelli " nati dalla stessa madre "; Pd XX 103 D'i corpi suoi non uscir... / Gentili, ma Cristiani, cioè non " morirono " pagani ma cristiani; If XX 58 Poscia che 'l padre suo di vita uscìo, comune per " morì ": cfr. Vn XXII 1 e Pg V 56; Pd XXV 84 la virtù... mi seguette / infin la palma e a l'uscir del campo, ancora per " morire ", con espressione guerresca adattata alla ‛ milizia ' cristiana; Rime LXI 3 di guinzagli uscir veltri correnti, a proposito di cani prima trattenuti e poi liberati dal guinzaglio, similmente a If XIII 126 come veltri ch'uscisser di catena; XXI 68 Con quel furore e con quella tempesta / ch'escono i cani a dosso al poverello: i cani vengon fuori probabilmente dall'uscio, per " avventarsi " (escono... a dosso) sul mendicante; XIV 45 demon duri / ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, " ci si fecero incontro " minacciosamente, come suggerisce il contesto; Rime CIII 7 non esce di faretra / saetta, non " viene scagliata " (in un passo figurato); Pg VIII 15 fece me a me uscir di mente, allusione al rapimento estatico che coglie D. al canto di un'anima del Purgatorio, inducendolo a " dimenticar sé stesso "; Pd XXIII 44 la mente mia così, tra quelle dape / fatta più grande, di sé stessa uscìo: nel presente luogo l'excessus mentis (v. Act. Ap. 10, 10) si attua in un dilatarsi dell'intelletto oltre le sue naturali misure (" ingenium auctoris... exaltatum est supra naturam suam ", Benvenuto); Pg XXI 102 uscir di bando, nelle parole di Stazio, a indicare la liberazione dall'esilio del Purgatorio; XVI 85 Esce di mano a lui [a Dio] ... / l'anima semplicetta, realistico rimando all'opera creatrice di Dio, raffigurato quasi come un fabbro dell'anima umana: il modulo affine di Fiore CLI 8 i' non uscirò lor mai di tra mano, significa figuratamente, con riferimento al v. 6, " io non mi sottrarrò mai all'ira, al dolore, al tormento "; Pd XXIX 23 Forma e materia, congiunte e purette, / usciro ad esser che non avio fallo, / come d'arco tricordo tre saette, dov'è esposto il processo dal sub-sistere (cfr. il v. 15) all'ex-sistere: come da un arco a tre corde scoccano simultaneamente tre saette così in uno stesso istante dalla mente divina usciro ad esser, si tradussero in esistenza, la forma pura, la materia pura e la materia congiunta.
Infine, u. d'un dubbio (If XXXII 83) vale " liberarsi " da esso, scioglierlo.